●●● MARIKA
Io odio i reboot. Li trovo evitabili, non necessari. Simbolo di mancanza di idee ed originalità. Li preferisco ai remake, anche se entrambi corrono l’enorme rischio di fare un torto alla fonte originaria.
Adattamento del romanzo di H. G. Hells e reboot dell’omonimo lungometraggio del 1933 diretto da James Whale, The Invisible Man (2020) è appunto un reboot, ma nulla di tutto ciò che ho descritto sopra.

La storia si apre con una spettrale inquadratura – che fotografia! – su delle onde che si abbattono su una scogliera, fino a risalire ad una modernissima e lussuosissima villa che affaccia su quest’ultima. È notte fonda e Cecilia (Elisabeth Moss) non dorme. È pronta a mettere in atto il suo piano di fuga dal marito Adrian (Oliver Jackson-Cohen), che oltre ad essere un esperto in campo tecnologico è anche un uomo abusivo e violento. Malgrado la donna riesca nel suo intento, teme comunque per la sua vita e resta barricata nella casa dell’amico che la sta ospitando. Nel momento in cui riceve la notizia del suicidio del marito è pronta a dare inizio ad un nuovo capitolo della sua vita. O così sembra. Una presenza invisibile comincia a darle il tormento. Lei sospetta che Adrian sia ancora vivo, ma chi la circonda la crede pazza.

L’horror sta prendendo la strada giusta. Negli ultimi anni si è finalmente compreso che la paura non si crea solo visivamente, va ben oltre e fa leva su psicologia di pubblico e personaggi. Leigh Whannell confeziona sapientemente un’opera innovativa, che riesce a svecchiare la storia originale, mantenendola convincente ed equilibrata. Non solo. Convince il suo modo di raccontare l’abuso, facendo leva sulle percezioni e sul concetto di fiducia, portando lo spettatore stesso ad essere paranoico e dubbioso. Il tutto accompagnato da una colonna sonora per nulla rassicurante che suggestiona e accompagna lo spettatore in quello che è un crescendo unico di tensione, intrappolandolo in inquadrature talvolta tetre e soffocanti.

Si dice che le cose più spaventose sono quelle che non vediamo. E in questo caso non si tratta solo di Adrian, ma anche dalla violenza psicologica e fisica ai danni di Cecilia. Lo spettatore vede ciò che lei subisce, ma le persone intorno a lei non prendono sul serio le sue parole perché non vedono. Per loro è più facile crederla mentalmente instabile e Cecilia è talmente frustrata e fragile che porta noi stessi a vacillare, fino al punto di domandarci se non sia tutto frutto della sua immaginazione.

My body. My choice. È inevitabile pensare a Mad Max: Fury Road (2015) e Revenge (2017): per le tematiche legate alla violenza sulle donne, al ruolo centrale che quest’ultima assume all’interno della narrazione e la cura con cui questi argomenti vengono trattati senza mai essere banalizzati. Per quanto questi tre film c’entrino ben poco l’uno con l’altro, a modo loro vanno a braccetto. Così come la storia dell’uomo invisibile strizza l’occhio ad Hitchcock, i suoi colpi di scena e le sue protagoniste bionde.

E la bionda che regge l’intero film sulle sue spalle è scesa direttamente dall’olimpo della recitazione. Non è la prima volta che Elisabeth Moss si cimenta nell’interpretare donne vittime di abusi o che stanno perdendo il contatto con la realtà. Eppure, per quanto questi ruoli sembrino la sua confort zone, lei è abilissima nel calarsi alla perfezione in ogni storia, restituendo ogni sfaccettatura del graduale percorso psicologico che i suoi personaggi stanno affrontando. E tutto sta nei suoi occhi, in quei cambi di espressione fugaci e lievissimi che mette in atto, a momenti impercettibili. Inizia qui la mia Oscar campaign.

The Invisible Man (2020) è l’ennesima prova che l’horror non è solo intrattenimento. È apertura, presa di consapevolezza, denuncia e uno stimolo a fare qualche sforzo in più. È uno scossone psicologico che ci fa tremare, ci tormenta e ci segna a modo suo.
Blumhouse mi inchino. Hai fatto di nuovo centro.
Marika.
●●● FEDERICO
Una coppia che dorme nel letto. Silenzio. Quiete. Pace e tranquillità. Restiamo qualche secondo su questo quadro ordinato. Solo per qualche secondo. E poi tutto cambia. È una pace artefatta. Una tranquillità mascherata. Un silenzio assordante. Cosi inizia L’Uomo Invisibile, con una mano di un uomo sul ventre di una donna. Una semplice posa comune, una coppia abbracciata mentre dorme. Ma in questo gesto è racchiuso tutto il senso del film. L’uomo sovrasta, la donna è intrappolata. Il controllo velato e accettato, ritenuto normale e sopportabile. È forse la prima inquadratura con più significato degli ultimi anni nel cinema. C’è tutto. Il dolore tenuto nascosto. I traumi che si lasciano passare, celandoli sotto un sorriso falsificato.
Questo è il cinema, dire tutto senza dire nulla, usando solo la potenza di un’inquadratura.

