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Uno dei tanti (e insieme pochi) libri che ho studiato a fondo in questi ultimi cinque anni di ricerca disperata (crociata).

Era uno degli ultimi giorni di quinta superiore, e io me lo ricordo bene, perché fu il giorno in cui il mio prof di storia e filosofia ci fece vedere un video sull’Italia degli anni’40, divisa tra guerra e amore, paura e speranze. E fu lì che la sentii: Tornerai (ormai più celebre nella versione francese J’Attendrai, che Dalida ha riproposto in disco-music nel ’75) è il motivetto più famoso che ci è rimasto dagli anni dei nostri nonni e non ci stupiremmo mai nel sentirlo canticchiare in giro, fa parte del nostro DNA… Eppure, questo successo delle sorelle Leschan, artiste olandesi naturalizzate italiane negli anni ’30, sembra perso nei cassetti più remoti della nostra memoria collettiva. Dove sono finite quelle sirene e dove sono sepolte quelle melodie del nostro passato polveroso? Da quel fatidico giorno di maggio di ormai cinque anni e mezzo fa, non ho fatto che chiedermelo. E poi sono andata in cerca di una risposta… Ecco i risultati della mia crociata all’italiana, che è stata anche una gran passione -in entrambe le accezioni del termine.

Italia, anni ’30, epoca dei telefoni bianchi, del jazz e del fox-trot: tempi in cui i veri divi non vengono dal cinema, ma dalla radio, fonte di successo e celebrità. Anni musicali e roboanti.

Ma di quelle voci, ora, cosa resta?

Rimangono, per inevitabili e drammatiche ragioni, solo qualche canzone, nomi sparsi, date incerte e -per i più curiosi e fortunati- dischi impolverati tra un mercatino e l’altro.

Artisti_Eiar_1941Perché, dopo tanto successo, volti che un tempo erano leggenda sono ora confinati all’oblio? Com’è successo che, a guerra finita, siano completamente scomparsi dal panorama radiotelevisivo italiano? Che fine hanno fatto tutti quegli artisti che sorridono fieri e felici nelle ricorrenti fotografie natalizie di gruppo scattate nella sede dell’EIAR di Torino tra gli anni Trenta e Quaranta?

 

Per tentare di rispondere a queste domande, è necessario fare un salto indietro nel tempo e ritornare al 1927, anno di nascita dell’Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche (EIAR), società titolare delle trasmissioni radiofoniche sul territorio italiano e “voce” del fascismo durante il ventennio.

EIAR 1Nel 1930 il compositore Tito Petralia viene incaricato di formare la prima orchestra leggera della storia della radio italiana, affiancata poi dall’Orchestra Cetra di Pippo Barzizza e dall’Orchestra da ballo dell’EIAR di Cinico Angelini, nel 1936.

Sono queste ultime due, con i rispettivi maestri, a fare da padrone e rivaleggiare nel corso del decennio, grazie soprattutto alle celebri e talentuose voci contese, da Alberto Rabagliati a Silvana Fioresi, per citare solo due dei nomi più noti.

Ma l’incredibile impatto culturale che le orchestre Barzizza e Angelini hanno sul pubblico può venire più facilmente compreso solo ascoltando alcuni brani dell’epoca, da La famiglia canterina -portato al successo dal Trio Lescano nel 1941- a L’uccellino della radio, cantato da Silvana Fioresi nel 1940: entrambe le canzoni non si limitano ad esaltare il mezzo della radio, ma si premurano persino di citare i nomi di alcuni tra i famosi maestri ed artisti del tempo, veri e propri miti dell’epoca.

 

Sono gli anni dello swing e delle grandi orchestre, ma anche quelli in cui si affermano metodi pubblicitari e scelte mediatiche tuttora in voga, come il lancio radiofonico di un determinato artista o brano nel momento appena precedente l’uscita del disco o del film di cui una certa canzone fa da tema principale o magari porta il titolo.

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1931: Parlami d’amore, Mariù è il primo grande successo musicale – cinematografico – mediatico italiano.

