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Approdata sulla piattaforma di streaming Netflix a fine ottobre 2020, La Regina degli Scacchi (The Queen’s Gambit) è il perfetto mix di drama, thriller ed aesthetic pleasure sotto forma di miniserie di sette puntate, sotto la regia di Scott Frank basata sul romanzo omonimo di Walter Tevis pubblicato nel 1983. I consensi positivi da parte di critica e pubblico sono stati molteplici, raccogliendo apprezzamenti anche dalla comunità scacchistica fra cui spiccano i nomi di Magnus Carlsen, Campione del Mondo, e Nigel Short, vicepresidente della Federazione Internazionale degli Scacchi che ha rilasciato su twitter il “certificato virtuale” di gran maestro a Beth Harmon, protagonista della serie. Per non parlare delle due freschissime candidature ai Golden Globe 2021 per miglior miniserie e miglior attrice in una miniserie ad Anya Taylor-Joy. Si direbbe che The Queen’s Gambit abbia proprio fatto scacco matto!

Nella primissima scena ambientata nel 1967 in cui viene mostrata Elizabeth “Beth” Harmon (Anya Taylor-Joy), la troviamo in una vasca da bagno, completamente vestita e fradicia, la messa in piega fuori posto, il mascara che cola dai suoi occhioni da cerbiatto, confusa e coi postumi di una sbornia. Vani sono i suoi tentativi di nascondere gli effetti di una nottata balorda. Si veste, si pettina alla bell’e meglio, sorseggia ancora un po’ di alcol e butta giù delle pastiglie per poi uscire dalla propria stanza d’albergo e correre giù per le scale, mettendo piede in una sala piena di giornalisti e fotografi. Non si direbbe ma è pronta a giocare una delle sue più importanti partite di scacchi, dinanzi a lei il campione del mondo di origine russa. Questi primi minuti ci presentano due delle peculiari caratteristiche della protagonista: la sua bravura nel gioco degli scacchi e la sua propensione per alcol e farmaci.

Dopo quest’incipit, veniamo catapultati negli anni ’50 in un orfanotrofio. Troviamo una piccola Beth che ha perso la madre a causa di un incidente stradale in cui lei stessa fu coinvolta; il padre manca da diverso tempo nella sua vita. Schiva, fredda e distaccata, faticherà a convivere con le rigide regole del posto e solamente la compagnia dell’amica Jolene e gli incontri segreti nel seminterrato col custode William Shaibel renderanno la sua permanenza nell’istituto vagamente piacevole. Sarà proprio il custode ad introdurla al mondo degli scacchi, spingendo una Beth di soli otto anni a studiare e documentarsi sempre più su questa disciplina. Ed è fra quelle mura che inizierà la sua dipendenza da farmaci, dato che a quei tempi era normale amministrazione somministrare pillole tranquillanti negli orfanotrofi.

Qualche anno dopo, Beth verrà adottata dai coniugi Wheatley e si trasferirà a Lexington, Kentucky, dove dovrà fare i conti con una quotidianità ben diversa da quella a cui era abituata. Inizierà a comprendere che il mondo è degli uomini e fra donne c’è aleggia solamente un’invidia malsana. Solo gli scacchi sembrano darle conforto e comprensione. Quelle mosse studiate e strategiche sono il frutto di impegno e dedizione e quando la memoria la tradisce sarà il suo intuito a parlare per lei, sotto forma di visioni astratte di una scacchiera proiettata sul soffitto e pedoni, cavalli ed alfieri che si muovono rapidamente e senza alcuna esitazione.
S’iscriverà al suo primo torneo di scacchi dove farà la conoscenza di vari ragazzi che l’accompagneranno nel corso di tutta la serie. Rivali, poi amici, alcuni anche amanti, respinti e poi di nuovo nella sua stretta cerchia di conoscenze. A starle sempre vicina sarà la madre adottiva Alma (Marielle Heller), una donna consumata dalle sue fragilità e dagli alcolici.

Più Beth si fa strada ed un nome nella comunità scacchistica, più cede alla sue dipendenze. È come se le vite degli altri la sfiorassero solamente, non suscitando alcun interesse in lei. Sposarsi, mettere su famiglia, occuparsi della casa: noiose congetture che non fanno parte della sua visione del futuro. Beth vuole diventare campionessa mondiale, sconfiggere il suo rivale russo e qualsiasi altro che le si ponga davanti. Ma la sua scalata verso il successo sarà ripida e contaminata da non pochi passi falsi, una partita in cui sarà costretta a sacrificare diverse parti di sé, fino alla mossa finale.

Uno degli aspetti interessanti della miniserie è l’approccio fisico che la protagonista sviluppa. Man mano che diventa donna, inizia a comportarsi sempre con più grazia, capendo quanto il suo aspetto femminile possa costituire un’arma da sferrare anche durante le sue partite a scacchi. Quando Beth è pronta a giocare, ogni suo movimento è una mossa d’attacco ben studiata e lo comunica col linguaggio del corpo. Essendo l’unica donna a competere in un regno dominato dagli uomini, l’attrice Anya Taylor-Joy evidenzia la femminilità di Beth ad ogni match, incrociando le sue dita affusolate ed appoggiando il mento su di esse, un gesto che potrà sembrare alquanto normale, ma è esso stesso una mossa architettata ad hoc, un atteggiamento femminile e intimidatorio allo stesso tempo.

