
Potremmo riassumerla così: una ragazza viaggia da sola, a piedi, in corriera, in automobile, scanzonata o attonita, improvvisamente “illuminata”. Non viaggia verso qualcuno, piuttosto si allontana da qualcuno. Non è detto che raggiunga la felicità, a volte raggiunge la morte, molto più spesso la disillusione completa.
Quello che è certo è che, ogni volta, questo tragitto si può leggere come un soprassalto, improvviso ma incancellabile, di coscienza.
Da questo punto di vista, carica di significato appare la sequenza de Il sole negli occhi in cui Celestina, ormai a servizio, incontra per l’ultima volta i fratelli in procinto di partire per l’Australia. La ragazza s’inquieta: “Ma allora a Castelluccio non ci torno più?”.

Nessuna delle donne divenute tali negli anni ’50, nessuna delle donne di Pietrangeli, potrà più tornare a Castelluccio e, allo stesso tempo, tutte queste storie di donna nascono dalla necessità di abbandonare Castelluccio e, con esso, la vecchia Italia.
Antonio Pietrangeli è scomparso il 12 luglio di cinquant’anni fa (era il ’68) a Formia, ucciso dall’acqua con la cinepresa in mano, forse esattamente come avrebbe voluto morire. Nella stessa acqua che era stata protagonista degli sguardi vuoti -persi tra le linee del Tevere- della smarrita e sofferente Adriana protagonista del suo film più straordinario, Io la conoscevo bene (1965) ed in nome dello stesso cinema, per il quale, dopo e nonostante una laurea in medicina ed un passato da traduttore di romanzi classici, era nato e destinato. Eppure, è bruciantemente vivo (ho coniato una nuova espressione?) nel mio cuore: compagno delle mie giornate per un intero anno accademico, l’ho portato con me sempre, fino a quando, un paio di settimane fa, ho dato l’esame sul suo cinema e le sue idee. E neppure disfarmi dell’impegno accademico mi ha portato a liberarmi di lui, forse perché infondo (e neanche tanto infondo) non volevo.

Non avrei saputo cosa fare e come vivere senza tutto ciò che il cinema di Pietrangeli mi ha regalato in questi mesi, senza tutta l’eredità umana interiore che mi ha lasciato in 15 ore di corso monografico. In quelle bellissime riprese di un’Italia assolata e desolata (dipende dai punti di vista) dal boom, scenario nel quale corrono -o meglio, scorrono- le sue mine vaganti: Celestina, Francesca, Adua (e le compagne), Dora, Pina, Adriana…
E forse il bello di Pietrangeli è proprio questo: che Celestina, Francesca, Adua, Dora, Pina e Adriana non sono perfette e non cercano la perfezione. Fuggono da un dolore per abbracciarne magari uno nuovo, ma almeno ci sarà viaggio. Un viaggio interiore che alle donne del suo cinema riesce molto meglio che agli uomini, che si scontrano con la loro vita, perché il mondo delle prime è irriducibile a quello dei secondi, è inarrestabile di fronte alla convenzione del loro ruolo antico e irrefrenabile davanti alla pulsione di vita. Non importa se alla fine del loro viaggio ci sarà solitudine, delusione, morte o una vita migliore, perché ciò che conta è il moto dello spirito di queste ragazze libere nonostante tutto e piene di coraggio. E Pietrangeli, grazie alla penna del mitico Ettore Scola e di Ruggero Maccari, le scolpisce perfettamente.

Insomma, mi trovo qui nella mia stanza a cercare le parole per scrivere del regista che mi ha cambiato la vita, che mi ha agganciato anima e core raccontando storie, amori, dubbi e incertezze (perché la sicurezza non esiste) di donne come me, capendole, amandole e dando loro uno spazio di magica umanità, libera opinione, accesa sessualità e dolorosa lacerazione, ritraendo al tempo stesso -con pietas e amarezza- un mondo di uomini soli e pavidi, meschini per sbaglio, per abitudine, per forza.

Perché nel cinema di Pietrangeli poco importa che le protagoniste siano bellissime it-girl o dive del tempo, come Catherine Spaak, Stefania Sandrelli, Claudia Cardinale, Sandra Milo etc: ciò che emerge dai suoi brevi racconti comico-amari collocati in desolate o affollate (anche questo è irrilevante) città italiane è l’esser donne (e non donna, perché lui rifugge tutti gli stereotipi di genere, persino -forse soprattutto!- quelli dai valori positivi), innanzitutto all’affacciarsi di una nuova epoca –esser donne negli anni Sessanta, con le sue contraddizioni e le sue novità-, ma specialmente l’esser donne con sé stesse, l’esser dotate di uno spirito affamato di uno scroscio di libertà interiore, l’esser disposte a tutto per essa, l’esser disposte ad essere infelici, pur di essere libere. Libere di agire, libere di pensare, libere di provare a muoversi in una realtà alla quale -sì- le ragazze di Pietrangeli sono irriducibili.
Allego un paio di cose, prima di tutto le mie tre brevi scene preferite di Io la conoscevo bene, che delineano perfettamente l’interesse dell’autore per la psiche femminile anche e soprattutto grazie all’uso delle canzoni:
- Adriana gioca con il trucco e ricorda la sorella: https://www.youtube.com/watch?v=5TiX_NUrKA8
- Adriana guarda il Tevere con sguardo perso: https://www.youtube.com/watch?v=uawEjfbfuTo
- L’ultimo rientro a casa in auto: https://www.youtube.com/watch?v=MJhsWAUx25Q
ALCUNI FILM DI ANTONIO PIETRANGELI CHE HO AMATO TANTO TANTO TANTO:
1953: Il sole negli occhi; 1961: Fantasmi a Roma; 1963: La Parmigiana; 1964: La visita; 1965: Io la conoscevo bene
Carmen
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