È così che, per citare solo alcuni esempi, ottengono un immediato ed intramontabile successo Parlami d’amore, Mariù –celeberrimo pezzo cantato da Vittorio De Sica per il film Gli uomini… Che mascalzoni! (Mario Camerini, 1931)-, Vivere! -successo del tenore Tito Schipa, manifesto di un certo fascismo tronfio e roboante e titolo dell’omonimo film del 1938-, le spensierate ed irriverenti Mille lire al mese (1939) e Voglio vivere così (1942), ed infine la canzone che -per ironia della sorte- sarà la più trasmessa in radio nel biennio di resistenza ‘44-’45: la struggente Ma l’amore no, cantata da una commossa Alida Valli nell’ultimo film del sottogenere telefoni bianchi, Stasera niente di nuovo (Mario Mattoli, 1942).

 

E sono anche anni d’oro per aspiranti artisti e dei virtuosi tuttofare, che si avvicendano per le strade di Torino in attesa di una telefonata o di una lettera da quelli dell’EIAR, per un provino, una registrazione o un contratto.

Così accade a Alexandrina, Judik e Catharina Leschan, le tre sorelle ungaro-olandesi destinate a regnare sulla radio italiana per quasi un decennio, dal 1936 al 1943.

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Il Trio Lescano nel 1936

Figlie di un artista circense ungherese e di una cantante di operetta olandese di origine ebraica (dato non trascurabile), giungono in Italia con la madre nel 1935 e -reclutate dal maestro Carlo Prato- convinte a trasferirsi a Torino per tentare la fortuna musicale.

Italianizzati i loro nomi, Alessandra, Giuditta e Caterinetta fondano quello che passerà alla storia come il Trio vocale sorelle Lescano e -ottenuto un contratto con la casa discografica Cetra- cominciano nel 1936 a dominare la scena musicale italiana con le loro armonie, i miagolii e i motivetti che ancora molti di noi si ritrovano a cantare più o meno inconsapevolmente.

E’ così che, grazie alla loro immagine inconfondibile, consacrano successi come Tulipan, Piccole stelle, E’ arrivato l’ambasciatore, Maramao perché sei morto, Pippo non lo sa, La gelosia non è più di moda, Ultimissime, Il pinguino innamorato, Non dimenticar le mie parole, Signorina Grandi Firme e molti altri ancora: con il loro italiano insicuro e unico timbro conquistano in brevissimo tempo la radio e quindi il cuore del paese.

Il Trio Lescano è ovunque: alla radio, al cinema, sulle copertine delle riviste, nei manifesti, in concerto, al gran ballo del Re, al compleanno di Edda Ciano, nelle vetrine dei negozi e nei giradischi dei bar.

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1940: l’Italia entra in guerra ma la musica va per la maggiore. Le sorelle Leschan cantano Tulipan, il loro successo più celebre, dedicato alla loro Olanda, terra dei tulipani.

Tuttavia, il successo delle tre straniere più italiane d’Italia (vero e proprio paradosso dei tempi e tipico delle contraddizioni culturali del fascismo) è destinato ad esaurirsi in breve tempo, complici le leggi razziali prima e -soprattutto- il dopoguerra poi.

Il 14 luglio del 1938 Re e Duce firmano il tristemente celebre Manifesto della razza, seguito da una numerosa serie di Leggi razziali, che culmineranno nel 1942 con l’esclusione degli ebrei anche dal campo dello spettacolo; tuttavia, sino all’occupazione tedesca del 1943, l’ordine non viene mai preso realmente alla lettera e per le Lescano è possibile -tra alti e bassi burocratici- continuare a registrare ed esibirsi, anche grazie all’ottenimento della cittadinanza italiana prima e della tessera del PNF poi, richiesto personalmente da Alexandrina a Mussolini.

 

Con l’avvento della guerra, anche nel mondo della musica si respira aria di paura e incertezza e nel 1939 si comincia a parlare di “canzoni della fronda”, tacciate di chissà quale colpa, messaggio o significato nascosto in favore degli alleati o semplicemente contrario al regime ed ovviamente -con il precipitare degli eventi e lo stagliarsi di un orizzonte drammatico per l’esito del Fascismo- l’atmosfera di sospetto si acuisce.