Per non parlare del suo sguardo, da far invidia ad una qualsiasi principessa dei cartoni animati per la grandezza e bellezza dei suoi occhi. Occhi che sanno ammaliare e stregare, occhi capaci di distrarre gli avversari, occhi che non sanno tradire alcuna emozione. Beth è capace di far cadere ai suoi piedi qualsiasi ragazzo, inizialmente per la sua innata bravura negli scacchi che suscita non poco interesse, ad un secondo sguardo per il fascino che emana.

Let’s play.” – Beth Harmon (episodio 1×07)

Altro aspetto che mette in risalto la femminilità di Beth è dato dai suoi abiti, curati dalla costumista Gabriele Binder. Nelle scene clou della serie, la palette di colori del suo guardaroba ruota attorno alle tonalità del verde chiaro, come ad esempio il vestito che Beth indossa all’arrivo nell’orfanotrofio e quello sfoggiato durante l’ultima partita, la più importante fra tutte, generando così un cerchio che si chiude, un ricongiungimento fra la sua infanzia ed il suo presente.

Ogni suo viaggio in giro per il mondo fra una competizione e l’altra, da New York a Città del Messico, da Parigi a Mosca, influenzerà il suo stile. Ad esempio, durante la sua trasferta parigina acquista un abito nero e beige che si ispira a quelli resi popolari dallo stilista italiano naturalizzato francese Pierre Cardin negli anni Sessanta.

Lo stesso vale per il taglio di capelli ed il trucco, fondamentali per l’evoluzione del personaggio di Beth. Basti pensare a come la sua chioma rossa cambi nel corso del tempo, passando da un caschetto con frangia cortissima, un taglio fatto dopo aver messo piede nell’orfanotrofio e che le dava un aspetto buffo e contrariato, ad una messa in piega più elegante e da femme fatale che acquisisce crescendo.

Il makeup artist e hair artist Daniel Parker ha lavorato molto su questi piccoli dettagli che hanno fatto la differenza, ispirandosi ai look di Rita Hayworth e Grace Kelly, donando così a Beth una pelle di porcellana, uno sguardo definito dall’eyeliner e un tocco del fard. Un quadro assai raffinato e classico che contrasta con uno dei look più audaci presentato nella serie, quello che trae ispirazione da Twiggy ed i suoi iconici occhi contornati da massicce ciglia finte, strati su strati di mascara e tratti neri drammatici, applicati però in modo spartano ed impreciso, a sottolineare il periodo più buio e di degrado della protagonista, oramai consumata dall’alcol.

Come già accennato all’inizio, The Queen’s Gambit tratta di dipendenze tanto quanto di scacchi. Poco dopo che la giovane Beth arriva all’orfanotrofio, le viene somministrata una dose giornaliera di tranquillanti. Dato che le sue visioni iniziano a manifestarsi proprio in quel periodo, Beth è convinta che la sua “magia degli scacchi” sia legata all’assunzione di quei farmaci. E l’alcol è la ciliegina sulla torta: mentre le pillole le aprono la mente portandola a visualizzare mosse e contromosse per battere i suoi rivali al gioco, vino, birra e qualsiasi altro alcolico lavano via la sensazione di abbandono ed inadeguatezza che la consumano dall’interno. Beth Harmon è vittima e carnefice dei suoi stessi mali, per quanto non sia stata lei ad originarli.

Anya Taylor-Joy e tutto il cast sono superlativi, ma la recitazione non sarebbe stata così superba se non fosse stato per la meravigliosa scrittura. Non un singolo personaggio può essere inserito in un unico archetipo. La sceneggiatura è genuina ed originale al punto che a volte le azioni dei personaggi sono del tutto imprevedibili ma pur sempre comprensibili e sensate. Anche l’umorismo adottato nella serie non è mai forzato o inutile e le scene drammatiche risultano eccellenti, alcune delle quali i punti più alti e godibili dell’intero show.

La regia è fantastica, nonostante lo spettacolo sia incentrato sui personaggi e le partite di scacchi e dunque ci si aspetterebbe poco dinamismo, ma è proprio qui che il regista Scott Frank ci sorprende, mettendo in scena un ottimo lavoro e preferendo mostrare piuttosto che raccontare. La maggior parte della serie è girata dalla prospettiva di Beth Harmon in un modo tale che il pubblico vede prima ciò che ha davanti la protagonista per poi tornare indietro ad un suo primo piano.

Mentre molti potrebbero trovare noioso assistere ad una partita di scacchi, The Queen’s Gambit ci regala tensione e suspense. Le espressioni nervose e pensierose dei giocatori mentre muovono ogni pezzo sulla scacchiera porteranno lo spettatore a vivere la loro stessa ansia, attendendo impazientemente la mossa successiva.

Non bisogna essere degli esperti di scacchi per poter godere della bellezza di questa miniserie. È il vostro turno, giocate!

Angelica