Chi è Mort Rifkin se non l’ennesimo alter ego di Woody Allen, nel suo ennesimo film annuale, di un’ennesima sceneggiatura già sentita e risentita? Diranno i detrattori. Per chi conosce Allen – e lungi da me scriverlo con altezzosità, o lui stesso ne avrebbe di che ridere – sa bene che la quantità (piuttosto che la qualità, come si dice di solito) gli si confà meglio per un bisogno personale di liberare la mente dalle tante parole che lo assillano. Abbozzi, idee, storie che poi possono diventare film. Film che poi conquistano o meno il pubblico, ma di quest’ultima parte al regista non è mai importato molto.

Pertanto sì: chi è Mort Rifkin (Wallace Shawn) se non l’ennesimo alter ego di Woody Allen, nel suo ennesimo film annuale, di un’ennesima sceneggiatura già sentita e risentita, ma ugualmente ben riuscita? Trascurato dalla moglie Sue (Gina Gershon) che cede al fascino del giovane regista francese Philippe (Louis Garrel), Mort viene ai patti con una realtà d’industria cinematografica a lui ormai aliena e che lo rende alieno agli altri. Così pesce fuor d’acqua in quello che dovrebbe essere invece un habitat naturale, nell’arco narrativo di una settimana – quella del Festival del Cinema di San Sebastián – vivrà anch’egli un effimero sogno d’evasione con la bella dottoressa Jo Rojas (Elena Anaya). L’unico suo rifugio costante sono i film dei grandi maestri europei, gli stessi da lui insegnati all’università quand’era professore. Una realtà ormai lontana, che ricorda con nostalgia e forse a lui ben più calzante rispetto a quella apparentemente irrealizzabile – comparandosi al calibro di Joyce e Dostoevskij, altrimenti niente – dello scrittore. Ma l’intreccio è solo una scusa per poterci dare molto più: il suo omaggio al nostro cinema.

La fotografia di Vittorio Storaro – qui in collaborazione con Allen per la quarta volta – unisce la narrazione di realtà e sogno: la prima un contrasto di colori, la seconda un più vellutato monocromatismo. Le scene in bianco e nero sono un collante d’infanzia, ricordi e desideri, e allestiscono in aspect ratio appropriato ogni sogno del protagonista, che sia questo ad occhi aperti o dell’onirico.
Dell’amore che Woody Allen ha sempre provato per il cinema europeo, il regista non ne ha mai fatto un mistero e con Rifkin’s Festival, la libertà è tale da citarlo apertamente in scene che ne ritraggono la poesia e vengono firmate con la sua ironia, ormai marchio di fabbrica.

C’è “Jules e Jim” di Truffaut e “L’Angelo Sterminatore” di Bunuel, così come “Quarto Potere” di Welles e ancora Godard e il nostro Fellini. La chiusa bergmaniana della partita a scacchi con la Morte (perfetto il casting di Christoph Waltz) è forse il punto più alto del film poiché, oltre ad essere l’epifania di Mort, è anche per noi un buon punto di speranza – ebbene sì, caro Woody, pure nel tuo cinismo, volente o nolente! “Life is meaningless” dice la Morte “but it’s not empty” e quando Rifkin comprende che ben poco gli è rimasto, se non le sue paturnie, ansie e fissazioni da piccolo ebreo medio-borghese del Bronx, le scene in bianco e nero dei film/sogni tornano alla mente in suo (nostro) aiuto; riaffiorano nelle loro parti migliori di sorrisi e sollievo, come una biciclettata sotto al sole o un ménage à trois scampato sulla spiaggia. Ed allora ci tornerà in mente che la vita non è vuota, poiché anche quando ci parrà tale, ci saranno sempre i film a riempirla.

Laura