Dopo la scomparsa del jazz (chiamato musica negroide) dai programmi EIAR nel 1938, nessuno o quasi dei successi più ascoltati passerà indenne l’esame del MinCulPop, sino ad arrivare, nel 1940, alla messa al bando di qualsiasi prodotto artistico americano ed infine alla chiusura dei locali notturni ed al divieto di ballare in pubblico: ogni brano non esattamente in linea con la scuola di pensiero Vincere! E Vinceremo -persino le spensierate canzoni dedicate allo svago femminile- comincia ad essere malvisto e tacciato di possibile istigazione alla disobbedienza e con esso anche il tentativo stesso di svago (tanto caldeggiato dal Fascismo della prima ora), interpretato come irrispettosa ricerca di evasione.

Così, anche alcuni tra i pezzi più in voga nel decennio precedente, vengono riesumati e sottoposti ad una minuziosa analisi che fornisca un’interpretazione testuale, musicale e semantica -più o meno immaginaria- definitiva, cosicché se ne stabilisca la libertà di circolazione.

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1941: Norma Bruni e Alberto Rabagliati portano al successo un pezzo indimenticabile della canzone italiana, perseguitato dalla censura di regime.

Alcuni esempi: Un’ora sola ti vorrei –cantata da Fedora Mingarelli nel 1938- sembra ora farsi beffa di Mussolini, Maramao perché sei morto, Pippo non lo sa e persino Tulipan -portate al successo dal Trio Lescano fra il 1939 e il 1940- contravvengono alle regole: della prima si dice derida la morte di Costanzo Ciano, della seconda che burli il segretario Achille Starace e della terza che, dietro un sognante ricordo della natura olandese, contenga messaggi in codice per gli alleati.

Infine, l’episodio più clamoroso: il MinCulPop si fa convinto che Silenzioso Slow (Abbassa la tua radio) interpretata da Norma Bruni e Alberto Rabagliati, contenga l’invito al pubblico ad ascoltare la nemica Radio Londra in luogo delle frequenze italiane, ma ad abbassare il volume della radio, per non essere scoperti dalla polizia fascista.

 

Per il Trio Lescano, nonostante le difficoltà, è possibile continuare ad esistere, ma la stessa buona sorte non aiuta altri artisti, tra cui il Quartetto Funaro (di cui è indimenticabile la collaborazione con il Trio nella struggente Tornerai, 1937) : il musicista jazz di origine ebraica Giuseppe Funaro, giovane fondatore del gruppo, muore ad Auschwitz dopo il gennaio del 1945, lasciando persino un suo ricordo e messaggio di speranza tra i deportati, componendo un testo personale sulle note di Tutto passa e si scorda.

Dopo l’8 settembre 1943, anche per le sorelle Leschan la situazione si fa difficile: nel novembre dello stesso anno, durante un’esibizione al teatro Grattacielo di Genova, la polizia nazista le arresta con l’accusa di spionaggio per un breve numero di giorni, detenendole nel carcere di Marassi.

Liberate, non potendo continuare a cantare per le truppe tedesche -come inizialmente erano riuscite a fare- né desiderando trasferirsi presso gli studi di Salò, decidono di sparire dalla scena per un po’, nascondendosi in Valle D’Aosta, ignare che non sarebbero mai più tornate alla ribalta davvero.

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“Voce di carne nell’Italia in guerra”: il soprannome di Norma Bruni (nata Mistroni), lavapiatti bolognese portata al successo nel biennio 1940-42 e poi scordata per sempre.

Per gli artisti le possibilità sono due: continuare a lavorare all’EIAR -che proseguiva il suo ruolo di “voce” di regime, ora in onda da Busto Arsizio- o abbandonare la musica e rischiare l’oblio.

Tra coloro che si piegano alle richieste di Salò, c’è Norma Bruni (all’anagrafe Mistroni), più nota come la voce di velluto o voce di carne, interprete di alcune tra le canzoni più sensuali e drammatiche dell’Italia in guerra.

Domestica bolognese dotata di una bellezza notevole, viene notata casualmente nel 1939 da un funzionario dell’EIAR mentre è intenta a cantare lavando i piatti, invitata a Torino per un provino e trasformata in una diva della radio nel giro di un anno: è sua la voce più importante tra il 1940 e il 1942, e della Cetra l’idea di cambiare il suo cognome in Bruni, omaggio al colore delle sue chiome e al timbro fosco della sua voce.

