
Il 25 dicembre del 1899 nasceva Humphrey DeForest Bogart, senza esagerare la più celebre figura cinematografica della storia, nonché uno dei miei attori preferiti in assoluto.
Come non celebrare il suo 118esimo compleanno ricordando l’iconico di Rick Blane nel celeberrimo Casablanca, in occasione anche del 75esimo anniversario dell’uscita del film?
Come di consuetudine nel periodo più florido e felice della grande stagione del cinema statunitense, la cosiddetta Golden Age of Hollywood, ai più amati attori veniva spesso associato un personaggio “tipo” che tendenzialmente accompagnava l’interprete più o meno frequentemente nel corso di tutta la sua carriera, contribuendo grandemente alla sua fortuna e all’aumento del suo gradimento nei cuori del pubblico.
Nel caso di Bogart, come molti già sapranno, si trattò di un’iconizzazione lenta e travagliata: non era troppo alto, non era troppo ‘bello’ nel senso convenzionale del termine (pur avendo fascino da vendere) ed era relativamente ‘troppo adulto’ quando, dopo un periodo in marina (che gli procura quella celebre cicatrice sul labbro superiore) ed una fortunata stagione a Broadway -dove incontra il suo grande amico Leslie Howard, che sarebbe stato proprio uno dei fautori della sua fortuna (gli procurò un ruolo di rilievo ne La foresta proibita)- approdò al cinema.

Hollywood lo respingeva o lo relegava per lo più a ruoli marginali e da ‘villain’, grazie a quel volto un po’ vampiresco, all’aria talvolta torva e all’incedere misterioso. Nel 1939, all’età di 40 anni, fatta eccezione per parti rilevanti in film importanti, non aveva ancora ottenuto un ruolo notevole.
La svolta arriva nel 1941, con la partecipazione di Bogart al film “Il mistero del Falco”, di cui è protagonista indiscusso nei panni del cupo ma giusto detective Sam Spade, destinato a scolpire la figura di Bogart nell’immaginario collettivo: impermeabile chiaro, cappello floscio a larghe tese, sigaretta all’angolo della bocca, volto corrucciato e l’inconfondibile sorriso a denti stretti, reso singolare dalla cicatrice sul labbro.
Una simile declinazione dello stesso personaggio, che regala un incredibile fama e successo all’attore, da quel momento in avanti identificato con quel ruolo, sarà ritrovabile in moltissimi altri successi della sua carriera, quali appunto “Casablanca”, “Acque del Sud” ed “Il Grande Sonno” (tre perle imperdibili del cinema).
È proprio il primo di questa lista, “Casablanca”, ad aver compiuto, lo scorso autunno 75 anni.
75 anni di primato non indifferente: è la pellicola cinematografica più celebre ed iconica di tutti i tempi, anche e soprattutto grazie a Bogart, nei panni del cinico barman Rick Blane, solitario, ma romantico, duro, ma dal cuore d’oro. Forse un po’ troppo attaccato all’alcool (“Di che nazionalità è lei?” “Ubriacone”), ma è solo il rifugio per sopravvivere ad una vita senza Ilsa, un grande amore perso a Parigi. Ma poi Ilsa riappare proprio nel suo locale a Casablanca, in una serata movimentata, i due si rincontrano ed il resto è leggenda.

Il fatto è che ogni volta che si nomina Casablanca, si finisce per parlare per luoghi comuni. Si ricorda la dolce melodia di “As Time Goes By”, canzone-colonna del film, immortalata dal famoso Sam di “Play it again, Sam”, l’indimenticabile “alla tua salute, bambina” (here’s looking a you, kid”) pronunciato più volte da Rick, e poi, in conclusione, quel sussurrato “avremo sempre Parigi” (“we’ll always have Paris”). Rimangono impressi i costumi -l’immancabile impermeabile e cappello sulle ventitré di Bogart, gli abiti quasi lunari di Ingrid Bergman-, gli ambienti (che sarebbero poi stati ripresi da molte pellicole, l’ultima delle quali, la bellissima ma sottovalutata “Allied” (2016), di Robert Zemekis (che del film riprende vagamente anche la trama).
Ma dietro tutto ciò, che pure è indimenticabile e chiaramente concorre a conferire al film quell’aura di immortalità -insuperabile, per quanto si sia provato-, c’è molto di più: Casablanca è prima di tutto un inno alla libertà, e ne è prova -prima di tutto- quella fenomenale scena in cui all’inno tedesco, intonato dai gerarchi nazisti, si contrappone un commosso ma deciso coro che risponde con una sentitissima versione de “La Marsigliese” francese, inno alla libertà, alla pace, all’amore, a tutto ciò che si anima nel cuore dei frequentatori del bar, tra cui spiccano l’ex amante di Rick -Yvonne- e le lacrime che rigano il suo volto pallido (notevole il fatto che l’attrice, Madeleine LeBeau -resa celebre grazie a quella scena- era al tempo realmente emigrata a causa dell’occupazione nazista in Francia).
È un film che racconta la crudezza di quella guerra a cui nessuno presta mai attenzione, anche al di fuori del campo di battaglia, prendendo come esempio quei personaggi dei retroscena (come dimenticare la tragica vicenda di Ugarte-Peter Lorre?), l’immortalità dell’amore, l’instancabilità dei coraggiosi (e degli amanti), la speranza, la rinuncia.
È un film in cui tutti, prima o poi nella vita, si riconoscono per qualche motivo. A cui tutti tornano, per una cosa o per un’altra.
I più curiosi sanno che è una delle opere cinematografiche dalla gestazione più complessa e controversa: basato sulla pièce teatrale antinazista “Everybody comes to Rick’s” (1940), la sceneggiatura dei fratelli Epstein e di Koch subisce numerosi mutamenti nel corso delle riprese, con l’intento di seguire in diretta la cronaca politica e bellica del tempo. Ecco spiegata una delle ragioni per cui, uscito nel 1942 negli Stati Uniti e in gran parte del mondo, solo il 21 novembre del 1946, a dittatura e guerra conclusa, approda in Italia, un paese finalmente libero.

Sarebbe ridondante e un pochino inutile elencare l’infinita serie di citazioni che registi (Woody Allen, ad esempio, con il palese omaggio in “Provaci ancora Sam”), disegnatori e fumettisti (quanti episodi di Topolino furono dedicati al film, con tanto di protagonisti vestiti proprio come i due attori principali!), cantautori (persino Ligabue, per citarne uno contemporaneo) continuano, ininterrottamente, da oltre mezzo secolo, a dedicare al film; basti pensare all’incontenibile effetto farfalla che la pellicola produce attorno a sé da ormai ben 75 anni.

Ma più di tutto, più delle frasi celebri, più del tripudio di luci, musiche, istanti e sguardi, più del memorabile bianco e nero di una realtà che sembra nata per questi colori, più della commistione tra culture e dei contrasti politici, più della celebrazione di libertà e nobili ideologie, tutti elementi su cui si basa l’esistenza ed il concepimento stesso del film, di Casablanca rimane -come scolpito sulla grana- un uomo solo sotto la pioggia, nel chiaroscuro dell’addio in un aeroporto.
È Humphrey Bogart, avvolto nel suo largo impermeabile, sperduto in quella sua apparente solitudine, malinconico cittadino del mondo in guerra con sé stesso, re del cinema, volto del noir anni ’40, divo che non sopporta i divi, antieroe romantico fuori dal tempo, in tutti i tempi.
Carmen
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