The Duke

The Duke – dal regista di Notting Hill – per la selezione Fuori Concorso a Venezia 77, nasce certamente per i pomeriggi autunnali adatti a tè, biscotti e tanto british humor. Roger Mitchell dà voce alla storia di Kempton Bunton (Jim Broadbent), un eccentrico vecchietto sempre pronto a scontrarsi con le ingiustizie sociali – in primis il canone televisivo e le tasse annesse. La moglie Lilya (Helen Mirren) sarà la buona controbilancia e avrà il suo bel daffare nel gestire la situazione, consapevole inoltre che il figlio minore (Fionn Whitehead) è ormai lanciato sugli eguali passi del padre. Richard Bean e Clive Coleman firmano una sceneggiatura irreverente e fresca, stilata da eventi realmente accaduti nell’anno 1961. La chiave di volta è dettata da simpatia e umorismo intelligente, ma per i più attenti, trasparirà anche uno sguardo critico al sociale. Non manca inoltre una buona dose di teatralità (la messa in scena in tribunale, che racchiude in sé tutta la bravura di Broadbent e il fascino magnetico di Matthew Goode, ne è un buonissimo esempio). Per gli appassionati del british calm cinema questa sarà una chicca imperdibile.
Laura
Lacci

Il Marriage Story all’italiana di Daniele Luchetti snocciola, in un thriller di sentimenti, i legami di una famiglia e mostra come la relazione dei genitori possa, col tempo, influenzare drasticamente la vita futura dei figli. Lacci permette di soffrire ma in modo quasi simpatico trovando un legame universale nei dolori comuni della separazione, del tradimento e della frustrazione; nonostante ciò il contesto trova sempre un buon equilibrio senza appesantire l’osservatore. La tragedia lenta va a braccetto con sprazzi di carnevalesca commedia – il finale tragicomico, in tal senso, ne è l’apoteosi. Con un gioco interessante di flashback, ci sarà data possibilità di conoscere e sviscerare il rapporto tra Vanda e Aldo – una ferita Alba Rohrwacher diventata poi una lapidaria Laura Morante, ed un passivo Luigi Lo Cascio invecchiato nel frustrato Silvio Orlando. Il risultato dell’incrinato matrimonio avrà le sue ripercussioni sui figli, i quali, ormai adulti (Giovanna Mezzogiorno e Adriano Giannini), dovranno infine scontrarsi con la realtà e le tante consapevolezze ignorate sino a quel momento.
Laura
Crazy, Not Insane – documentario

“Sono stata da sempre interessata, non al come, ma al perché uccidiamo” questa è l’introduzione mirata della Dottoressa Dothory Lewis nel documentario targato HBO, a lei e al suo lavoro dedicato. Il regista Alex Gibney pone l’attenzione sull’evoluzione degli studi legati alla psicologia dell’omicidio e all’interessante scoperta – ancora oggi considerata ben poco accademica – del disturbo dissociativo della personalità. Attraverso la carriera di Lewis e le sue esperienze con più pluriomicidi (prendendo in causa anche il celebre Ted Bundy), scopriamo come tale teoria spesso porti con sé prove schiaccianti. Le tematiche sono tante e corpose, ciò nonostante l’equilibrio di esporle al meglio, senza trascurare punti necessari, non viene mai meno. Essendo poi il documentario di matrice americana, l’ultima importante critica sarà per l’inumana pena di morte – la quale ancora oggi spegne vite che avrebbero potuto esser curate e analizzate per una maggior conoscenza in materia. Con la voce narrante di Laura Dern va in scena un teatro dell’oscuro notevole e affascinante. Il pensiero comune che lascerà, sarà quanto poco ancora sappiamo della mente umana.
Laura
Fiori, fiori, fiori! – cortometraggio

“Questo è l’odore della mia infanzia”, esordisce Luca Guadagnino avvicinandosi ad una porta chiusa ed impolverata di una casa siciliana. Non vediamo altro di quell’abitazione, eppure lo sguardo commosso e amorevole di Guadagnino ci apre le porte su uno squarcio di emozioni che va ben oltre quel luogo fisico. Armato di iPhone e iPad, sul finire del lockdown il cineasta parte da Milano verso la Sicilia per rivedere alcuni amici d’infanzia, desideroso di sapere come hanno trascorso e vissuto il periodo di quarantena. Il suo tocco è inconfondibile e rassicurante, eppure è strano vederlo in un certo senso svestire i panni del regista, concedersi di fronte alla macchina da presa e fare un po’ da cicerone mentre punzecchia le persone col suo fare giocherellone e schietto. Ricordi nostalgici, conversazioni sospese e aneddoti si alternano a brevi riprese di fiori che simboleggiano le radici e la percezione del presente del suo autore. Siamo di fronte a Luca Guadagnino allo stato puro. E ne vorremmo ancora, ancora, ancora!
Marika
Salvatore – Shoemaker of Dreams – documentario

