
Sapere che Jeff Bauman, sopravvissuto all’attentato alla maratona di Boston del 15 aprile 2013, nonché protagonista della storia, ha partecipato attivamente alla realizzazione del film (è proprio suo il libro autobiografico su cui è basato il racconto cinematografico) lascia un po’ perplessi: tutto sommato, nonostante le buone premesse, il film non è sto granché, purtroppo.
Stronger, diretto da David Gordon Green e recitato da un sempre intenso Jake Gyllenhaal, racconta appunto la tragica vicenda del giovane Jeff, che -in seguito all’incidente sopracitato- perde entrambi gli arti inferiori, ed, insieme a questi -inevitabilmente- la voglia di vivere.
La vicenda narrata segue la vita del protagonista a partire dal giorno dell’episodio sino al momento in cui fa effettivamente pace con sé stesso e con la sua condizione di disabile, costretto ad un’interminabile riabilitazione, all’utilizzo di protesi per poter tornare a camminare, ma soprattutto ad affrontare un trauma psicologico assai consistente e complesso.
L’impotenza di Jeff di fronte al dolore fisico ed interiore, in seguito all’incidente, assieme alla speranza nella vita -enfatizzata soprattutto nell’epilogo- sono resi prevedibilmente magistralmente da un Jake Gyllenhaal da sempre abituato ed abile nelle sfide attoriali, qui sicuramente in una delle sue performances più intense.

Ma lo sforzo non vale la candela, vale a dire il film non merita tanto talento, né l’attrattiva che forse fino a poco tempo fa sembra aver esercitato sul pubblico.
Ad una storia che avrebbe potuto basarsi sul dolore personale di Bauman di fronte alla morte prima ed alla sua nuova vita/non vita poi, si sostituisce un continuo soffermarsi sulla componente familiare, uno dei peggiori concentrati di luoghi comuni mai visti negli ultimi tempi. Jeff è figlio di genitori separati: il padre è assente e la madre pedante, ignorante e poco empatica, più interessata a cavalcare l’onda mediatica e a rendere il figlio una star (così da brillare del suo riflesso per ricavare un po’ di orgoglio e gioia dalla vita); il fratello e gli amici sono a loro volta umanamente molto distanti da lui e soprattutto dalla sua nuova condizione, che lo costringe ad una vita sedentaria e uno stato dell’umore ovviamente più basso e teso all’introversione.
Fortunatamente c’è una luce nella vita di Jeff, e questa è l’amata fidanzata Erin , divenuta poi sua moglie nel 2014, ma anche in questo caso il film non riesce a brillare: se il loro amore è fonte di crescita personale e di speranza per Jeff, nella pellicola ciò viene espresso con un’immediatezza e banalità spiazzante, senza l’unicità che avrebbe permesso a questa classica storia americana di collocarsi in un posto tutto suo, grazie ad una scrittura originale e una regia creativa, che invece non esistono.

A quello che poteva essere un interessante viaggio nella vita interiore di un uomo, in un’esperienza post-traumatica, si sostituisce la classica storia in chiave semi-agiografica di un ragazzo americano che diventa un eroe nazionale ecc ecc ecc.
Peccato, perché i momenti toccanti non sono mancati (e quando mai mancano in questi film, del resto?), la recitazione -specialmente di Jake- è stata impeccabile e il messaggio complessivo è davvero positivo e -per quanto banale- mai pienamente scontato. Peccato, soprattutto, perché, anche quest’anno, è difficile Jake riesca ad ottenere qualche riconoscimento serio: stavolta sarebbe davvero il film sbagliato per premiare il suo grande talento.
Il giudizio complessivo è sufficiente, ma non supera quella soglia, nonostante le ottime prove attoriali ed alcuni momenti assai intensi: manca l’unicità a rendere incisiva una storia che, così raccontata, diventa una tra le tante, e che invece sicuramente è dotata di una singolarità propria.
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Carmen
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La mia recensione un po’ impietosetta:
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