A scuola il manierismo non si studia mai, i professori lo snobbano -lo considerano un’arte minore-, i testi lo liquidano in un paio di pagine al massimo: il mio libro del liceo ad esempio non presentava più di due semplici colonnine sull’argomento: una grigia schedina informativa e qualche piccola immagine sgranata.
E sì che a ben vederli, i dipinti manieristi, son tutt’altro che dimenticabili, tutt’altro che mere copie grossolane di un Raffaello, di un Michelangelo, di un Leonardo: hanno -anzi- un’ansia e una disperazione dentro, in quelle linee serpentinate, in quell’eleganza disgraziata, in quel plastico avvitarsi, che non si trova nei classici, che sembra portare con sé una soffocata esplosione emotiva.
Una tensione quasi incandescente: rosa acceso, pesca, celeste, verde.
Fu una corrente artistica tardo cinquecentesca, caratterizzata dall’esasperazione del classicismo umanista: le sinuosità delle carni allungate -arrotolate su loro stesse, tese all’infinito-, l’artificiosità quasi distorta delle figure, l’eccentricità nella disposizione vorticosa di quelle forme.
Ad èsse, si dice: i corpi sono come un fuoco, come fiamme brucianti al cielo, espressivi sino a sembrare irrealistici, irradiati di luce metafisica, maestosa, soprannaturale.
I colori sono brillanti, sgargianti, carichi al punto da intristire l’occhio di lirismo doloroso, quasi grotteschi nella loro vivacità innaturale, irreale, incredibile.
Si dipingono scandali.
Si dipingono miti, si dipingono storie di santi.
Santi dal volto scavato, teso, ridente, addolorato, smarrito, seducente.
Quasi inquietante.
Santi disgraziati.
Ma chi sono i santi se non dei disgraziati? Chi sono se non detriti umani, sottratti alla morte dell’anima dalla pena e dal martirio? Chi sono se non gli inquieti colpevoli di un vittimismo innocente, gli smaliziati portatori di una croce umana?
L’ultimo manierista è Pier Paolo Pasolini, santo e agiògrafo. Cantore delle bellezze e delle bassezze sacre e profane. Protettore delle bellezze e delle bassezze sacre e profane.
Aédo e rapsòdo.
E nella sua esistenza tutta -artistica e umana-, si può ritrovare quella carica emotiva di una pittura sensuale e scandalosa che la storia dell’arte non ha mai saputo capire: la spiega, la mostra, la realizza, la vive.
Manierista nella prosa, nella poesia, nell’immagine, nel cinema, nel teatro.
Persino i suoi colori, soprattutto i suoi colori -quegli stacchi cromatici, quegli accostamenti azzardati, micce di un bilico emotivo tra il sacro e il profano- grondano di manierismo.
Da bravo manierista, influenzato dai più intensi studi classici, non è immune al fascino dell’antico, del bello e del plastico, ma tutta questa forma perfetta e composta, pallida, pulita e levigata al tempo stesso lo aborre e lo spaventa.
Pasolini ha sete di realismo, detriti, sabbia, fumo, carne, pane.
Sangue e arena.
Ha fame di scandalo.
Ha fame di perversione.
Di quell’ultima briciola di verità, fino all’ultima goccia di strazio.
Qualcun altro avrebbe parlato di una goccia di splendore.
Santo e agiògrafo.
Ma chi sono i santi se non dei disgraziati?
Nelle borgate romane bruciate dagli anni Sessanta e dal sole di un boom che non le ha scaldate, si muovono i corpi scomposti dei giovani di periferia, quei Ragazzi di vita che lo innamorano tanto.
Nascono, crescono e muoiono lì, tra le baracche fracassate di un quartiere non-quartiere e il silenzio assordante delle biciclette impennate sull’immondizia.
Gomma e metallo su ghiaia, ghiaia su pelle.
Pelle su pelle.
A Pasolini piacciono perché sono puri, grezzi, non ancora imbestialiti dall’umanizzazione forzata.
