“Hai paura?”. È un quesito ricorrente, posto da uomini in segno di sfida alla protagonista per portarla a compiere determinate azioni. È dalla ripetizione di questa domanda che mi sono resa conto dell’essenzialità della sceneggiatura di Slalom. Senza sbavature, profondamente equilibrata. Contenuta, ma completa.

Fra gli sfortunati bollati Cannes73 (vivo con la convinzione che se fosse stato presentato effettivamente sulla Croisette avrebbe ricevuto la visibilità e riconoscimenti che meritava), Slalom è il primo lungometraggio della regista francese Charlène Favier che con mano sicura e salda ci immerge nell’esperienza semi-autobiografica della quindicenne Lyz (Noée Abita), selezionata per un programma di studi sciistici di un liceo nelle Alpi francesi. Abbandonata da tutti trova conforto nell’illusione momentanea nata dalle crescenti attenzioni di Fred (Jérémie Renier), allenatore ambizioso che con l’intento di portarla alle Olimpiadi si avvicina sempre più a lei.

Dietro quello che sembra il classico dramma sugli scandali nel mondo dello sport si cela un affresco profondo e tremendamente crudo: un’accurata rappresentazione della competitività, dei sacrifici e delle pressioni a cui il corpo e la mente degli atleti sono sottoposti fa da sfondo ad una vicenda che prende vita attraverso i respiri affannati della protagonista e i numerosi primi piani dai colori freddi che accentuano il disagio e il malessere della situazione. Talvolta il rosso prende il sopravvento nei momenti carichi di tensione, mentre altre volte le tonalità bluastre sono squarciate da spiragli di luce caldi che illuminano il viso di Lyz, quasi a lasciar intendere che non tutto è perduto.

Uno dei rischi nella realizzazione di un film che tratta di abusi è quello di romanticizzarli. In Slalom non traspare mai che quello a cui lo spettatore sta assistendo sia giusto. Fin dall’inizio viene messo nella posizione di rendersi conto che nella dinamica che sta prendendo forma c’è qualcosa di profondamente sbagliato. Il linguaggio del corpo è vitale. Il modo in cui Fred guarda Lyz. Il modo in cui la tocca. Le parti in cui abusa di lei sono nauseanti. Crude. Violente. Abominevoli. Il corpo della ragazzina sottomesso al piacere maschile, come se lei non esistesse. Charlène Favier non ci risparmia, ma non si compiace di quello che mette in scena. E spesso con la macchina da presa si concentra sulle mani di Lyz, lasciando che siano solo i loro movimenti a comunicare le emozioni della ragazza.
Jérémie Renier si conferma ancora una volta un fuoriclasse, ma il film è sulle spalle di Noée Abita che si fa carico di un dolore che diventa nostro. Slalom è una visione tosta, destinata a restare addosso.

[da qui in poi spoiler sul finale]
Un’opera prima così riuscita e matura, le cui scelte registiche completano una narrazione rigorosa: una ripresa dall’alto della pista segnata dal passaggio degli scii mi ha ricordato l’immagine di una schiena presa a frustate che ho poi associato al corpo martoriato di Lyz dopo le violenze di Fred. Quest’ultimo, che in un momento ad inizio film insieme all’allieva, vede un lupo, ma lei no. Il lupo ce lo ha accanto, lo vedrà solo verso la fine, quando realizza che quello non era vero affetto: a Fred non importa altro che di sé stesso e lei era solo una delle (tante?) prede con cui ha banchettato. La scena finale della gara è l’ultimo atto della liberazione di Lyz, girata in modo che il suo esito passi in secondo piano. Lo spettatore vive Slalom dalla prospettiva della protagonista e, come lei, vuole solo che tutto finisca. È negli sguardi che lancia alla pista da scii che comprendiamo quanto la gloria non conti più nulla. Ed è lì che lei riesce ad andare oltre.
Marika