Questo è L’homme qui aimait les femmes di Luca Guadagnino. Lo si evince da quelle sequenze in cui la macchina da presa si sofferma sulle gambe delle donne in movimento, come compassi che misurano il globo terrestre, donandogli il suo equilibrio e la sua armonia: sembra che Guadagnino abbia preso in prestito gli occhi di François Truffaut. Commuove gli animi.
Il regista confeziona una ricostruzione della carriera de “Il calzolaio dei sogni” (titolo dell’autobiografia narrata da Michael Stuhlbarg nel docufilm), facendo sì che le immagini e le registrazioni d’archivio minuziosamente selezionate dialoghino con gli interventi della famiglia Ferragamo e delle personalità di spicco del mondo della moda e del cinema. Fra quest’ultimi è memorabile Martin Scorsese col suo fare allegro e spensierato.
Assistiamo quindi alla nascita di Ferragamo, che dopo un anno di apprendistato nelle migliori botteghe di Napoli si trasferisce a Los Angeles dove realizza calzature per le star dell’epoca, al suo quasi fallimento una volta fatto ritorno in Italia e infine alla sua ascesa nella città di Firenze. Salvatore – Shoemaker of Dreams non è solo la ricostruzione fedele di una figura appassionata ed emblematica, ma anche l’omaggio ad una donna che con forza si è fatta carico di un impero alla scomparsa dell’uomo amato: Wanda, moglie di Salvatore, a cui il documentario è dedicato. E, infine, è la consacrazione di Guadagnino nell’Olimpo del Cinema.
Marika
Saint-Narcisse – film di chiusura de Le Giornate degli Autori

Twincest. Inizialmente questo doveva essere il titolo del film. Dice tutto. Così come il titolo definitivo.
Canada. 1972. Nulla eccita Dominic (Félix-Antoine Duval, che splendida rivelazione!) più della sua stessa immagine, tanto da continuare a scattarsi foto con una polaroid. Alla morte della nonna scopre delle verità sul suo passato: la madre è ancora in vita e in un remoto monastero vive il fratello gemello di cui non conosceva l’esistenza. Le tematiche della dualità, dell’io e della sessualità non sono nuove nel mondo del cinema, ma Saint-Narcisse le svecchia attraverso una peculiare messa in scena che offre nuove chiavi di lettura.
Le atmosfere ricordano tantissimo quelle di The Love Witch (2016), sia per i richiami ai film girati su pellicola, ma anche per l’audacia. Bruce LaBruce non si prende troppo sul serio e inserisce una calibrata dose di autoironia a quella che è una delle opere più libere, stimolanti e originali di Venezia77.
Marika
The Human Voice – cortometraggio

Raccontato dall’originale occhio visionario del regista spagnolo Pedro Almodóvar, il cortometraggio The Human Voice – libero adattamento della pièce teatrale di Jean Cocteau presentato fuori concorso – è uno specchio dell’anima che riflette le sfumature dell’amore e della solitudine. Tilda Swinton, protagonista assoluta, interpreta egregiamente il dolore di una donna abbandonata, l’inquietudine che la pervade e l’insicurezza che la scuote e la porta a trovare l’unica salvezza in sé stessa. The Human Voice è un dramma umano, una storia apparentemente semplice, ma che in realtà condensa in soli 30 minuti il delirio di una donna e la sua conseguente rinascita.
Esteticamente sorprendente – come già preannunciano i poster promozionali –, il set design è curato nei minimi dettagli nelle tonalità dei colori primari e si amalgama con armonia ad un guardaroba ricercato e alla moda. È proprio quest’ultimo che rende questo meraviglioso esperimento artistico un prodotto raffinato ed unico, sublimato da una performance quasi teatrale della Swinton e dal tocco distintivo di Almodóvar.
Riccardo
Di Yi Lu Xiang (Love After Love)

Ann Hui, fresca fresca del Leone d’oro alla carriera, presenta il suo terzo film tratto dai racconti della scrittrice Eileen Chang, portando in scena un amore ostacolato dalle differenze di classi sociali in una Hong Kong che ostenta tutto il suo lussuoso splendore agli albori della seconda guerra mondiale. Non ci troviamo davanti ad una storia che spicca per originalità: la giovane Ge Weilong, in cerca di supporto finanziario per i suoi studi, lascia Shanghai per chiedere aiuto alla zia residente a Hong Kong, una donna benestante che pecca di lussuria tanto quanto di franchezza. Non ha peli sulla lingua nell’istruirla ed indirizzarla quando l’inesperienza ed immaturità della giovane la porteranno ad una notte di piacere consumata prima del matrimonio con un figlio di papà poco incline al rigore. Ge Weilong e la zia escogiteranno così un modo per uscirne più o meno dignitosamente e si sa, cosa c’è di meglio di un matrimonio riparatore fra due famiglie agiate? Peccato che le aspettative di lei resteranno alquanto deluse dinanzi l’incontenibile desiderio del neo-marito di provare quanti più differenti amanti possibili. Ma la bellezza di questo film non sta appunto nella sua storia, quanto più in come viene mostrata, quasi come se stessimo assistendo ad una mostra d’arte, con riprese ricche di dettagli e sfarzo, paesaggi al limite dell’inverosimile per quanto eterei e graziosi. Opulenza ovunque insomma. Love After Love è il ritratto di come l’appagamento sentimentale non sia una preoccupazione primaria davanti al garantirsi un posto sicuro in società ben visto da tutti e forse è proprio vero il detto “mai lasciare la strada vecchia per quella nuova”.
Angelica
Night In Paradise

