
La storia del cinema sembra aver cancellato dalle sue pagine i nomi, le canzoni e quasi tutti i celebri divi dei Telefoni Bianchi, e -per quanto un dispiacere- non s’impiega molto a capirne il perché. Si sa, non si può separare l’arte dall’epoca, dalla cultura, dallo stile, dall’architettura, dagli arredamenti, dalla musica e dalla politica del tempo cui appartiene. Così, non si può scindere il Cinema dei Telefoni Bianchi dalla cornice dell’Italia degli anni ’30, dall’art déco, dal razionalismo, dallo swing del Trio Lescano, il fox-trot di Rabagliati e i silenziosi slow di Norma Bruni ed -inevitabilmente e sfortunatamente, last but not least- dal fascismo.


E quindi, non riuscendo a slegare l’arte dell’epoca dalla dittatura, un grosso pezzo di cultura italiana -musicale, architettonica, ma soprattutto cinematografica (perché il cinema è l’arma più forte, diceva Mussolini, citando a sua volta Lenin)- è andata nel corso del secondo Novecento perduta, o meglio, cancellata, chiusa nei meandri delle vecchie cineteche e nei ricordi d’infanzia dei nostri nonni, permeati quindi ed avvolti da quell’alone di leggendario mistero che circonda tutto ciò che c’è stato, ma di cui le tracce sono vaghe e scarse.

L’ultimo film del genere nella memoria di mia nonna è Stasera niente di nuovo (1942), l’opera di Mario Mattoli che chiuse per sempre e congelò un’epoca, con due protagoniste d’eccellenza: la straordinaria Alida Valli e una canzone da lei cantata, Ma l’Amore No, destinata poi a far da colonna sonora ai due anni di Resistenza (’44-’45), tale fu il suo impatto. E poi, più nulla.

Ma che cosa furono il cinema dei Telefoni Bianchi ed il suo corrispettivo più storicizzato ed acculturato, detto Calligrafismo? Mi soffermerò in particolar modo sul primo.
Il suo nome, innanzitutto, deriva dalla presenza di telefoni di colore bianco nelle sequenze dei primi film prodotti in questo periodo, simbolo di un -effimero ed illusorio, ma ben volentieri ostentato dal regime- benessere sociale: uno status symbol. Altra definizione data a questi film è cinema déco per la forte presenza di oggetti di arredamento che richiamano lo stile in voga in quegli anni. L’ambientazione borghese, invece, si rifà esteticamente alle commedie cinematografiche statunitensi, in particolar modo a quelle di Frank Capra, senza dimenticare però l’imponente presenza musicale (rigorosamente nostrana): per la prima volta emerge l’importanza delle canzonette d’epoca, lanciate e rese celebri al cinema e trasmesse poi dalla radio (o viceversa), grazie alla collaborazione tra Cinecittà (complesso nato a Roma nel 1937) e l’EIAR (1928).

Nel 1928 nasce il sonoro e così musica e cinema iniziano un sodalizio che mai si sarebbe arrestato: è grazie alle canzoni infatti che molti concetti ed ideali dell’epoca raggiungono la loro massima manifestazione, basti pensare a film come Gli uomini… Che mascalzoni! (1932), opera di apertura della prima edizione della Mostra Cinematografica di Venezia, in cui brilla l’indimenticabile interpretazione di Vittorio De Sica di Parlami d’amore, Mariù, ma anche a Vivere! (1938) -del quale si ricorda di più l’omonimo successo di Tito Schipa, manifesto di un certo fascismo tronfio e roboante-, Mille lire al mese (1939) e l’omonima canzone, che passarono alla storia per la loro esplicita spensieratezza ed evocazione irriverente o Voglio vivere così (1942), il cui ricordo è indissolubilmente legato al celebre brano intonato fieramente da Ferruccio Tagliavini ed il sopra citato Stasera niente di nuovo (1942). Irrilevante se fossero i roaring ‘30s o i dolorosi anni di guerra: al cinema si sorrideva, si cantava e si sognava un’Italia che forse esisteva per pochi, magari era esistita per poco, o più semplicemente non esisteva, come avrebbe mostrato la Ferrara sgarrupata di Ossessione (1943), il primo film neorealista di Luchino Visconti.