Al contrario delle Leschan, questa -secondo alcune fonti innamoratasi di un gerarca fascista- dopo l’8 settembre 1943 si trasferisce nel Nord Italia e continua ad esibirsi nelle Case del Fascio o per le truppe tedesche.

La crisi del dopoguerra non risparmia nemmeno lei: col conflitto, termina anche il suo breve sogno musicale e l’artista, nonostante le inconfondibili e notevoli doti canore, non trova più alcuna possibilità presso i nuovi studi radiofonici e scompare. Riapparirà sporadicamente nel corso degli anni ‘50 e poi sparirà completamente -salvo rare interviste in cui lamenta l’oblio da parte dei media («Non posso morire nell’ombra, io che ho conosciuto la luce del successo!»)- fino a quando, nel dicembre del 1970, il regista Maurizio Corgnati la invita come ospite fissa nel suo show Il mio bar, occasione che lei aspetta da una vita; ma è troppo tardi: Norma Bruni si spegne nel silenzio e nell’oblio a Milano, il 3 gennaio del 1971.

La beffa? Quando va in onda la prima puntata del programma -l’unica che la Bruni poté registrare- tutti improvvisamente sembrano ricordarsi di lei, di Silenzioso slow e della sua voce di carne.

Dovranno passare gli anni ‘90 per scoprire che durante il periodo del boom aveva pubblicato diversi annunci per lavorare come cameriera e che infine aveva trovato posto in qualità di baby-sitter presso alcune famiglie, ormai lontana dai tempi in cui veniva soprannominata Velluto nero.

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Sede dell’EIAR a Busto Arsizio, 1944-45.

Tornando alla radio, il 25 aprile del 1945 a Busto Arsizio la sede dell’EIAR assume la denominazione di Radio Busto Libera e per prima annuncia la caduta del Fascismo e l’insurrezione generale. Nel dicembre dello stesso anno persino il suo nome diventa un pesante fardello e un triste ricordo legato alla dittatura, così il sistema radiofonico italiano viene unificato sotto il nome di RAI (Radiotelevisione italiana S.p.A.), che a partire dal 1954 si occuperà anche di distribuzione ed edizione televisiva. Ma la fine della guerra sembra comunque determinare anche la fine dell’epoca dei divi della radio e della loro sfavillante carriera e così artisti come Carlo Buti, Fedora Mingarelli, Enzo Aita e molti altri interpreti di canzoni apparentemente intramontabili, vedono terminare il proprio sogno di celebrità e concludersi quella che era stata solo -per citare un’altra canzone del tempo- “un’illusione, una dolce chimera”.

Dall’onda dell’oblio non si salva nessuno, neppure l’intramontabile Trio Lescano.

Nell’immediato dopoguerra, non c’è più nulla da fare per loro: si trasferiscono a Buenos Aires in cerca di fortuna, ma senza Kitti, che nel frattempo si sposa e rimane Italia. Al suo posto, entra nella formazione la torinese Maria Bria, destinata a restare per sempre all’ombra della prima: nessuno infatti, fino ai primi anni Duemila, viene mai a conoscenza dell’avvenuta sostituzione.

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Affiancate dal loro distintivo mulino olandese, le sorelle Leschan si esibiscono in Italia poco prima della scomparsa dalle scene del nostro paese, 1941.

La decisione del trasferimento avviene nel 1948, quando, constatata l’impossibilità di ritrovare il calore del vecchio pubblico, ricevono la proposta di esibirsi in un altro paese e sperano in un nuovo inizio, cosa che per alcuni versi avverrà con un esito discretamente buono: domenica 11 luglio 1948, il trio debutta al microfono di Radio El Mundo, ottenendo un vivissimo successo.

La nuova avventura, tuttavia, dura relativamente poco: già nel 1952 Alexandrina lavora come cassiera in un supermercato, Maria è tornata in Italia e Judik ha lasciato la musica per amore.

Delle sorelle Leschan si sentirà parlare sempre meno, ad eccezione di eventi salienti come la morte di Kitty -Caracas, 1965- e poi di Alexandrina -Sanremo, 1987.