Perché i loro furtarelli, le truffe, le bricconate sono tutti parte di un disegno più grande, sono i passaggi obbligati nella vita di un martire, gli errori giovanili dei semi-dèi del mito.
Perché una vita violenta è prerogativa dei puri, è la vita dei santi, alle cui letture in gioventù si è sicuramente dedicato, dal cui inafferrabile fascino oscuro è stato certamente colpito, da ragazzo, a Casarsa.
Ma non è il popolo contadino e cristiano, prostrato figlio della DC ad interessargli, non troppo.
Pasolini ama i vinti, e i vinti sono sempre i cattivi. I cattivi. Ragazzini scellerati, figli di una periferia abbandonata e abietta, vittime del loro stesso quotidiano peccato: ecco l’esatta personificazione dei santi, così soli nel loro martìrio.
E la religione non è più metafisica. E’ fatta di mani e piedi, di bocche affamate, di braghe sgualcite: è terrena, umana, violenta, turpe, vera.
Vera come la bellezza rovinata della giovinezza di Franco Citti, borgataro della Marranella che l’autore preleva letteralmente dalla strada e trasporta davanti la sua macchina da presa: sarà il sottoproletario Vittorio Cataldi, Accattone, il cui scopo unico è sopravvivere alla giornata, ogni giornata: una preghiera quotidiana.
E così come lui sono il balilla, Mommoletto, il Capogna, il Cipolla, i Ragazzi di vita, Mamma Roma, Ettore, Carmine, il Moicano: borgatari egoisti, innocenti, diretti.
Forse bambini.
Chi più di loro?
Forse santi?
Anche.
E se un po’ lo odiamo per le bassezze di cui vive, infondo Accattone non ci disgusta più di quanto non possa farlo un omicciolo del sottobosco romano di Sordi o Petrolini, socialmente più presentabile e accettato. Ed è più vicino al cielo di quanto lo siamo noi tutti, perché è smaliziato, è puro, è limpido e innocente come un bambino, un figlio di dio.
Un figlio di dio che si pente, si redime per amore, subisce il martirio e ascende. Vola dalla motocicletta al cielo e lo aspetta il Paradiso.
Pasolini fa con lui ciò che Dante fa con Buonconte da Montefeltro: lo sottrae per un soffio alle grinfie del demonio, lo strappa agli inferi per illuminarlo della grazia eterna.
”L’angel di Dio mi prese, e quel d’Inferno gridava: ‘O tu del ciel, perché mi privi? Tu te ne porti di costui l’etterno per una lagrimetta che ‘l mi toglie.
Queste le parole scolpite su pellicola all’inizio del suo primo film, ma è un po’ come se fossero la presentazione della sua opera tutta. Della sua vita.
Queste le parole, estrapolate di buona ragione dal Canto V del Purgatorio, quello dei morti per forza, morti di morte violenta e improvvisa, pentitisi solo in punto di spirare dei peccati commessi. È così che fa Accattone: vive di malefatte, di sfruttamento, di meschinità e solo un attimo prima di morire si redime, e poi l’esistenza gli è strappata.
Ed è così che fa anche lui, Pasolini, in quella notte sbagliata, tra l’1 e il 2 novembre del ‘75?
Dunque, ecco Vittorio Cataldi: un santo il cui degrado morale nel quale lui e i suoi amici sopravvivono è dettato solo dalla povertà e nient’altro che dalla povertà nella quale l’industrializzazione ha gettato la loro classe sociale.
E sull’altra sponda, dalla parte dei carnefici, troviamo magari un nucleo familiare perfettamente sano ed istruito, virtuoso e castigato, emblema di un perbenismo e di uno stato di salute tipicamente borghesi: così incontriamo i protagonisti di Teorema (1968), tipi umani tra i più distanti che si possano immaginare dai borgatari di prima.
E in Pasolini c’è spazio anche per loro: per un padre devoto e anche venduto al suo lavoro, una madre apatica, i figli assuefatti all’occultamento di sfrenati e molto umani appetiti sessuali dietro una maschera obbediente e repressiva.
