Guillermo del Toro e un amore incondizionato per i mostri. Una forma di devozione totale. Una fede religiosa. Un patto stretto quando era bambino.
Questo rapporto di amore e terrore, ammirazione e paura, fratellanza e ostilità tra del Toro e le creature magiche nasce proprio in primissima età.
Del Toro ha spesso raccontato di aver combattuto, già da quando era in culla fino agli undici anni, contro veri e propri “sogni lucidi”. A coniare per la prima volta questa definizione fu lo psichiatra olandese Frederik Van Eeden nel 1913 per descrivere il fenomeno di aver coscienza di stare sognando e la conseguente capacità di creare, esplorare, modificare e vivere in prima persona il proprio sogno. E questi sogni erano affollati da mostri. Mostri che per tutta la vita del Toro ha cercato di ricreare: uno dei primi di cui abbia memoria è una figura molto simile al fauno de “Il labirinto del fauno”, vera e propria guida spirituale della bambina Ofelia.
Fin da piccolo quindi vedeva mostri, li vedeva continuamente. E strinse un patto con loro: in cambio della promessa di non attaccarlo e di lasciarlo attraversare ogni giorno il lunghissimo corridoio della sua casa per raggiungere il bagno, Guillermo li sarebbe stato sempre fedele e non li avrebbe mai abbandonati.
Guillermo fu cresciuto dalla nonna con una forte educazione cattolica e ogniqualvolta le chiedeva se per noi uomini ci sarebbe stato il paradiso in caso di un’esistenza giusta e corretta, riceveva sempre la stessa risposta: noi non potremo mai aspirare alla perfezione perché nasciamo dal peccato originale e, di conseguenza, saremo sempre peccatori, ciò che possiamo fare è essere leali e affidarci sempre alla fede, così facendo potremo raggiungere un limbo, un purgatorio e attendere un ultimo giudizio divino.

Questa idea di imperfezione e di essere creature piene di difetti combaciava alla perfezione col mondo fantastico che del Toro abitava ogni giorno, e che non volle più abbandonare dopo che suo fratello gli fece vedere, all’età di soli sei anni, il “Frankenstein” di James Whale del 1931.
Del Toro racconta di aver avuto come un incredibile colpo di fulmine e di essere stato totalmente incantato dal design della creatura tanto che si sentì subito in dovere di disegnare e fare bozzetti di personaggi strani e fantastici.
Quando poi, da adolescente, rivide il film, prese coscienza di ciò che in realtà aveva capito fin da piccolo. Nella storia nata dalla penna di Mary Shelley all’età di soli diciannove anni, il mostro di Frankenstein è solo il mostro di Frankenstein, quando in realtà il dottor Frankenstein è il vero mostro.
Il dottore è un individuo arrogante, in cerca di qualcosa di impossibile, un personaggio avido, mai soddisfatto di quello che ha raggiunto, un semplice uomo che gioca a fare Dio. La creatura, invece, è in cerca della propria anima, in cerca della propria razionalità, in cerca del proprio scopo nell’esistenza, disidera capire perché si trova lì, perché è stata creata, e si trova spiazzata nel vedere quanto odio ci sia nel mondo. Queste sono domande radicali, religiose e spirituali, e, nella storia, vengono poste metaforicamente dal mostro, non dal dottore.
Questo ribaltamento di visione è forse, come vedremo successivamente, il più identificativo aspetto presente nel cinema di del Toro: i mostri, pur non essendo certo figure perfette, sono meno mostri degli umani.
Non è difficile immaginare quanto tutto questo rendeva il piccolo Guillermo strano e diverso agli occhi dei suoi coetanei. Guillermo era un ragazzo molto chiuso, timido, magrissimo, di un biondo quasi platino, silenzioso, che non trovava affatto divertente giocare o fare sport con i suoi compagni.
Era invece in sintonia con i mostri dei suoi sogni e della sua immaginazione, nei quali vedeva rispecchiato il suo stesso senso di fragilità, di sofferenza e del sentirsi fuori posto.
