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L’incomunicabilità degli affetti e l’inesistenza di solidarietà in famiglia ai tempi dell’iphone: questo mi saltava continuamente alla mente durante la visione del film. Un film fatto di sconnessioni e sovrapposizioni, inganni e affetti taciuti, in cui il pubblico onnisciente può vantare quelle consapevolezze che ai protagonisti non apparterranno mai.

TRAMA 

La piccola Eve lascia la casa della madre quando questa viene ricoverata in ospedale per un malore, e si trasferisce a vivere presso la villa della borghesissima famiglia paterna: il padre -medico che protrae un’ormai atrofizzata relazione con la nuova compagna, con la quale ha un bimbo-, la zia (Isabelle Huppert) -un’instancabile imprenditrice estranea agli affetti sinceri, ma acida ed avida- ed il nonno Georges (Jean-Louis Trintignant), il personaggio più intenso, acuto ed interessante della famiglia, che, arrivato ad 85 anni, reputa di aver vissuto abbastanza e non vede l’ora cali il sipario sul palcoscenico della sua vita.
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La piccola Fantine Harduin è Eve, la giovanissima protagonista
ANALISI / COMMENTO
Il racconto ci mette un po’ ad ingranare: ad un inizio più lento e complicato si sostituisce presto uno sviluppo più lineare (anche se mai serratissimo), in cui lo svolgersi di una vicenda apparentemente ordinaria viene spesso interrotto da inusuali inserimenti di riferimenti a quella che è l’intimità di ciascun personaggio, esplicata tramite i rapporti via social.
Nessuno è veramente sé stesso come lo è su Facebook, in collegamento con qualcuno che non conosce o che almeno non può vederlo; nessuno è veramente libero come quando chatta, come quando inventa e crea sé stesso come gli pare, o come vorrebbe essere.

Su una piattaforma simile a snapchat, Eve esprime tutti i dolori e le frustrazioni che nella vita reale tiene celati dietro un apparente sorriso di Gioconda, mentre tramite Facebook suo padre può liberare tutti i suoi più “bassi” istinti segreti con un’altra donna, di nascosto dalla compagna ufficiale.

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Isabelle Huppert è Anne Laurent
L’unico ignaro della possibilità di sfogo al di fuori della quotidianità, perché estraneo alle tecnologie e al concetto di doppia vita ormai insediato come fosse naturale nella nostra realtà, è il nonno di famiglia, Georges, il più sincero e forse sensibile di casa, le cui intenzioni ed il cui fastidio per la vita sono più limpidi che mai, grazie alle ripetute dimostrazioni di riluttanza.
Ad un blocco giovanile immune all’onestà e all’affrontare i fallimenti vis à vis, quasi morto nell’annoiarsi e nel ripetere quotidianamente la recita di maschere fisse e inespressive, si contrappone così un uomo anziano paradossalmente molto più attaccato alla vita (ma a quella vera) e molto più simile ad un bambino, ancora alla scoperta di tutto, specialmente dei travestimenti altrui. Quasi in un silenzio onnisciente.
La regia di Haneke è attualissima: ad una narrazione ordinata e leggermente episodica, dominata dal montaggio di scene molto parlate e piuttosto brevi, si sposa la presenza di piani sequenze più lunghi, questi ultimi perlopiù di impronta drammatica e dominati da silenzi o dialoghi meno serrati.

A spezzare la linearità narrativa, sono inseriti elementi extra-ordinari, quali le proiezioni dirette degli scambi di sms o email tra i protagonisti e qualche interlocutore che non vedremo mai: la natura superficiale ed effimera di tutto ciò fa da contraltare all’inevitabile recita quotidiana, e non lascia indifferenti affatto, perché riguarda noi tutti.

Jean-Louis-Trintignant-Happy-End
Jean-Louis Trintignant è Georges Laurent
Qual è la realtà? Qual è la nostra vera faccia, quella virtuale o quella fisica? Perché nascondiamo nei tablet i nostri segreti? Perché cerchiamo amici online per confessare i nostri desideri più reconditi o i nostri dolori? Ma soprattutto, perché l’etere ci succhia priva la vita quotidiana di sensibilità, empatia e spontaneità?
Ad ogni modo, non è la la tecnologia la protagonista del film, anzi: essa è solo una dei tanti piccoli tasselli di un puzzle familiare ormai scomposto (se mai è stato ordinato prima), inaridito e sterile, in cui i pezzi non si incontrano mai, e se lo fanno, è tutta superficie. Forse vera protagonista di questa storia è la maschera dell’anaffettività, e gli altri personaggi sono gli scarti generazionali, la scaltrezza, l’infanzia, la menzogna e -soprattutto- un’ interrogazione sul senso della vita e della morte, sul diritto di vivere e lasciare morire, o di morire e lasciare vivere.
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Jean-Louis Trintignant nei panni di Georges Laurent
Il cast è straordinario: Jean-Louis Trintignant è sempre impeccabile, questa volta nei panni di un uomo che suscita simpatia e tenerezza al tempo stesso (sia risate, sia commozione) grazie solo alla sua ben nota grande espressività ed Isabelle Huppert non delude neppure stavolta, nei panni di una donna disattenta ai bisogni familiari reali. La giovane Fantine Harduin, è una promessa: non tutte le ragazzine della sua età hanno la stessa acuta sensibilità nello sguardo, e capacità di esprimere senza esprimere un dissidio interiore; anzi, spesso i giovani attori cadono nel cliché, rischiando di banalizzare quella che invece è la complessità di un bambino: con lei non succede.
In concorso al 70esimo festival del cinema di Cannes, apprezzato particolarmente per l’interpretazione di Jean-Louis Trintignant, questa è l’opera scelta come Best picture in a foreign language per rappresentare l’Austria agli Oscar 2018.
Personalmente l’ho apprezzato moltissimo: mi sento così di consigliarlo vivamente a tutti, nessuno escluso, perché il buon cinema non fa mai differenze.
VIDEO RECENSIONE:
Carmen