Roma, 1976. Il bambino Valerio assiste al tentato omicidio di suo padre, il magistrato Alfonso (Pierfrancesco Favino, premiato con la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile), da parte della NAP, in pieni anni di piombo. Osserva la scena dall’alto, dal balcone di camera sua. Il suo sguardo è onnisciente e allo stesso tempo ignaro. Claudio Noce, in questa importante e fortissima elaborazione dello spazio scenico e filmico, racchiude il senso di tutta la sua opera.

Un’opera che è a metà, divisa nettamente in due parti, in cui la visione, la prospettiva e il punto di vista sono i veri protagonisti del film. Tutti gli eventi saranno infatti presentati attraverso lo sguardo innocente e primordiale della fanciullezza, in un gioco di comprensione e di inconsapevolezza. Valerio viene profondamente segnato da questo fatto, cerca in continuazione di capire e comprendere l’accaduto, in un costante stato di allerta e ricerca. Avviene tutto nella mente di Valerio, tutto il film è come se si realizzasse nella sua testa, siamo sempre attaccati a lui. Ed è proprio la mente di Valerio a creare Christian, un ragazzino un po’ più grande di lui che sembra abbracciare in toto la vita, in maniera molto più attiva e vivace rispetto a lui.

Valerio vive nella paura e nel pericolo, legato profondamente a quello che ha visto dal balcone, Christian nella gioia e nella leggerezza. Claudio Noce sembra così unire il vero storico e il racconto fittizio, usando come modello il cinema immaginifico di Spielberg e Zemeckis. Realtà e fantasia si intrecciano, in un gioco che risulta quasi sempre interessante e non banale. I problemi arrivano nel secondo atto. Perché il film si divide bruscamente. È interessante il lavoro che fa il regista con Favino, ormai prima e più grande star del cinema italiano. È un lavoro di sottrazione e di nascondimento. È un gioco reale e diegetico, perché Alfonso viene messo in sicurezza dalla sua scorta, quindi compare e scompare, non deve rimanere fermo nello stesso luogo per molto tempo.

Noi vogliamo vedere Favino, ma Noce non ce lo mostra. Lo tiene nascosto. E il nostro desiderio cresce. Ma, incredibilmente, quando Favino compare, nella seconda parte del film, e parte con la sua famiglia in un roadtrip in Calabria, il film perde potenza. Perché quella dimensione onirica e fantastica, che poneva domande ma non forniva risposte svanisce. Il film diventa realista, si ancora alla realtà, illustra motivazioni ed effetti. Si scoprirà un segreto riguardante la vita di Christian, e in questo modo Noce razionalizza l’irrazionale. È come se, in questo modo, cancellasse tutta la prima parte di mistero e di scoperta. La scoperta riguardo il plot twist principale della narrazione in realtà toglie il piacere della scoperta ideologica del film. L’esplorazione lascia spazio alla soluzione e alla sentenza.

Noce valorizza ogni singolo comparto tecnico, sparando al massimo la saturazione dell’immagine. Sarebbe stato più interessante dividere anche visivamente le due parti del film. In quel modo avrebbe avuto tutto più senso, perché avresti invertito e capovolto col potere dell’immagine il cambio dell’approccio filmico.

Il rapporto tra Valerio e Alfonso, anche in questo caso, è più forte quando è sommerso e distante rispetto a quando diventa esplicitato. Il problema di questo cambio di prospettiva tocca anche la coerenza del racconto, perché inizi a farti delle domande su come una famiglia così controllata e protetta possa come adottare Christian senza preavviso e senza nessuna indagine (Christian andrà con Valerio in Calabria e conoscerà Alfonso).

Il prologo e gli ultimi 3 minuti sono proprio sbagliati, disturbanti, posticci e inutili. Per il resto, Padrenostro è un film affascinante, bello da guardare e attraente, che ti abbraccia e ti riscalda fino a che rimane un incantevole gioco mentale. Quando diventa un affresco realista e naturalista, diventa respingente e contraddittorio. È un’opera divisa, che divide, ma nella quale è bello perdersi e, a differenza di Valerio e Christian, non ritrovarsi.

Federico