Un altro mostro che affascinò del Toro fu quello del film “Il mostro della laguna nera”, horror fantascientifico di Jack Arnold, del 1954. Nel film, una spedizione lungo il Rio delle Amazzoni si imbatte in una laguna abitata da un mostro anfibio. La creatura, dopo aver rapito la fidanzata di uno dei componenti della squadra, verrà uccisa brutalmente. Del Toro rimase sempre affascinato dall’inquadratura del mostro sott’acqua che tenta di prendere la ragazza, rimase malissimo per il tragico finale del film e con “La forma dell’acqua”, il suo film più personale, interviene per cambiare il racconto e far nascere una straordinaria storia d’amore fra la donna e il mostro anfibio. Del Toro ricorda così quella importante esperienza: “ La creatura era il design più bello che avessi mai visto, e l’ho vista nuotare sotto Julie Adams, e mi sono innamorato del fatto che il mostro fosse innamorato di lei e ho sentito un desiderio quasi esistenziale che i due finissero insieme. Ovviamente, così non è stato.”
E così del Toro per tutta la vita disegnò i due amanti insieme, mentre vivevano come una normale coppia e facevano le cose più comuni, e, dopo venticinque anni di tentativi, nel 2017 riuscì a raccontare la loro storia nel visionario capolavoro “La forma dell’acqua”.

Amante della letteratura dell’età vittoriana (da cui prese l’ambientazione e l’atmosfera rarefatta), dei racconti gotici di Charles Dickens, appassionato di tutti i film horror Hammer degli anni ’50 e ’60 (dai quali prese ispirazione per le sue storie in cui una ragazza si imbatte in luoghi oscuri e scopre misteri e segreti), del Toro è cresciuto con i fantasmi e le creature magiche della letteratura e del cinema di genere, ma è stato anche influenzato da un aspetto da sempre presente nella sua cultura d’origine, cioè quella messicana: la costante presenza della morte. Molto diffuso in Messico è il culto della Santa Morte, sorta di divinità che veglia su tutti gli uomini, e che trasmette allo stesso tempo controllo e protezione, che viene onorata per le strade in spettacolari e colorate manifestazioni. Al di là di questo culto alquanto pittoresco, che però coinvolge dodici milioni di adepti in Messico e in America Latina, è proprio della cultura messicana più popolare l’avere sempre consapevolezza della morte.
Le combinazioni di brutalità e bellezza, orrore e poesia, luce e oscurità sono tipicamente messicane e del Toro ha riempito il suo cinema di queste dualità, che però possono essere più simili e più collegate di quanto una prima lettura possa farci credere.
“Vita e Morte. Quando elimini uno dei due termini dell’equazione, è finzione. Quando invece tieni in considerazione l’oscurità per raccontare la luce, è realtà”. Così del Toro racconta il suo cinema poco dopo aver vinto il suo primo Golden Globe come miglior regista proprio per “La forma dell’acqua”, visibilmente commosso ed emozionato, consapevole di essere uno dei pochi registi ad aver vinto un premio così importante con un film fantasy.
Paura e oscurità il regista messicano le ha conosciute da vicino nel 1998, in un avvenimento che lo ha cambiato per sempre: il rapimento del padre.
I sequestratori chiesero un milione di dollari in cambio del rilascio, ma del Toro in quel periodo aveva usato tutti i suoi soldi nella produzione del suo primo lungometraggio, “Cronos”, e fu decisivo l’intervento del regista James Cameron, grande amico di del Toro, il quale pagò la somma richiesta.
Per tutti i settantadue giorni di sequestro, del Toro scriveva in continuazione per affrontare il terrore che stava vivendo, e tutti i suoi film successivi sono accomunati da un tema ricorrente: la mancanza della figura paterna e ciò che questo comporta.
Questo fatto tragico ha segnato profondamente sia la vita sia il cinema di del Toro, il quale ha più volte raccontato di come abbia perso una parte importante di sé che probabilmente non avrà più indietro.
Esperienze personali. Gusti letterari. Passioni cinematografiche. Tutto questo ha influenzato la sua poetica e la sua visione del mondo, ha creato uno stile unico, difficile da definire e racchiudere in un genere, allegorico e realistico, duro ed emozionante, fatto di orrore e di amore. Una visione di un mondo in cui noi ci troviamo sempre spiazzati, proprio come quel bambino di sei anni che si trova davanti mostri e creature magiche e che, pur avendo paura e non capendo realmente cosa vogliano e quale sia il loro obiettivo, li accetta, li comprende e ne rimane affascinato. Il fantasy può essere più realistico della realtà, può indagare il mondo e le questioni umane in modo più profondo e potente rispetto alla semplice riproduzione del reale.