Tornando a noi, non si può parlare di cinema dei Telefoni Bianchi senza evocare le figure dei divi più brillanti ed indimenticabili del tempo: da Vittorio De Sica, Amedeo Nazzari, Rossano Brazzi Osvaldo Valenti e Massimo Girotti a Clara Calamai e Doris Duranti (che si contendono il titolo di primo seno nudo del cinema italiano), Luisa Ferida, Elli Parvo, Elsa Merlini, Isa Miranda, Miria Di San Servolo (all’anagrafe Myriam Petacci, sorella della più celebre Claretta), Assia Noris ed infine la mitica Alida Valli… La lista potrebbe proseguire all’infinito, ricca di attori ed attrici che prestarono il proprio volto ad un cinema che non esiste più. Alcuni proseguirono la carriera negli anni Cinquanta e poi si fermarono, altri (pochi) rimasero attivi ed in voga sino ai giorni nostri (su tutti basti pensare a De Sica, probabilmente la personalità più longeva, influente e celebre del cinema italiano), la maggior parte fu cancellata dalla storia del cinema e vive solo nei vecchi manifesti impolverati, nelle poche pellicole ancora reperibili e trasmesse, sgranate dal tempo e nei ricordi di chi allora c’era.


Ma quel che so è che, una volta addentratisi in questo mondo per tentare un po’ a tastoni di ricostruirlo e scoprirlo, incredibilmente avvincenti sono le vicende di vita di molti: tristemente legati al furore dell’ascesa e alla violenza del declino del regime, svariati furono coloro che rimasero uccisi dalle loro scelte e non scelte, o che vissero le più oscure vicende specialmente negli anni dell’occupazione Nazista e della guerra civile.
Tra i tanti, impossibile allora non citare Osvaldo Valenti e Luisa Ferida -amanti dediti al consumo di cocaina ed in attesa di un bambino-, che presero parte alla Repubblica di Salò e vennero giustiziati dai partigiani per una (molto probabilmente errata) sospetta attività legata alla banda del torturatore Pietro Koch; o Doris Duranti, che tentò più volte il suicidio, visse nella paura ed infine abbandonò l’Italia per quel suo legame sentimentale con il famigerato ministro della cultura popolare Alessandro Pavolini.

Per i registi fu diverso: non prestando il volto, ma solo l’occhio al cinema, continuarono quasi tutti la propria carriera sino alla fine, adattandosi ai generi in voga nei decenni successivi. Tra i più importanti si ricordino i quattro Mario (Camerini, Soldati, Mattoli e Bonnard), Alessandro Blasetti, Alberto Lattuada e Ludovico Bragaglia, ma la lista è ben più lunga.

Proprio in questi anni, infine, a partire da questi film e quest’epoca, si formano quelli che sarebbero diventati i grandi maestri del cinema italiano: Rossellini (che fu anche regista di regime), Visconti, Antonioni, Risi, Pietrangeli… Nomi che non possono suonar nuovi a nessuno.

Di opere ed istituzioni cinematografiche sorte nel Ventennio se ne ricordano e mantengono ancora molte: l’Istituto Luce (1924), la Mostra del Cinema di Venezia (1932), il Centro Sperimentale di Cinematografia (1935) -dove poi avrebbero studiato tanti tra i più grandi interpreti del panorama italiano, e tutti i mostri della commedia all’italiana-, Cinecittà (1937), rinomate case di produzione tra cui Cines, Lux e Titanus e altro ancora, ma un velo palesemente nero cala e giace sui volti e sui nomi degli attori e dei film che un tempo videro tanto successo.

Di quasi tutti quei visi scolpiti in celluloide non resta nulla e nessuno parla mai più, forse perché sembrano inesorabilmente rievocare il tempo funesto di un’Italia in cui avevano creduto ma che li aveva infine ingannati e traditi.

Certo, che a tanti politici formatisi durante la marcia su Roma sia stata concessa l’amnistia nel 1947 (e che quindi siano rimasti in parlamento) ma che ai protagonisti di una stagione cinematografica che porta solamente la colpa di essere esistita in una certa epoca non sia stato dato di restare, rimarrà sempre un mistero per me, ma si sa, è così che va la storia: l’arte porta sempre il peso dell’atmosfera circostante, nel bene e nel male.
Fortunatamente, però, esiste ancora la curiosità sempre lì per spingerci a sollevare una colonna di libri impilati sopra “Il cinema dei Telefoni Bianchi”, aprirlo e tuffarci nelle pagine delle storie, delle vite e nello swing di quel mondo déco che non esiste più ma non è poi così lontano.
Guardando le rose fiorite stamani
io penso domani saran già appassite,
e tutte le cose son come le rose,
che durano un giorno,
un’ora e non più…
(Ma l’amore no, 1942)
Un anno dopo queste parole, il cinema déco non c’era più, i suoi film erano ormai solo oscuri ricordi di una luminosità effimera, così come i suoi divi, nascosti, in fuga o semplicemente invisibili tra il frastuono delle bombe e lo strappo di una ferita che non si sarebbe mai più ricucita. Smarriti nella voragine del tempo.
Carmen
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