“Cosa c’è in un nome? Ciò che noi chiamiamo rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo” recita Giulietta ormai dal 1596, quando Shakespeare finì di comporre una delle storie d’amore più famose, amate e rappresentate al mondo. E che cos’è Romeo & Juliet per la produzione del National Theatre tolto il palco e tutto il pubblico? Cos’è se non ugualmente Teatro nella sua forma più onirica e pura? Lo è nel suo linguaggio, nei significati, nelle scenografie e nelle sovrapposizioni di prove generali e messa in scena. Filmato durante la pandemia globale che ormai da più di un anno tiene in scacco il mondo, quest’opera è una novità per la produzione del National, poiché non è una registrazione in loco e neppure un adattamento cinematografico per le sale.

L’ibrido nato dalla regia di Simon Godwin è stato pensato per un mondo che ha bisogno d’Arte e ne brama il respiro, ma è ancora impossibilitato a poterli cercare. È un esperimento integrante di Teatro e Immaginazione che entra nelle nostre case: uno scambio equo verso tutti coloro che sarebbero andati con gioia, biglietto alla mano, a prender posto in platea e nell’oscurità dar anelito ai luoghi di cultura, i quali ormai sono senza polmoni da troppo tempo. La resa, di una storia ben conosciuta, non aggiunge nulla di nuovo a ciò che già sappiamo, anche se alcuni tagli apportati al testo originale sono scelti con cura e dovizia, dando origine a una versione di durata fruibile per un pubblico più variegato. Le scene si scambiano tra le quinte che si fanno vie di Verona, capannoni vuoti che rappresentano Mantova e scenografie più attentamente ricostruite – quali le stanze di Giulietta o la corte Capuleti.

L’opera si mostra al meglio in sequenze come quella del ballo in maschera – da cui tutto nasce e si sviluppa – recitata dentro un set minimal tipicamente teatrale, ma girata con occhio cinematografico. Così lo spettatore resterà irretito dagli sguardi dei protagonisti, i quali si cercano nella foresta di braccia e gestualità che la musica di Michael Bruce fomenta, come l’incantatore farebbe con il suo serpente. La Regina Mab, evocata nel monologo profetico di Mercuzio – qui interpretato dal vivace ed energico Fisayo Akinade –, si palesa nelle scelte di montaggio, poiché giocando con i flashforward se ne anticipa la tragedia e poco dopo, scambiando il mazzo di scene che Godwin ci fornisce, sarà la volta dei flashback, che mostreranno quella felicità tanto crudelmente tolta agli sfortunati amanti e che non riavranno mai più. Il montaggio, tra le prove e la finzione reale, sembra contrapporsi per accentuare la tragicità shakespeariana senza tempo, ormai risaputa, di come l’amore innocente giovanile non possa sopravvivere nel mondo corrotto che lo alimenta.

Romeo è stato scritto per Josh O’Connor e lui soltanto, la Giulietta di Jessie Buckley è più forte ma non meno fragile: le loro interpretazioni non si esasperano, trovano anzi equilibrio moderno rendendo i celeberrimi del teatro elisabettiano a noi affini ancora una volta. O’Connor e Buckley che si rincorrono, privi di abiti di scena, tra costumi dismessi, fari spenti e sipari abbassati, vivranno nell’immaginario anche a porte chiuse. Si saprà con certezza che Romeo e Giulietta saranno ancora là dentro, a scherzare, ad amarsi e vivere nei secoli, senza fine. E se è vero che l’ultima scena corale – in cui la compagnia teatrale in lutto presta attenzione alle parole del Principe – rimane impressa, ricorderemo che anche il teatro insieme a loro pian piano, andrà spegnendosi e si spoglierà del suo vigore. Si assopirà, come i due giovani che ne sono stati l’anima, in attesa che anche il nostro respiro torni a dargli vita.
Laura