Le storie e le fiabe servono a questo. Se si esplora il reale attraverso il filtro del fantastico e del magico, oltre a rappresentare ciò che è davanti a noi, ciò che è visibile, chiaro ma spesso freddo e distante, si riescono a raggiungere territori nascosti di significato, mondi che esistono, ma che si celano agli occhi distratti di noi uomini. Mondi visibili solo agli occhi di chi sa guardare. E sono mondi fatti di pericoli, sfide, situazioni difficili, orrore e oscurità, ma anche di amore, accettazione, vicinanza, luce e spiritualità. Mondi popolati da creature che possono rappresentare una sete di vendetta, un istante di dolore che si ripete all’infinito, un monito per il futuro, un sempre presente ricordo del passato, un amore che non si vuole abbandonare, una guida in un tempo difficile, una cieca autorità e un potere quasi divino. Reami tutt’altro che perfetti, in cui i mostri sono i “santi patroni delle nostre beate imperfezioni”.
Perché per raccontare la luce bisogna attraversare l’oscurità. Che il nostro viaggio in questi mondi abbia inizio.
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FANTASMI, SPETTRI, RACCONTI GOTICI
1.1. LA SPINA DEL DIAVOLO
“Che cos’è un fantasma? Un evento terribile, condannato a ripetersi all’infinito. Forse solo un istante di dolore. Qualcosa di morto che sembra ancora vivo. Un sentimento sospeso nel tempo. Come una fotografia sfocata. Come un insetto intrappolato nell’ambra”.
Così inizia “La spina del diavolo”, terza pellicola di Guillermo del Toro, uscita nel 2001, a quasi dieci anni dal suo primo lungometraggio “Cronos”. Del Toro era reduce dalla pessima esperienza avuta sul set di “Mimic”, primo suo progetto americano del quale non riuscì ad ottenere il final cut per l’opposizione del produttore Harvey Weinstein.
Di conseguenza “La spina del diavolo”, come più volte ha dichiarato il regista messicano, può essere considerato il primo film nel quale abbia avuto totale controllo, e, infatti, non è un caso che il film inizi con un evento terribile e mostruoso: un bambino che giace a terra, ferito tragicamente alla testa, e poi i titoli di testa, che accompagnano inquadrature molto ravvicinate di un neonato con una malformazione alla spina dorsale, che fluttua, immerso nell’acqua. Questo sarà infatti lo schema ricorrente in quasi tutti i suoi film, come una firma autoriale e sempre riconoscibile: inizi spesso raffiguranti eventi tragici, eventi che addirittura poi capiamo essere gli epiloghi delle storie raccontate, personaggi in fin di vita, quasi come fossero sospesi nel tempo, e una voce fuori campo che ci introduce ai temi del film e agli accadimenti che stiamo per vedere. Come a dirci forse che non è tanto importante l’esito a cui giungono i personaggi o l’attesa di sapere come una storia vada a finire, quanto i loro percorsi e le loro scelte fatte durante la narrazione.
Siamo nella Spagna del 1939, la guerra civile sta finendo, e Carlos, bambino di dodici anni che ha perso i genitori durante i conflitti (primo esempio di un personaggio rimasto orfano), giunge in un orfanotrofio gestito da Casares e Carmen, una coppia di anziani.
Reale e soprannaturale vengono immediatamente legati: Carlos presta subito attenzione alla bomba non esplosa che giace come un gigante dormiente al centro del cortile dell’orfanotrofio e nel frattempo il fantasma di un bambino osserva la scena da dietro un vetro. È interessante notare come del Toro inquadri il fantasma da dietro le sue spalle, utilizzando una sorta di finta soggettiva, così che noi abbiamo il suo stesso punto di vista. È come se del Toro ci stesse dando un indizio sulla natura positiva del fantasma: noi siamo con lui, noi siamo dalla sua parte.
