
La cosa più bella di Roma è il taxi di notte, che ti fa volare tra un sontuoso mondo antico e la vita attiva, e sfreccia gioioso tra viali alberati, monumenti, rotatorie, ingorghi, processioni, mercatini, coppiette e ancora alti e alti palazzi bianchi, luci a cascata dorata dal cielo al centro della terra, lunghe scie di fanali e motori fumanti e voci, tante voci e canzoni, mentre i tuoi occhi corrono senza tregua e si posano un po’ sulle tovaglie quadrettate, sulle foglie, le tende, i camerieri, le fontane e le comitive, i capelli al vento di qualcuno, e il vento di Roma, ancora il vento di Roma.
Il tassista sulla sessantina accompagna l’auto bianca scivolando come l’olio sull’asfalto consumato mentre cambia le stazioni radio, sistema il santino sbiadito alla sua destra e parla del governo: potrebbe guidare ad occhi chiusi, lo vedo che spadroneggia su Roma come un antico auriga mentre supera, impreca, suona e ride da solo per ciò che fa, ciò che sente o ciò che pensa. E a una certa, imbottigliati nel traffico, sbuffa un po’, si volta e me lo chiede: “lo vuole fare un giro alternativo signorina? Lei c’è mai passata per Via Veneto la sera?”.

Via Veneto è la strada più sontuosa e ricca di Roma, negli anni Sessanta la vera e propria Gotham City della capitale. Centro propulsore delle attività socio-economiche di giorno, la notte -come per magia- si trasformava, e con lei i suoi abitanti, tutti i banchieri, gli ambasciatori e i personaggi di spicco del paese. Passarci ora, per un’amante del vintage italiano, è emozionante, e chi ha visto almeno una volta nella vita anche solo un fotogramma de La Dolce Vita lo sa. È una sensazione irresistibile, come una musica che viene da dentro la pancia e si fa sentire tutt’attorno, ed attraversare lo stradone fa uno strano effetto.
Per entrare in Via Veneto servono innanzitutto spessi occhiali in bianco e nero, dall’alta intensità di bianchi e neri, luci ed ombre, a ricreare l’effetto di contrasto e chiaroscuro abbagliato dai fari della notte, e sufficiente memoria (o fantasia, vedete voi) da ricordare i bassi e l’aria de La Bella Malinconica, il più famoso pezzo composto per il film. Nino Rota è effettivamente il suono maliardo della strada. E se non decidi subito di viverla negli anni Sessanta, allora non la puoi vivere.
Tutto cominciò a Trastevere, comunque, mi dice il tassista, in quel ristorante che si chiama Il Rugantino: è lì che il 5 novembre del 1958, circondata da miliardari e nobili romani, la danzatrice turca Aïché Nana si spoglia nuda in mezzo alla sala per il compleanno di una ricca signora, e in quattr’e quattr’otto inventa la dolce vita. Poi i miliardari la portano dentro, la portano in Via Veneto, al lavoro e a casa loro, e nella testa, e pensano solo a divertirsi e scoprono l’arte come divertimento e il divertimento dell’arte, e Roma diventa una specie di Londra prima che lo diventi Londra. Ma è tutto in Via Veneto che succede.

Io queste cose già le so, ma ascoltare la sua voce roca che ha già raccontato questa storia mille volte mi emoziona, perché sento la nostalgia nelle sue corde e su di me, mentre penso a quel decennio di follie che ha fatto volare tanto in alto questo paese che muore. L’Italia affoga ma nel 1960 decollava, e mentre il mondo si preparava per viaggiare sulla luna, a Roma la Luna stessa atterrava, con il nome di Anita Ekberg, voluta proprio da Fellini come protagonista del suo film: La Dolce Vita sarebbe stato un omaggio al tempo presente, un ritratto della gioia e del dolore, della ricerca e della lotta alla noia di borghesi arrivisti e arrivati, in balìa della melancolia e in attesa di nulla.
La Dolce Vita, storia disordinata del disordine mentale di un giornalista di cronaca, viveur di una strada sonnolenta, disamorato della compagna e incuriosito da un’attrice sexy e scanzonata. La Dolce Vita, storia dei gatti che miagolano la notte attorno alla fontana di Trevi. La Dolce Vita, storia dei padri di famiglia, imprenditori brillanti di notte, suicidi di mattina. Storia di cronaca, storia vera, storia romanzata, storia di fantasia. Ecco tutto, e questo modo di raccontare le storie che piaceva a Federico Fellini si chiamava realismo magico: tutto vero e assieme fantastico, epico, caricaturiale, magnifico, umano, onirico, alto e basso, emozionante e piatto ritratto di una società circense e su di giri, costantemente sopra le righe e giù di morale, magistralmente sorretta dal burattinaio più abile del nostro cinema.
La Dolce vita è Roma, è l’Italia, è l’atmosfera degli anni Sessanta ed è la ragione per cui ci piacciono tanto, e non sappiamo mai il perché.
E ora che la nostra Italia è cambiata, invecchiata in un cumulo di macerie della splendida Bella Malinconica che fu un tempo, esiste ancora un tassista, una madre, un banchiere, una studentessa, un articolo, una strada o un film immortale a ricordarci che cosa siamo, e che basta una notte per ritornare al sogno e rivivere un tempo in cui tutto era possibile, tutto era movimento.
Via Veneto sono 750 metri di dolce vita, la percorriamo tutta per arrivare infondo, a Largo Federico Fellini, così chiamato in onore di colui che resse e mosse i fili dei nostri sogni per tutta la durata del secolo breve e che sembra ancora di vedere, là infondo, al tavolino sgangherato di un baretto, e che oggi compirebbe 100 anni.
A Federico Fellini, regge un insegna, che fece di Via Veneto il teatro della Dolce Vita.
Carmen