Salva l’Uomo nell’Alto Castello, salva il mondo! …o se sei Juliana Crain, sarà più calzante dire mondi.

man-in-the-high-castle-s4-key-art_FULLPermettetemi di fare mio questo slogan ora che l’attesissima quarta stagione, nonché finale, della punta di diamante del catalogo Amazon Prime, è stata rilasciata. Esiste solo un dopo The Man in the High Castle e la catarsi può riassumersi in una salvezza trovata solo nella perdizione – la mia, ad esempio e tanto per cominciare, un pensiero vago che alla scena finale mi conduce incessante, senza darmi pace. È forse corretto dire che quest’opera si confà a pochi, ma non per questo devono esser pochi a conoscerla e a trarne le proprie conclusioni.

Laddove potrò instillarvi un po’ di curiosità, tra il detto e non-detto, cercherò dunque di farlo.

Il nostro viaggio inizia con due prime stagioni di alto livello, ma un po’ lente che richiedono la pazienza dello spettatore e la sua totale attenzione. Eppur si sa, ciò che ben fatto si vuole, maggior tempo richiede. Il mondo de La Svastica sul Sole (titolo italiano del libro da cui è liberamente ispirata la serie, e nato dalla mente geniale di Philip K. Dick) è a noi parallelo, lontano, un’esistenza che mette in pratica una delle tante domande postaci, chi per studio chi per divertimento, riguardante la Seconda Guerra Mondiale: e se gli Alleati avessero perso? Le risposte possono essere terrificanti, immaginarle diventa estraniante, a vederle poi viene meno il respiro. La serie di genere sci-fi distopico con i “se” muove i suoi motori, prosegue grazie a complesse e affascinanti teorie sociali sull’uomo, su quanto egli possa essere fortemente influenzato dalla società che lo circonda e dalle opportunità che gli vengono offerte, non venendo meno alla consapevolezza che siamo, prima di tutto, le scelte che decidiamo di compiere. Per questo con la chiusura della seconda stagione, ci viene detto che un atto di gentilezza può fare la differenza, come il battito d’ali di una farfalla può creare un tornado agli opposti. Segue una terza stagione che scardina gli equilibri, un po’ filler e un po’ effetto bomba inesplosa, che pone le premesse per la quarta, il gran finale. Quando ci si trova di fronte a un prodotto di tale portata e non meno delicato nei temi toccati (quali nazismo, razzismo e le estreme conseguenze di entrambi), dobbiamo concederci un po’ d’indulgenza nel momento in cui si perdano per strada aneddoti solo accennati, particolarità o addirittura personaggi scivolati lungo la via – e nell’ultima stagione purtroppo tale difetto si è acuito. The Man in the High Castle non è una serie perfetta ma ha di perfetto la serietà, quanto meno lodevole, con cui si tenta di portare avanti coerenza e logica del personaggio. Aspetto questo che verrà ripreso scrupolosamente solo per certuni venendo meno l’attenzione per altri, portando la serie da corale a individuale. Sono già tanti i fan che con brama, vanno cercando risposte a domande trascurate e sognano destini inesplorati. Pur ritenendola una serie di grande levatura, è giusto che sappiate a cosa andate incontro e che spesso gli autori non si premureranno di accontentarvi, laddove per loro il tutto sia già stato sondato.

4

Paradosso vuole che uno dei personaggi cardine di tutta la serie, cresciuto con essa – e alla quale dona sottotrame intriganti di sotterfugi politici e plot twist di prim’ordine – sia quello che nel libro nemmeno esiste, ossia John Smith (Rufus Sewell). L’americano che per adattamento diventa nazista, è il contrappeso alla figura emblematica di Juliana Crain (Alexa Davalos), la quale incarna la speranza e la forza della nike e il simbolismo di Giovanna D’Arco. Per amor di preferenza – che spero possiate perdonare – e per non svelare ogni altarino, mi limiterò a una breve analisi del primo.

5

Già è stata calpestata la strada di chi scherzando esordiva con un: “Incredibile ma vero, patteggiare per i nazisti!” eppure siamo difronte a una complessità ben più seria e la verità, non sta solo in John Smith come personaggio portante e controverso, bensì in John Smith che racchiude un’eredità antica secoli, che parte dalla tragedia greca fino a Shakespeare, tocca la perdizione romantica di Hugo e ti inganna con lucidità bretchiana. Di tutto questo si fa carico Sewell che va oltre il magistrale, disseziona ogni emozione, le amalgama e le rispedisce al mittente quintuplicate. Tale sarà la sensazione di un sipario alzato e del silenzio prima che si oda il canto del cigno. La sua recitazione è a 360 gradi, di chi ha saggiato il palco e sa riproporne l’attitudine anche davanti alla camera – noi non possiamo che restarne storditi – e la sua capacità espressiva è siffatta da restare impressa su retina e memoria. Con questi elementi verrà chiuso il cerchio in una scena che già pone un divario tra chi vi legge l’ultima grande sconfitta e chi l’ultimo estremo riscatto.

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Di questo e quanto altro potrei snocciolarvi tra characters e developments in equilibrio mischiati, ma lascio a voi il compito, episodio dopo episodio, di conoscere Helen Smith (Chelah Horsdal), di apprezzare l’animo artistico di Frank Frink (Rupert Evans), di seguire la guida di Tagomi-san (Cary-Hiroyuki Tagawa), tentare di comprendere le dure azioni dell’ispettore Kido (Joel de la Fuente), sviscerare l’animo inquinato di Joe Blake (Luke Kleintank), di scoprire una sana risata, sia pure in questo distopico mondo, insieme a Robert Childan (Brennan Brown), di unirvi alla Resistenza o conoscere l’Uomo nell’Alto Castello…

3

Come detto in precedenza, è una serie che va scoperta nei suoi più disparati piani di lettura, e chi sono io per privarvi di tanto?

Ora, se avessi le giuste abilità, potrei concludere il discorso con una citazione nella citazione – come serie tv insegna – ma limiterò i miei tentativi a questo:

Ne abbiamo viste di cose, tu ed io, perché l’amore di una figlia va oltre l’esser produttrice dell’opera e quell’occhiolino strizzato a un altro iconico personaggio di papà, non passerà inosservato. Cara Isa, vanne fiera, perché nonostante tutto, son certa, lui lo sarebbe stato.

Laura