Se c’è una cosa che Park Hoon-jung sa fare bene è intrattenere. Prima ancora che Bong Joon-ho vincesse un gran numero di statuette per Parasite agli ultimi Academy Awards ed il mondo (gran parte almeno) riconoscesse che esiste anche il cinema coreano e non sono di meno a nessuno, la Corea ha dato vita ad un filone di thriller e noir accattivanti e ben predisposti al venir apprezzati su larga scala mondiale. Park Hoon-jung ha una bella gavetta di sceneggiatore alle sue spalle, lavorando alla stesura di The Unjust ed I Saw the Devil, film che ottennero un gran successo in Corea. Anche questa volta siamo davanti ad un thriller che non ci risparmia violenza e tensione, dove non si ha paura di sporcare il viso dell’attore più bello con sangue e fango, annullando qualsiasi decoro e compostezza. Un sicario vuole distruggere il boss di una gang criminale ma il delitto non va a buon fine e la vendetta è presto servita. Inutile è la fuga nella pacifica isola di Jeju popolata da pescatori e turisti, la resa dei conti si fa sempre più vicina ed il protagonista Tae-gu, per il quale inevitabilmente si arriva a fare il tifo, dovrà scontrarsi non solo con dei spietati assassini ma anche con quello spirito di crocerossino che lo porta a voler proteggere la nipote di colui che gli ha dato rifugio. Lei, segnata da un brutto male e con una scadenza sopra la testa, non ha però bisogno di alcuna protezione. Ci troviamo davanti alla versione coreana di Beatrix Kiddo in Kill Bill di Tarantino ma ancor più letale, il che sembra quasi impossibile da credere ma d’altronde è pur sempre un film e per quanto pure una sparatoria contro quaranta tizi armati non riesca a scalfirla di un solo graffio ed il nostro naso storce un po’ perché forse anche la vendicativa Black Mamba ne sarebbe uscita perlomeno con un proiettile in corpo ed i capelli scompigliati, la pellicola si lascia guardare ed apprezzare per il suo intrattenimento spontanea ed una messa in scena magistrale. Insomma un film da divano e pop-cornin compagnia di amici che non si schifano alla vista di litri di sangue e budella!
Angelica
Mandibules

Quentin Dupieux con Mandibules è decisamente riuscito nella sua impresa di strappare grosse risate al pubblico di Venezia77. Il film è puramente demenziale e da uno stampo nonsense, ma è anche dannatamente geniale.
La storia vede Manu (Grégoire Ludig) e Jean-Gab (David Marsais), due amici affiatati che scoprono una mosca dalle notevoli dimensioni nel bagagliaio di una macchina rubata. I due complici decidono quindi di addomesticarla e insegnarle come commettere delle rapine così da poter ricavarne del denaro. Da qui parte una frizzante avventura on the road fatta di nottate trascorse all’aria aperta, van che prendono fuoco, bici con unicorni, scambi di persona e ancora, patate e carote bio, riti un po’ particolari con cui si ci comunica le proprie emozioni e tante urla. Quando al duo va ad aggiungersi l’incontro con un gruppo di ragazzi di città in villeggiatura nella casa dei genitori di due di questi, la comicità tocca picchi elevati.
Ciò avviene anche grazie ad Agnès (interpretata da una spiazzante Adèle Exarchopoulos). Agnès è una ragazza introversa dall’animo buono che emerge dal resto del gruppo perché, a causa di un incidente passato che le ha colpito delle attività cerebrali, può comunicare solo urlando. Ed è con lei e la mosca stessa, dispensatrice di vere e proprie perle, che il film prosegue e va a concludersi nel modo giusto. Il tono è semplice e frizzante e la durata è perfetta (80 minuti circa): ci si perde tranquillamente nelle avventure stravaganti e assurde dei due folli protagonisti.
PS: toro-toro!
(Quando vedrete il film capirete e non smetterete più di farlo con i vostri amici, un po’ quello che è successo a tutti noi durante il corso di questa edizione del festival.)
India