C’è una scena memorabile di Pane e Cioccolata (Franco Brusati, 1973), in cui Giovanni -interpretato da uno straordinario Nino Manfredi in una delle sue migliori performance in assoluto- si ritrova in un’aia abbandonata nelle deserte lande svizzere, ricoperto di piume e circondato da ‘coinquilini’ grotteschi, lanciati in un’interminabile imitazione di polli e galline. Convinti di essere polli e galline.
Sono gli italiani.
Sono gli emigrati italiani.
Gli stessi italiani del boom, della lavatrice Candy, del juke-box, di Bobby Solo, Mina e Gino Paoli, della Cinquecento, della DC, del PCI, di Michelangelo, di Raffaello, di Rabagliati, di Sophia Loren.
Quegli italiani che però il boom ha tradito, o semplicemente ignorato.

Nel trentennio compreso tra gli anni ’50 e ’70, infatti, in tanti e tantissimi sono a prendere il Treno del Sole, dal Mezzogiorno a Torino, carichi di quelle borse pesanti che contengono la loro stessa casa e destinati ad una corea Milanese, o ad un seminterrato in periferia (chi ha dimenticato Rocco e i suoi fratelli, 1960?).
Ma -seppur in minor numero- molti si rassegnano anche all’idea di dover lasciare il paese ancora, come i loro genitori ed i nonni prima di loro erano volati negli Stati Uniti o in Argentina- diretti stavolta verso paesi più industrializzati: Germania, Belgio, Svizzera.
Svizzera. È nella Svizzera verde (così l’avrebbe chiamata De Gregori pochissimi anni dopo) che, con un borsone sgualcito pieno di camice a scacchi e fotografie di famiglia, giunge Nino Garofali (Manfredi), con la sola speranza di trovare un lavoro e di dare -se non un futuro- almeno un presente alla sua famiglia rimasta in Italia, e per quell’amore è disposto a tutto.
È pronto a farsi insultare in un ristorante di lusso, a prestare servizio come cameriere personale presso la villa di un miliardario depresso ed in bancarotta (che presto si toglierà la vita) ed infine a condividere la vita in un pollaio con un gruppo di italiani emigrati poco prima di lui e totalmente demotivati nei confronti dell’oggi e del domani.
Persa la dignità ed in qualche modo -con forte spinta caricaturale sul tema- l’umanità, sviliti da lavori servili ed isolanti, da un’alienazione forzata e cieca, i suoi compagni di vita sono ridotti a poco più che burattini, privi di capacità di intendere e di volere, intenti a lanciarsi in continue imitazioni di animali e a farsi tristi dispetti tra le piume.
Poco più che pollame.
Poco più che pollame d’allevamento, stipati l’uno sull’altra -uomini, donne, anziani, bambini- non hanno più un’identità, non hanno più un nome, non hanno più una vita, solo piume tra i capelli ed un passato congelato in un’Italia che non vedranno più.

Ma Nino non vuole diventare una bistecca, il cuore gli batte ancora. Lontano da casa e dagli affetti, intraprende una relazione umana (né sentimentale né d’amicizia, ma perché definire i rapporti?) con la bella Elena (la principessa della nouvelle vague, Anna Karina), sua vicina di casa emigrata dalla Grecia con un bambino, e si lascia andare a qualche attimo di gioia e compagnia, ricordando come fosse vivere in famiglia, come fosse sentire la vita attorno a sé.
Deciso più che mai a non lasciare i suoi in povertà, si promette di arrivare fino in fondo, giungendo al punto di tingersi i capelli di biondo per confondersi con gli indigeni e non sentirsi più bersaglio di quei cartelli Vietato l’ingresso ai cani e agli italiani.

Ma è proprio in un bar sport, dove l’Italia diventa Italia, tra la concitazione dei tifosi accaniti durante una partita -o una guerra- Italia/Svizzera, che Nino non riuscirà più a trattenere l’orgoglio nazionale dentro di sé. In una commovente esplosione di gioia mista al coraggio di manifestarsi, grida “GOL!”, rassegnandosi pacificamente all’odio degli astanti e alla consapevolezza della propria (non) appartenenza.
Un film da (ri)scoprire, con un Manfredi più malinconico e travolgente che mai, indimenticabile in quelle sue mise sgualcite, le camiciole boscaiole e solo i baffi rigorosamente curati, mentre sosta sul binario come un Charlie Chaplin latino, in attesa di prendere o perdere un treno per la Ciociaria.
E soprattutto, un dolore da ricordare, di un’ Italia da ricordare (che è ancora la nostra Italia), e degli italiani che eravamo noi e che siamo ancora profondamente noi.
Carmen
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