Maria Bria -tuttora in vita- si occupa della diffusione di notizie e informazioni circa il Trio, partecipando anche saltuariamente a programmi radiofonici e spettacoli musicali.

 

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1942: finiscono di brillare le luci delle dolci commedie spensierate e del cinema calligrafista, verso una presa di coscienza del disastro verso cui l’Italia incombe. Il paese in ginocchio non smette di cantare: con l’ultimo memorabile film dei telefoni bianchi, “Stasera niente di nuovo”, Alida Valli consola gli italiani cantando quella che diverrà la più trasmessa in radio tra le melodie nei due anni di resistenza (’44-’45): Ma l’amore no, indimenticabile classico, tuttora in voga.

Ma com’è stato possibile tutto questo? Com’è accaduto che divi che promettevano carriera e successo infiniti siano stati non solo allontanati, ma quasi ostracizzati dal nostro panorama radiotelevisivo per il resto del secolo?

Com’è successo che -a guerra finita- siano terminate anche le apparizioni pubbliche di personaggi a cui gli italiani di appena due anni prima non avrebbero mai immaginato di rinunciare? E perché è stato proprio lo stesso pubblico a voltar loro le spalle, tutto d’un tratto?

Dunque, negli anni ‘30 il televisore nelle case non era ancora arrivato, e il suo ruolo era svolto dalla radio: possiamo immaginare che, la sera, ogni salotto si affollasse di persone di diverse età raccolte intorno ad essa e che quella fosse una delle attività predilette delle famiglie alla moda.

E’ quindi ovvio che i nomi associati alle voci dell’EIAR diventino in poco tempo più che familiari alle orecchie degli italiani del tempo, per i quali quello con il Radiogiornale, i Grandi Concerti, le riviste o i radiodrammi è un vero e proprio appuntamento quotidiano.

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Ti parlerò d’amore: il successo indimenticabile di Wanda Osiris, inspiegabilmente affascinante e magnetico ancora oggi.

Di tutti questi programmi persi nel tempo, ora non rimane quasi più traccia alcuna, ad eccezione di testimonianze scritte tratte dai giornali d’epoca -sempre più difficilmente rintracciabili-, ma possiamo pensare abbiano avuto un impatto notevole sul pubblico: dai 41.000 abbonamenti del 1927 si arriva a quasi 2 milioni nel 1943.

Certo, la guerra cambia sicuramente le carte in tavola e moltissime sono le nuove voci che si impadroniscono delle bande radio: tra tutte, Radio Londra -la più celebre emittente di notizie fornite dagli Alleati (nonché la più temuta dal regime)-, la comunista Radio Milano, Radio Co.Ra, Radio Libertà, Radio Palermo e molte altre ancora.

La diffusione di nuove stazioni sovversive e di programmi e notiziari alternativi, atti a raccontare agli italiani la verità sugli esiti della guerra anziché sedare i loro animi con le false speranze della radio di regime, dilaga enormemente e -sul finire del 1944- la gran parte del paese, precedentemente devota all’amica EIAR, l’ha abbandonata e ampiamente sostituita.

Le avvisaglie della crisi della grande famiglia EIAR, quindi, arrivano già in piena guerra: gli italiani si sono stancati della propaganda, non credono più nel Fascismo, non si fidano più di Mussolini e -con lui- nemmeno dell’Uccellino della radio e di Bombolo. 

La dittatura ha lasciato solo troppo dolore: con essa devono cadere il suo cinema e la sua musica, i suoi artisti, i suoi atleti e -sì- le sue canzoni.

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Le braccia spalancate e lo sguardo appassionato di Domenico Modugno: protagonisti del dopoguerra e del primo boom italiano.

Quando, nella seconda metà degli anni Quaranta, ricominciano lentamente le regolari attività radiofoniche, il nuovo personale RAI non coinvolge più la vecchia squadra di artisti, ma cerca volti inediti e freschi, simbolo di un’Italia rinnovata e in crescita: saranno talenti come Nilla Pizzi, Wilma De Angelis, Domenico Modugno, Claudio Villa e Fred Buscaglione a dominare la scena radiofonica per il decennio successivo.

