[SPOILER FREE]

Guardando l’ottavo ed ultimo episodio di We Are Who We Are ho ripensato alle parole di un’amica: il Cinema è i viaggi che ho fatto, le canzoni che ho ascoltato, i vestiti che ho indossato e le parole che ho detto. E mentre Guadagnino mi trascinava nel viaggio della speranza di Fraser e Caitlin verso Bologna non ho fatto altro che proiettarmi nel futuro, al momento in cui avrei visitato quegli angoli di città che non ho mai percorso prima, immaginando qualcuno con cui condividere Time Will Tell di Blood Orange e poter esclamare con fierezza: “È la nostra canzone!”.

Eppure il Cinema è anche ciò che non è, e We Are Who We Are è l’adolescenza che non ho mai vissuto. I ragazzi che non ho mai avuto il coraggio di baciare, i messaggi che non ho mai ricevuto, i treni presi, persi e quelli evitati, le corse verso l’ignoto, le nuove scoperte, la libertà che non ho mai totalmente assaporato…

La storia parte da Fraser e Caitlin, due adolescenti alla scoperta di sé stessi. Entrambi americani, vivono insieme alle rispettive famiglie in una base militare fittizia vicino Chioggia. La serie – scritta a sei mani dallo stesso Guadagnino insieme a Francesca Manieri e Paolo Giordano – è come un cerchio: si apre e si chiude con i due ragazzi in un racconto che rompe gli schemi della serialità televisiva, sviscerato in una trama priva dei tipici escamotage atti a creare aspettative nello spettatore. I primi due episodi mostrano lo stesso arco temporale da due punti di vista differenti. Il primo è lo sguardo irrequieto, arrogante ed irruente di Fraser: il suo arrivo in Italia, l’approccio con i coetanei e il mondo adulto, il rapporto conflittuale e tossico con una delle madri – interpretata da Chloë Sevigny – che tanto ricorda Mommy (2014) di Xavier Dolan e À nos amours (1984) di Maurice Pialat (da cui deriva anche il nome della caserma, Maurizio Pialati). Nel secondo episodio, invece, vediamo la realtà filtrata dagli occhi della silenziosa Caitlin, figlia di un militare trumpista (Kid Cudi) che ha occhi solo per lei, e la cui pubertà avvia le danze di un periodo di crisi d’identità e confusione di genere che la porterà a vestirsi da ragazzo e a farsi chiamare Harper, incoraggiata dallo stesso Fraser che, a differenza sua, nella sua fluidità sfugge da qualsiasi definizione ed etichetta.

Guadagnino accudisce i suoi personaggi, li segue da vicino e talvolta si allontana, gira loro intorno, poi li avvolge in un abbraccio e non li molla più, sempre costante col suo tocco intimo e delicato. Il regista palermitano ha il potere di renderci parte integrante del racconto: senza mai farci sentire di troppo ci permette di entrare in punta di piedi negli universi che confeziona con precisione quasi maniacale (la fotografia di Frederik Wenzel e le tracce composte da Devonté Hynes, così come il resto delle canzoni che rendono iconici i momenti rappresentati, completano e rafforzano l’identità della sua visione di autore e cinefilo). Un candore che a volte lascia spazio all’intensità della messa in scena, talmente forte da restarne tramortiti, come la scena finale del terzo episodio in cui Fraser vede sua madre Sarah ballare insieme a Jonathan (Tom Mercier): il modo in cui la macchina da presa rincorre il volto del ragazzo (Jack Dylan-Grazer è formidabile, il suo volto un teatro di emozioni) tenendoci nascosto cosa lo stia turbando così tanto è emotivamente spiazzante ed estraniante, sembra di essere lì e di sentire il vento soffiarci addosso. La sua sofferenza diventa nostra. Ed è inevitabile l’associazione a Call Me by Your Name, uno dei tanti riferimenti presenti nella serie, come se Guadagnino non riuscisse a lasciare andare quella magia avvenuta da qualche parte nel nord Italia e la volesse ricreare (per me registicamente la supera) altrove.

Tuttavia, aldilà dei parallelismi a livello di immagini, le due opere del Guadagnino-verse divergono: We Are Who We Are racconta due adolescenti, nella purezza dell’età che stanno vivendo, ignari e impulsivi, che si incontrano e si scontrano, si conoscono, scoprono sé stessi, sperimentano insieme e si separano per poi ricongiungersi nell’atto finale. L’ottavo ed ultimo episodio – la cui costruzione è l’incastro perfetto – ci riporta alla struttura dei primi due e – inaspettatamente – vediamo Caitlin e Fraser vivere il concerto che tanto attendevano separati e, per quanto doloroso, è brillante, la scelta giusta per giungere a quella conclusione che è un vero e proprio atto d’amore.

Esteta che mette in primo piano le persone, Guadagnino comunica l’amore per le sue creature raccontandole nel microcosmo in cui vivono, tutto il resto fa da contorno. E questa cornice comprende anche il gruppo di Caitlin con cui Fraser entra in contatto (Francesca Scorsese è splendida, il suo carisma è esplosivo) e che col proseguire della storia si farà sempre più da parte. Ne mostra ansie, paure, inquietudini e contraddizioni in un affresco di vite che “non dà risposte, ma coltiva il dubbio”. In un periodo dove sentiamo la forte necessità di dare una definizione a tutto si fa strada questo gioiello che ribalta ogni preconcetto: siamo chi siamo, qui e ora. Lo sguardo laico, puro e incontaminato di Guadagnino ci trascina in un viaggio alla ricerca dell’identità (dei personaggi, ma anche nostra), donandoci una serie che è un inno alla vita, all’inclusione e alla libertà.

We Are Who We Are è il manifesto di cui avevamo bisogno, un’eredità preziosa ed inestimabile.

Time will tell.

Marika