Tutti gli altri bambini, compreso Jaime, un ragazzino che si atteggia da duro ma che in realtà ha costruito questa corazza per nascondere un enorme dolore interiore, sanno della presenza di questo fantasma e non hanno il coraggio di parlarne. Alcuni credono che sia il fantasma di Santi, un ragazzo morto qualche mese prima per circostanze ignote, e mettono in guardia Carlos, il nuovo arrivato, di non rispondere ai richiami del fantasma. Ma Carlos una notte viene attirato da dei sussurri giù fino ad una zona sotterranea dove è presente una grossa cisterna d’acqua. Come all’inizio del film, anche questa volta abbiamo il punto di vista di Santi, che si nasconde dietro ad una colonna, quasi spaventato dall’arrivo di Carlos. Santi lo avverte che tutti i bambini sono in pericolo e dice: “molti di voi moriranno”. Quella che in centinaia di altri film dell’orrore sarebbe una normale e classica frase di minaccia, qui acquista fin da subito una valenza e una sfumatura più delicata e profonda, grazie al tono con cui del Toro la fa pronunciare e grazie al punto di vista che adotta nella scena.
Quello di Santi è un avvertimento, un monito rivolto ai suoi amici, un presagio di qualcosa di terribile che sta per accadere.
Tema centrale de “La spina del diavolo” e di tutta la poetica del regista messicano è proprio questa idea che ciò che ad una prima visione ci sembra malvagio e deforme possa in realtà portare benefici ed essere benevolo: il dottor Casares beve l’acqua nella quale sono immersi bambini nati con una malformazione alla spina dorsale, chiamata appunto la spina del diavolo, e crede, come dicono i racconti popolari, che tale pozione faccia guarire dall’impotenza. Male e bene uniti, orrore e possibile rinascita.

Casares è in un limbo, è sempre in attesa di qualcosa, aspetta che la pozione abbia effetti positivi, osserva sempre, osserva Carmen che usa Jacinto, il primo bambino arrivato all’orfanotrofio, ormai ragazzo e custode del posto, per soddisfare i propri desideri. E alla fine del film scopriremo che proprio Casares diventerà un fantasma e che è sua la voce narrante dell’inizio, portando avanti all’infinito quella sua condizione di attesa che lo caratterizzava nella vita di tutti i giorni.
Per del Toro l’orrore del soprannaturale è sempre inferiore rispetto a quello di cui è capace il genere umano, e la rivelazione del destino a cui è andato incontro Santi è esplicativa. Durante una notte, Jaime e Santi, mentre erano nella cisterna a raccogliere lumache, avevano sentito dei rumori forti e Santi aveva scoperto Jacinto nell’intento di rompere la cassaforte dentro la quale erano nascosti numerosi lingotti d’oro con i quali Casares e Carmen sostenevano e finanziavano le battaglie dei repubblicani nella guerra civile. Jacinto allora aveva ferito a morte Santi spingendolo contro una colonna e buttandolo nella cisterna, sotto lo sguardo sgomento di Jaime che era riuscito a nascondersi in tempo. Quella stessa notte, mentre Jaime si trovava nel cortile, fu lanciata una bomba da un aereo contro l’orfanotrofio, ma la bomba non esplose e si piantò al centro del cortile. È come se la morte di Santi abbia provocato il miracolo e salvato Jaime e tutti gli altri bambini. La morte e l’orrore possono salvare. Orrore e spiritualità sono collegati. Il grande crocifisso che è appoggiato al muro del cortile e lo stesso nome “Santi” in un certo senso avevano già profetizzato un imminente evento miracoloso e quasi religioso.
Ma i mondi di del Toro non sono affatto guidati dalla provvidenza, e l’umano interviene spesso per distruggere ciò che il sovraumano invece ha protetto e salvaguardato. Del Toro infatti fa precedere la scena-flashback della morte di Santi da un evento tragico e straziante: Jacinto, dopo essere stato allontanato per aver reclamato l’oro e aver attaccato pesantemente Casares e Carmen, fa ritorno, cosparge di benzina una parte dell’orfanotrofio e lo fa esplodere, causando la morte di molti bambini, di Carmen e successivamente, a causa delle ferite, anche di Casares. E così l’orfanotrofio, che era scampato al bombardamento indirettamente grazie alla rinascita come fantasma di Santi, viene distrutto dall’invidia, dalla brama di potere e dall’odio, tutte caratteristiche che nel film sono proprie dell’uomo, non del mostro.