E’ qui, in questo panorama assolutamente (ed apparentemente) immacolato, tra desideri inibiti e mania di controllo, proprio qui, che si consuma la più bassa -e quindi la più pura, per Pasolini- tra le forze e debolezze umane insieme: tutti i membri della famiglia provano un’attrazione incontenibile per il giovane ospite a casa loro. Tutti.
Ed è come se il contatto sessuale e intellettuale con il ragazzo facesse prendere coscienza agli abitanti della casa della vanità della propria esistenza e della propria vera natura. Ripartito lui, sarà tutto cambiato: la madre si concederà sessualmente a molti giovani, la figlia entrerà in un stato semi-catatonico, il figlio abbandonerà la famiglia, il padre lascerà la fabbrica agli operai, si denuderà nella stazione di Milano e si perderà in un deserto immaginario, nella mente di Pasolini.
L’esito più curioso è quello che avrà l’esperienza della domestica, Emilia: questa, proveniente da un arretrato sottobosco contadino, che possiamo paragonare alla borgata di Accattone -divorata dal senso di colpa che solo un’infanzia fortemente cattolica può seminare- finirà per librarsi nell’aria e levitare in cielo, in qualità di santa.
Sì, perché quello stesso seme, che è marcio nell’ipocrita famiglia borghese, diventa invece occasione e pretesto per l’ascesi di una donna umile, di un’innocente popolana.
Lei sì. Lei sì che può.
Vogliono essere sia sporchi che puliti, i santi di Pasolini.
E anche lui, infondo, si barcamena nell’esercizio del peccato e della redenzione insieme.
E anche questo è scandalo.
Pasolini e i suoi processi, Pasolini e il PCI, Pasolini e la politica, Pasolini e la legge, Pasolini e l’autorità.
A proposito di autorità.
Per lui è una mascherata instabile. E’ il camuffamento più sofferto e violento di una condizione umana bassa e incapace.
L’esercizio del sopruso per tappare la propria meschinità.
Ed è anche, non da ultimo, fine ultimo -ultima spiaggia- dei poveri, dei soli, dei disperati (forse anche dei santi?).
Ora… sembra che tutti abbiano un’idea precisa di cosa dicesse Pasolini, cosa pensasse Pasolini, di chi fosse Pasolini (tre cose ben separate tra di loro), tranne Pasolini stesso, in costante e irrisolvibile contrasto interiore.
E di Pasolini ce ne sono tanti, e continuano a proliferare.
C’è il Pasolini rivoluzionario e quello reazionario, c’è il Pasolini candido e quello feroce, c’è il Pasolini passatista e tradizionalista e quello trasgressivo, c’è il Pasolini innamorato e quello erotomane, il Pasolini comunista e quello radicale.
C’è -insomma- un Pasolini per tutti i gusti, per tutti gli uomini, per tutte le idee.
Tutti -in pratica- possono farsi un Pasolini personale, ad immagine e somiglianza di qualsiasi cosa.
Come Dio.
Uno solo è il Pasolini condiviso, il Pasolini spurio da tutte le appartenenze e le bandiere che gli sono state messe in mano post-mortem: ed è il manierista, l’amante dello scandalo.
Quello che scandalizza gli altri e sé stesso e forse non tanto per il gusto di scandalizzare, quanto piuttosto per il bisogno, perché uomo e volubile, e fragile, e umano.
Chi non ha paura di scandalizzare non ha paura della morte.
Pasolini scandalizza anche in quella, anche nella morte.
Persino morendo, scandalizza.
E ancora adesso, neppure si sa né mai si saprà come sia andata quella notte.
E infondo, intimamente, siamo tutti certi di non volerlo sapere.
Di non poterlo sapere.
Così manierista che “la sua morte somiglia in tutto e per tutto a quella del Caravaggio” (almeno secondo le parole del critico Federico Zeri).
