
C’era una volta, in un tempo neanche così lontano lontano, l’Italia un po’ contadina e un po’ americana del dopoguerra, tra i sogni e le speranze di un domani roseo e leggero costellato di canzonette e Caroselli, tra i freschi amori popolani e le gite in bicicletta. L’ultima Italia prima dell’inurbamento e del boom, prima del rock’n’roll e della televisione, immersa ancora nel verde delle campagne laziali o delle risaie piemontesi, persa tra i nastri e i romanzi classici, libera dal male e dal passato, ma ancora incastrata tra un prima e un dopo così distanti tra loro, tra Mariù e Marina.
Era l’Italia del realismo rosa.
Branca del più celebre ed anziano neorealismo, esso si rivolgeva principalmente ad un (finalmente) pubblico giovane e femminile in emancipazione, che per la prima volta si aggiungeva alle fila degli spettatori e amanti del cinema, sotto i borbottii e le critiche dei padri della repubblica e di uno stato in perpetuo mutamento (ricordo l’articolo Pericolosi i film passionali nelle carceri femminili?), riluttante di ascoltarli ancora.
Di lì in poi sarebbe stato solo un paese giovane a decidere dei propri gusti e del proprio destino, almeno per un’altra buona trentina d’anni.
E di questo realismo rosa, che ben presto si chiamerà melodramma all’italiana, nato in un frangente di perfetta rottura con il passato e con il cinema del Ventennio, si fan volti simbolo le nuove dive, le figlie della Repubblica, su tutte: Sophia Loren, Silvana Mangano e Gina Lollobrigida.
Non è un caso infatti, se è proprio Riso Amaro (il film che lancia la seconda delle tre) ad aprire la fortunata stagione melo, accompagnato subito dopo da Anselmo ha fretta (meglio noto come La sposa non può attendere) con protagonista invece una giovanissima Lollobrigida. Entrambi del 1949, entrambi rivolti ad un pubblico femminile, entrambi densi di una complessità tematica legata al mondo della donna ed al suo ruolo sociale non da poco; una densità spesso dimenticata o accantonata in nome della bellezza delle protagoniste, che ha spesso oscurato argomenti quali la solidarietà femminile, la gestione del senso di colpa, la libertà sessuale (Riso Amaro), l’indipendenza, l’emancipazione, il pettegolezzo, il giudizio e la gravidanza (La sposa non può attendere, ma anche Il sole negli occhi).
E sentendo parlare di melodramma all’italiana, chiunque abbia vissuto quegli anni o li abbia amati, non può fare a meno di pensare all’immagine della coppia che per eccellenza incarnò i valori e gli ideali maschili e femminili del decennio: Gina Lollobrigida e Vittorio De Sica.

Lui, classe 1901, divo immortale dei telefoni bianchi -indimenticabile con la sua versione di Parlami d’amore Mariu’ in Gli uomini… che mascalzoni! (1932) ed in Grandi Magazzini (1939)-, unico volto noto del cinema del Ventennio a rimanere in auge, se non a divenire sempre più celebre, per tutto il corso della sua vita, regista di un neorealismo perfetto, interprete romano di canzoni d’arte napoletane, amante ideale di ogni giovane e meno giovane italiana dagli anni ’30 agli anni ’70.

Lei, classe 1927, ciociara sciantosa dagli occhi nocciola ed il vitino da vespa, personalità esplosiva fin troppo cucitale addosso e notevole capacità espressiva di fronte alla telecamera: sembrava nata davanti alla macchina da presa, con quel suo modo romanesco di vivere e di essere bellissima.
E così, Vittorio e Gina si trovano a lavorare insieme, inossidabili e costanti, complementari e scoppiettanti, come avrebbero fatto dieci e vent’anni dopo Mastroianni e la Loren, guarda caso proprio diretti dallo stesso De Sica per ben tre volte.
Pane, amore.. e fantasia (1953) e Pane, amore.. e gelosia (1954) -entrambi di Luigi Comencini- dove il pane significa realismo e l’amore ne fa rosa i contenuti, sono i due film simbolo dei primi anni Cinquanta, di quel realismo rosa che racconta -come il titolo stesso suggerisce- vicende e sentimenti popolani: pane, quindi mito dell’Italia povera ma bella e pura come la cultura del tempo suggeriva, amore, elemento base di ogni melodramma che si rispetti, il quale non esisterebbe e non susciterebbe emozioni senza fantasia e gelosia.

Quattro ingredienti fondamentali, quindi, che spiegano lo slittamento da un genere più reale legato al sociale ad un cinema più vicino allo svago, sereno e spensierato, come richiedeva il pubblico (non solo femminile) del tempo, ben lontano dall’esplosione autoriale e d’essai che sarebbe dilagata solo cinque o sei anni dopo.
Protagonisti indiscussi di questo filone, Vittorio e Gina sono il Maresciallo e la Bersagliera: lui s’innamora guardandola andar per il paese con il suo unico vestito, le codine e le gambe nude a cavallo dell’asinello, lei gli vuol bene e si lascia amare senza mai ricambiarlo, guardando speranzosa ragazzi più giovani e nutrendo il cuore di sogni diversi.
Una trama semplice, ma battute, volti, luoghi e atmosfera indimenticabili.
Del resto, cos’è il cinema se non l’espressione di un’epoca ed il ritratto in movimento di un’atmosfera che la congeli su pellicola per sempre?
Chi non torna ai sogni di un’Italia giovane e libera, quando rivede questi film? Chi non ha mai provato nostalgia di un tempo mai vissuto, vedendone il riflesso al cinema?

De Sica, nato il 7 luglio di ormai 117 anni fa, è scomparso nel ’74, lasciando un’eredità di film in qualità di attore prima e di regista dopo, innumerevoli e straordinari; Gina Lollobrigida, che ben presto invece sarebbe diventata la celebre Lollo, la donna che secondo Humphrey Bogart fa sembrare Marilyn Monroe simile a Shirley Temple, assieme a Sophia Loren e Claudia Cardinale è la diva italiana più celebre ed amata di sempre al mondo, ha appena ricevuto la sua stella lungo il Sunset Boulevard e compirà 91 anni il 4 luglio.
Ho voluto ricordarli entrambi fermandoli in un periodo molto felice della loro carriera e del cinema italiano tutto, quando il nostro paese viveva di sogno e di idee, era ancora tutto da farsi e poteva diventare tutto.
E le ragazze a cavallo di un asinello diventavano principesse…
Carmen
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