Quanto ai divi del ventennio, oscurati dai nuovi protagonisti e gettati nell’oblio, non saranno mai veramente ricordati, salvo rare eccezioni (il successo di De Sica e Rabagliati rimane intatto) e sporadiche ondate di nostalgia concretizzate in incerti tentativi radiotelevisivi di riscoperta del passato italiano sepolto dalle macerie della guerra.

Nel 1969 -senza troppo successo- la trasmissione radiofonica di Carlo Loffredo Per noi adulti cerca di proporre alcuni tra i pezzi più celebri del passato, ma finisce solamente per rievocare i ricordi di buona parte di coloro che quelle canzoni le avevano vissute davvero da bambini, senza suscitare alcuna curiosità nei giovani ascoltatori.

Solo dopo un lungo silenzio, grazie all’esplosione di internet, qualcosa comincia a riaffiorare: su piattaforme come Youtube, ad esempio, gli appassionati caricano -in qualità più o meno buona (spesso si tratta di registrazioni da vinili)- vecchi successi di cui magari possiedono i dischi, e così la fruizione di questa musica “dimenticata” diventa possibile anche per il pubblico più giovane e curioso.

Nascono inoltre nuovi siti interessanti: l’Associazione culturale Museo Virtuale del disco e dello Spettacolo fonda nel 2000 ildiscobolo.net, piattaforma online impegnata nella divulgazione di precise informazioni e canzoni salvate dall’oblio, nonché fonte più affidabile per gli appassionati in cerca di documenti, notizie e biografie di artisti del passato.

Affiliati al discobolo.net sono -tra i tanti- trio-lescano.it, Ricordando i trii vocali, albertorabagliati.com: sebbene apparentemente dedicati a specifici personaggi, contengono diverse informazioni, rimandano a molteplici link e vantano vari documenti caricati dedicati alla storia dei più disparati interpreti dimenticati della canzone italiana, quali Norma Bruni, Carlo Moreno, Lina Termini, il Quartetto Funaro, Nuccia Natali e molti altri ancora.

Tra il 2010 ed il 2015 -inoltre- si assiste ad un vero e proprio boom revival del Trio Lescano: molte sono le pubblicazioni virtuali e cartacee su di loro, a partire dalla comparsa del diario di Alexandrina -del quale stralci sparsi vengono letti durante una puntata di Chi l’ha visto? e di Dixit– sino al breve libro del giornalist Gabriele Eschenazi, Le Ragazze dello swing (2010), a sua volta base di ispirazione per l’omonima miniserie televisiva dello stesso anno.

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Andrea Osvart, Lotte Verbeek e Elise Schaap sono le protagoniste della miniserie rai Le ragazze dello swing, 2011 (interessante e reperibile su RaiPlay)

Proprio nel 2010, infatti, il regista Maurizio Zaccaro -in collaborazione con Eschenazi- scrive e dirige le due puntate dedicate alla breve e appassionante storia del Trio musicale più famoso d’Italia, un prodotto che il critico e storico televisivo Aldo Grasso definisce “[…] andato male perché troppo raffinato e innovativo, brillante, frizzante e culturalmente alto.”

L’insuccesso era prevedibile: quanti italiani delle nuove generazioni hanno mai sentito nominare il Trio Lescano?

Per tornare al nocciolo della questione: di quelle voci, ora cosa resta?

E’ come se, la mattina del 25 aprile 1945, assieme all’insurrezione, si fosse svegliata una nuova Italia, dimentica di tutto ciò che era stata fino al giorno prima e intenzionata a non ricordarsene più, nel bene e nel male. Ed effettivamente -per quanto ingiusta- la cancellazione pressoché totale di ogni traccia artistica di ciò che il nostro paese fu prima di quel giorno, indica esattamente la scia di devastazione che il Fascismo si lasciava alle spalle.

E così, ancora sentiamo qualcuno canticchiare il motivetto di Fiorin fiorello tra gli scaffali di un supermercato, ma senza più sapere da quale cassetto della memoria, pubblicità televisiva o sogno confuso provenga.

Carmen

PS: per gli interessati, nel mio account spotify potete trovare la playlist “swing italiano ’30s/’40s” in cui raccolgo la stragran parte delle scoperte.