E’ dovunque questo scandalo, lo percepiamo: nel perdonare gli scellerati ragazzini violenti di borgata -presso i quali forse cercherà il proprio martirio?- in quanto santi, nell’odiare e difendere insieme la polizia -esclusa, umiliata-, come nell’esporre la pochezza umana dietro composte famiglie borghesi -dalle pedine nel teatro di un’ipocrita pruderie perversa e inconsistente (Teorema) a quelle dedite a una depravazione segreta, insieme repellente e sublime (si pensi a Porcile, film del ‘69, in cui vediamo il giovane rampollo protagonista negarsi all’amore dell’amica Ida in nome di una sua celata e inconfessabile zoorastia).
E non c’è giudizio, non c’è morale, e neppure etica, infondo a racconti quasi biblici, mitologici.. tante sono le allegorie e i simbolismi densi nella poetica di Pasolini: agiògrafo -sì-, ma anche cantore, filosofo, profeta fedele e insieme senza fede.
Pasolini come Dante.
L’assoluzione totale della perversione ed il suo riconoscimento, l’assenza di valutazioni morali e di patetismi o giustificazioni, sfociano -via via- nella rappresentazione anche estrema, forse troppo audace e smodata, dell’incontenibile ossessione erotica di Pasolini, diviso tra carne e spirito, anima e corpo.
Sublime -nel senso kantiano del termine- è l’ossessione di Pasolini per l’osceno, il suo piacere per lo scandalo, il suo gusto per l’istinto -anche bestiale- ad ogni costo, in ogni contesto.
E quello che forse più di tutti lo intriga, lo repelle ed affascina insieme -perché non l’ha mai compreso, non l’ha mai afferrato né accettato- è l’ambiente dell’autorità: freddo, antagonista, tirannico, come descriveva essere anche il carattere di suo padre, una figura ingombrante, insieme assente e presente nella sua giovinezza.
E questo potere che non accetta e del quale non riconosce il valore né la natura, Pasolini lo scardina, lo espone, lo mette prima in croce e poi alla berlina, lungo tutto il suo percorso artistico.
Dalla svalutazione del pater familias in Teorema -che finisce per vagare completamente nudo e spogliato delle proprie virtù dalla stazione Centrale di Milano al deserto- giunge a quella del potere per eccellenza, il fascismo -recuperato tra le memorie e le fantasie della sua giovinezza-, protagonista del suo ultimo film, Salò (o le 120 giornate di Sodoma), 1975.
Un fascismo agghiacciante, infernale (nel senso dantesco del termine), disgustoso, che è il fascismo di Salò, quello dell’ultima ora, quello squallido, degradato, parassita, fantasma, divoratore di sé stesso. Quello morto. Il fascismo dei cadaveri.
E questa carcassa che cammina, la dittatura che per un ventennio aveva comandato l’Italia mossa dall’incontenibile megalomania di un uomo, è ora trasformata in una grande, viziosa e crudele pagliacciata, bulimica di sesso violento e perverso, e sfoga tutto il suo fallimento in folli esercizi di sadismo all’interno di uno scenario a metà fra il boccaccesco e -soprattutto- l’inferno dantesco.
La commistione di sacro e profano (vescovi ed SS), di eros e thanatos e -in una parola- l’assoluta sete di scandalo, portano Pasolini forse un po’ alla deriva. Alla deriva di sé stesso.
Ed è un processo, un ennesimo processo, ed un ennesimo film ritirato prima di uscire nelle sale.
Pasolini muore addirittura prima di vederne il prodotto finale, prima dell’ennesima scomunica, prima di potersene pentire o di difenderlo. Forse s’era spinto troppo in là, forse stava finendo per scandalizzare anche sé stesso.
Forse questo filo rosso che lo teneva legato -quasi sgozzato- al gusto per lo scandalo e all’indagine freudiana sul senso dell’autorità, e che spesso finiva per attorcigliarli tutti e tre assieme era stato troppo stretto attorno al suo collo, alla sua incontenibile e affamata umanità.
Pasolini e il mito, i santi, gli uomini, la borgata, il Vangelo, il flagello del cattolicesimo, l’autorità, la pochezza, lo scandalo.
Dante, Boccaccio e Pasolini.
L’ultimo di una trinità divina e sfacciata, spregiudicata, altissima.
Carmen