Cecilia alza le coperte e si libera dalla morsa del compagno. Scopriamo che lo ha drogato con il Diazepam in modo che possa scappare nella notte. Cecilia attraversa l’enorme casa (piena di telecamere allestite da Adrian per spiarla) e riesce a fuggire con l’aiuto della sorella Emily. La libertà a lungo cercata da Cecilia sembra arrivare quando apprende che Adrian ha commesso suicidio e le ha lasciato 5 milioni di dollari nel testamento. Ma non dovremo aspettare molto per scoprire che Adrian ha trovato un modo per essere invisibile (era proprietario di un’impresa di ottiche tecnologiche), con l’obiettivo di distruggere, pezzo dopo pezzo, affetto dopo affetto, la vita della sua compagna, in un gioco malato di vendetta e abusi. Non si può andare oltre, perché il film è costruito twist dopo twist.
Di fatto Adrian continua a fare ciò che ha sempre fatto. Abusare della sua compagna. L’Uomo Invisibile rientra perfettamente nella New Wave del cinema horror contemporaneo di Get Out, Us, Hereditary, Midsommar e It Follows. L’horror per far pensare, non per far spaventare. Il fantastico serve a questo. Serve ad indagare i problemi che viviamo tutti i giorni e le minacce della vita reale. Serve ad elaborare i lutti, ad espiare le nostre colpe, a scrutare nella realtà con un occhio diverso, tramite un’azione di mascheramento e finzione. Sarà difficile trovare in futuro un film “realistico” che indaghi in maniera così dettagliata e intelligente gli effetti di una relazione tossica e opprimente, lo stress post trauma che le vittime esperiscono e la difficoltà che si trova nell’essere ascoltati e presi sul serio.
Elizabeth Moss è di una potenza rara nel raccontare tutto ciò. È come un cervo intimorito dal suo cacciatore, come una preda che deve essere sempre allerta. È incredibile nel trasmettere questa costante paura, questa incessante inquietudine, questa continua vulnerabilità. L’Uomo che la tormentava è tornato e sarà costretta a combatterlo da sola, con le proprie forze e con la propria decisione, senza l’aiuto di uomini sordi e ciechi. Lei non è cieca, lei è in grado di vedere il non visibile, di accettarlo quasi da subito. Cecilia non si rintana nella sua tana, ma esce allo scoperto, abbraccia la sfida e combatte. Accetta il dolore, lo elabora e lo usa per crescere. Non ci piange su. Non diventa vittima, diventa artefice. Diventa lei stessa la cacciatrice. Guarisce dalle ferite. E ferisce a sua volta.
È forse questo l’aspetto più spiazzante dell’opera totale di Leigh Whannell: Cecilia diventa quasi colpevole tanto quanto Adrian, si riflette nell’immagine vessatoria del suo compagno. Man mano che il film procede, Cecilia diventa sempre più convinta delle proprie certezze, non si muove da ciò che crede sia giusto fare e ottenere. È immagine riflessa dell’oppressore. La fine in questo senso è indubbiamente esplicativa…

Whannell è maestro a volte nell’indirizzare il nostro sguardo, altre volte nel lasciarci libertà di studiare gli ambienti in cerca di ciò che non potremo mai vedere. Diventiamo noi registi, scrutando i totali degli spazi, per capire dove sia effettivamente L’Uomo Invisibile. Siamo in una posizione superiore e rialzata rispetto a Cecilia, invece ignara dei trucchi registici. La sceneggiatura è di ferro, non c’è una battuta fuori posto. È una sceneggiatura da film drammatico più che da horror, non c’è mai quell’humor forzato e stridente nei confronti della storia. L’Uomo Invisibile è l’ennesima conferma di quanto sia forte la partnership Blumhouse-Universal e di quanta libertà creativa si possa avere nell’horror contemporaneo.

C’è un beat di trama che non si può indagare per ragioni di spoiler, ma andrebbe fatto perché è sconvolgente. Limitiamoci a dire che è forse la visione più terribile e drammatica dello stupro di tutto il cinema recente. Non perché è forte o disturbante da vedere, ma perché è tragica da sentire. È velata e mascherata, e per questo così struggente. Nasce nell’oscurità, nel buio, senza consapevolezza e cognizione.
Alla fine, i traumi vengono superati. Gli abusi fatti propri. Il dolore ormai lontano. Cecilia è pronta a rinascere. Creatrice del proprio destino. Forse iniziatrice di qualcosa. Il sorriso ora non è artefatto. È autentico. Consapevole. Totale.
Federico