Tuttavia, come si è già detto, per del Toro non esiste una separazione netta tra luce e ombra, tra bianco e nero, tra bene e male, ma tutti questi aspetti convivono spesso nello stesso personaggio, negli uomini o nei mostri.
Santi infatti dice a Carlos di portargli Jacinto, perché vuole avere la sua vendetta. Quindi un angelo salvatore, annunciatore e messaggero, ma allo stesso tempo anche un angelo vendicatore e portatore di morte.
Santi riuscirà ad avere la sua vendetta, aiutato dai bambini e dal fantasma del dottor Casares, e trascinerà Jacinto giù nella cisterna insieme a lui, mentre i bambini saranno costretti ad abbandonare l’orfanotrofio e a dirigersi, senza una meta ben precisa, in un mondo che non conoscono, indifferente e pericoloso, pieni di dubbi ed incertezze, ma pervasi anche da nuova forza e ritrovato coraggio.
Il fantastico, come vedremo in seguito anche con “Il labirinto del fauno” e “Crimson Peak”, guida i bambini verso la ricerca di verità e di risposte sul senso della vita dopo i traumi della realtà. Attraverso il fantastico i bambini dell’orfanotrofio crescono e imparano a prendersi cura di se stessi.

Ma sono traumi anche della storia reale di un Paese, in questo caso e ne “Il labirinto del fauno”, la Spagna. Per del Toro “la guerra civile, che non è mai veramente guarita in Spagna, è un fantasma. Tutto ciò che è in attesa è un fantasma”. Per il regista messicano, la guerra civile spagnola è stata sepolta dallo scoppio della seconda guerra mondiale, che ha messo in ombra e fatto dimenticare gli orrori del regime di Franco. Attraverso il fantastico del Toro indaga le ansie di un’intera nazione riguardanti un periodo storico che, in un certo senso, non si è mai stato in grado di superare definitivamente. Le favole archetipiche e i racconti di fantasmi ci aiutano a comprendere, ad analizzare e a superare i traumi e le ferite ancora aperte della Storia.
Il film si conclude con le stesse parole dell’inizio e il dottor Casares, mentre osserva dalla porta della struttura i bambini che si allontanano, aggiunge: “un fantasma. Questo sono io”.
Come abbiamo già visto, nel cinema di del Toro inizio e fine sono collegati. È come se il soprannaturale fosse capace di modificare il tempo, di spostare le coordinate e di creare una sorta di gioco magico nel quale l’inizio contiene già una parte del significato che poi si rivelerà a noi in tutta la sua chiarezza soltanto alla fine del racconto. Essere un fantasma vuol dire aspettare all’infinito come una bomba inesplosa, essere intrappolati per sempre in un preciso istante di dolore e sofferenza e abitare questa dimensione che ribalta ogni logica spazio-temporale. In questa dimensione, in questo gioco magico, la Storia influenza gli eventi del racconto e gli eventi influenzano la Storia, come nel caso della bomba inesplosa.
Noi vediamo gli eventi passati della Storia come qualcosa di lontano, li vediamo sfocati, distanti da noi. Forse per del Toro il soprannaturale può esistere solo in questa dimensione quasi onirica. Nei suoi film, lo storico si intreccia sempre con il fantastico, creando un mondo a sé, che è tanto lontano, magico, intangibile e difficile da leggere quanto vicino, pulsante, violento, palpabile e concreto.
Noi spettatori fluttuiamo, in cerca del significato nascosto, in questa dimensione parallela, e dalla quale ne usciamo con la consapevolezza che non c’è perfezione assoluta, non c’è bene e male, ma confini di senso più indefiniti e sfumati. Come se ci trovassimo all’interno di una fotografia sfocata.
© Federico Rigoldi
Fonti:
- Borys Kit, How Del Toro’s “Black Lagoon” fantasy inspired “The shape of water” – https://www.hollywoodreporter.com
- Carolina Moreno, https://www.huffingtonpost.com/entry/guillermo-del-toro-mexican_us
- Rudiger Sturm, Guillermo del toro http://the-talks.com/interview/guillermo-del-toro/
- https://filmschoolrejects.com/guillermo-del-toro-and-trauma/