“Far away there in the sunshine are my highest aspirations. I may not reach them, but I can look up and see their beauty, believe in them, and try to follow where they lead.”
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Non appena annunciarono che sarebbe stato realizzato l’ennesimo (il settimo!) adattamento del romanzo di Piccole Donne ho roteato gli occhi al cielo.
Quando uscì il primo trailer ho avuto l’impressione che il film avrebbe avuto delle tinte un po’ trash, da soap opera.
Aggiungiamoci poi il fattore Greta Gerwig. Badate, io ho amato Lady Bird (2017), lungometraggio delizioso che porterò sempre con me. Eppure… meritava davvero tutta quell’attenzione durante la stagione dei premi e da parte della critica? Io credo di no. Ed è per questo motivo che ho preso con le pinze tutte le reviews che fino ad oggi non hanno fatto altro che osannare Piccole Donne (2019).
Poi è arrivato il periodo di promozione e intervista dopo intervista mi sono lasciata trasportare nell’attesa del film, fino a ritrovarmi con la tachicardia prima di entrare in sala.

Greta Gerwig si ingarbuglia nella (ri)costruzione delle sue piccole donne, prendendo la strada più complessa destreggiandosi su due piani temporali differenti (distinti da tonalità di colori caldi e freddi), riuscendo abilmente a restituire un’opera dignitosa e meritevole di tutti gli elogi ricevuti. L’abbandono dell’ordine cronologico degli eventi a favore di un continuo confronto fra presente e passato le permette di fare un gioco di parallelismi (che io personalmente amo) sia sul piano puramente estetico che sullo sviluppo dei personaggi. L’unica critica che mi sento di smuovere è proprio in riferimento a questa scelta: potrebbe esservi il rischio di sovraccaricare il pubblico – soprattutto coloro che non sono familiari con la storia delle sorelle March – di informazioni, trattandosi di una storia corale composta da tante sotto trame.

Il film si apre con Jo di fronte alla porta di un editore newyorkese, intenta a far pubblicare anonimamente dei suoi racconti in modo da poter inviare il denaro alla sua famiglia. Da qui la storia segue il suo corso, instillando già le basi della sua relazione col professore Friedrich Bhaer, per poi oscillare nei ricordi dell’infanzia nel Massachusetts durante la Guerra di Secessione americana, alternandosi con la vita adulta delle quattro sorelle.

La bravura della Gerwig sta nel prendere una storia radicata nelle generazioni passate e presenti ricostruendola secondo il suo stile e le sue esigenze narrative, senza mai tradire l’opera originale (benché qualche piccolo cambiamento sia stato apportato). Fa delle vicende delle sorelle March lo strumento per trattare tematiche universali (e attuali!), portando lo spettatore a riflettere senza inculcargli una morale come invece traspare nei romanzi di Louisa May Alcott. Attraverso le aspirazioni di Jo, Amy, Meg e Beth viene sottolineata l’importanza dell’essere padroni della propria vita, di come i sogni di ognuno di noi abbiano la stessa valenza. Soffermandosi su Jo, si concentra sulla figura dell’artista, in particolare sul rispetto che il suo lavoro merita; una sorta di auto-strizzata d’occhio da parte della regista.

Questa nuova versione di Piccole Donne non è rivoluzionaria, né perfetta, ma ha il dono di entrarti dentro. Greta Gerwig restituisce sullo schermo con amore, cura e fedeltà le avventure della famiglia March. Spicca l’attenzione che dedica a ciascun personaggio, dal loro abbigliamento alle loro azioni: infatti, nei momenti in cui vi sono tutti in scena riesce a far emergere in pochi minuti i tratti e le volontà di ognuno, nitidamente senza risultare caotica. Abile nel mostrare lati inesplorati, come nel caso di Amy, che finalmente non è più solo la bambina viziata e lagnosa dei libri, ma una piccola donna in grado di redimersi, mostrando la sua saggezza e il suo buonsenso. Aiutata anche dalla sua straordinaria interprete, Florence Pugh, che personalmente ritengo abbia dimostrato ancora una volta di essere una delle attrici migliori della sua generazione, la cui intensità cresce di prova in prova fino ad oltrepassare lo schermo. È inevitabile affezionarsi alla sua Amy, che diciamocelo, ha chimica con tutti. Accanto a lei a trainare tutto vi è Saoirse Ronan nei panni di Jo March, il cui talento è la colonna portante dell’opera, puro e inesauribile. Una performance intensa (e immensa) che non va ad oscurare quelle dei suoi colleghi, anzi fa letteralmente da traino, soprattutto a Timothée Chalamet (che interpreta Laurie). I due sono perfetti insieme, si confondono in un’unica entità androgina in cui si riesce pur sempre a distinguere il singolo. Una scena, in particolare, mi ha totalmente disorientata, facendomi mancare la terra sotto i piedi. Sinceramente, non riesco a spiegarmi il motivo. Era sì, un momento cruciale, ma pur sempre contenuto. Avrà contribuito la delicata colonna sonora di Alexandre Desplat, ma io credo che sia stato il modo in cui Chalamet ha trasmesso con tutto il suo corpo il mutamento emotivo che stava avvenendo in Laurie, rilasciandone gradualmente ogni sfaccettatura… e investendomi completamente. I tre sopracitati sono coloro che spiccano maggiormente, nel loro intreccio fatto di sentimenti repressi, competizione e amore reciproco, ma non sono da meno anche gli altri grandi nomi che compongono il cast. Sì, anche Emma Watson. (Benché sia quella che mi ha convinta meno).

Quindi sì, è stato bello ricredersi. Piccole Donne è un coming of age in costume dal respiro attuale e femminista; un’opera intima, fresca e sì… necessaria. Una riscrittura personale che ne esplora in maniera brillante lati diversi da quelli a cui siamo sempre stati abituati, consegnandoci delle nuove chiavi di lettura.
Per me la visione di Piccole Donne è stata sentirsi a casa, al caldo. È stata serenità.
Dal 9 gennaio 2020 al cinema. C’mon Little Women Warriors!
Marika
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