Letteralmente risorta dalle ceneri di un terzo capitolo molto fiacco, la nuova stagione di The Handmaid’s Tale dimostra e conferma che lo show è uno dei migliori prodotti televisivi in circolazione.
Approcciandomici in punta di piedi, i nuovi episodi hanno spazzato via qualsiasi dubbio sulla qualità della serie tratta dall’omonimo romanzo di Margaret Atwood. Dalle mie parole probabilmente traspare una forte delusione, che in realtà cela solamente un grande timore: che la serie fosse arrivata al capolinea e non avesse più nulla da raccontare.

La terza stagione è stata così annacquata che a stento la ricordo, a parte due eventi: l’ossessione di June per la liberazione di tutti i bambini intrappolati a Gilead e la direzione in retromarcia intrapresa da Serena Joy. Sembrava che l’intesa brevemente instaurata con June la potesse condurre ad un percorso di redenzione. Tanto potenziale sprecato… fino ad ora. La quarta ed incredibile stagione ha piantato i semi per far sì che un personaggio così complesso e ricco di sfaccettature possa risplendere. [INIZIO SPOILER] La morte di Fred sarà l’innesco di un cambiamento, già preannunciato dalla tanto agognata gravidanza. [FINE SPOILER] Serena facci sognare. DO YOU UNDERSTAND ME?

La vicenda riprende da dove l’abbiamo lasciata, ovvero con June che decide di rimanere a Gilead nella speranza di trarre in salvo la primogenita Hannah. Gli eventi sono scanditi e spalmati in maniera equilibrata nei vari episodi: inizialmente la vediamo alle prese con le altre ancelle mentre si sposta di rifugio in rifugio, finché non viene catturata nuovamente da Gilead. June non vuole tradire le sue compagne e non cede alle torture, ma nel momento in cui minacciano di far del male a sua figlia è costretta a fare una scelta e rivela dove si nascondono le altre. Sembrano spacciate, in direzione delle colonie, fino a quando il loro viaggio non prende una piega diversa. Dopo un susseguirsi di incontri ed eventi succede quello per tutti questi anni mi è sembrato irraggiungibile. Incredibilmente, a metà stagione June Osborne è libera. È in Canada.

Dopo quattro anni The Handmaid’s Tale deve la sua solidità ad una scrittura sorprendente e ad una regia eccellente. È sempre stata una storia stimolante, in cui lo spettatore è portato a mettersi in discussione, ma se prima assisteva impotente e quasi rassegnato alle barbarie perpetuate fra le mura di Gilead, ora che l’azione si è spostata in Canada è proiettato verso il futuro, cercando speranzoso di anticipare gli eventi e, nel mio caso, rimanere di stucco – talvolta confuso – dalle svolte prese.

È prassi rispecchiarsi in uno o più personaggi di una serie televisiva, Il racconto dell’ancella instaura un rapporto di fiducia col suo pubblico consegnandogli chiavi di lettura a punti di vista differenti. La vendetta (e conseguente ricerca di giustizia) è centrale in questa stagione: fin dal primo episodio June vuole impartire lezioni a chiunque abbia commesso atti di violenza per conto di Gilead. Prima del suo arrivo in Canada la vediamo sicura, decisa e completamente impegnata nel raggiungimento dei suoi obiettivi. Riassaporare la libertà la porta non solo a dover imparare di nuovo a vivere, reinstaurare contatti umani e reimpadronirsi della sua indipendenza a partire dalle attività più semplici come la spesa (la scena dell’attacco di panico nella 4×07 “Home” è un colpo al cuore e la dimostrazione di quanto il trauma di Gilead si annidi sotto la pelle di chi lo ha vissuto, così come il confronto con Fred nella 4×10 “The Wilderness”, in cui June afferma di sentire la mancanza di Offred), ma anche a perdere la bussola della sua missione: come mettere in atto la sua vendetta dal Canada? Come sfruttare la sua libertà? E una volta ottenuto ciò che vuole cosa succederà, troverà pace? L’ira di June si propaga intorno a lei e alle persone che la circondano, alcune vi si riconoscono altre ne sono spaventate: da una parte vi è la confusione di Luke, che vorrebbe solo che sua moglie riuscisse a lasciarsi alle spalle quanto successo e si concentrasse sul salvataggio di Hannah; poi c’è il desiderio di Moira di perdonare, guarire e andare oltre; e infine c’è lo smarrimento di Emily e di tante altre ex-ancelle che non sono ancora riuscite ad affrontare e reagire alle violenze subite.

Una caratterizzazione dei personaggi che scava nell’animo umano, completata da una regia che riesce sempre a mettere in scena in maniera impeccabile gli eventi, senza mai tradire i toni rigorosi dei temi trattati.
Fin dal principio ho identificato i primi piani su Elisabeth Moss come i polmoni della serie: è dal suo volto che respiro l’angoscia e il malessere del racconto. Mi ha sempre stupita il modo in cui il suo viso muta nel corso degli episodi che, senza la necessità di proferire parola, è in grado di dare e dire tutto. A volte mi fermo a pensare all’investimento emotivo e fisico che richiede interpretare una storia così complessa e massacrante come quella di June. La Moss la vive sulla sua pelle da anni in maniera viscerale, è come se trasmutasse.

Alla fine di ogni episodio ho pensato che si fosse superata, raggiungendo la vetta più alta e invece, tassello dopo tassello, alza sempre più l’asticella. Ormai è una sfida contro sé stessa.
Infatti, questa stagione ha segnato anche il suo debutto dietro la macchina da presa. Elisabeth Moss dirige tre episodi, dando prova – attraverso scelte mirate – di nutrire un profondo rispetto per la storia e per il pubblico.

Benché non abbia fatto altro che sognare questo momento, June non trae soddisfazione nell’essere tornata libera, sembra che sia tenuta in vita solo dalla fiamma che alimenta il suo desiderio di vendetta, che non lascia spazio ad altri sentimenti. Gli unici momenti di distensione sono quelli condivisi con Nick (che bello vedere Max Minghella così spesso). È quasi impercettibile, avviene in modo naturale e automatico ogni volta che i due si rivedono o fanno riferimento all’altro e a Nichole, la scena si illumina, abbandonando i colori tetri. Sono anche gli unici momenti in cui vediamo June sorridere. “I think it’s pretty simple as far as, she’s in love with Nick. When she turns around at that house, he says her name and she turns around and you see that smile on her face. We haven’t seen her smile like that in maybe the entire season. And the sun came out, by the way. The sun happened to come out in that shot and it was one of those glorious moments where you’re like, ah, thank you! But the way that she is with Nick is different than the way she is with anyone else. She’s softer. She’s herself. She loves him. I think it’s pretty simple”. [Elisabeth Moss commenta uno degli episodi che ha diretto, la 4×09 “Progress”] Non penso sia casuale che sia stata proprio lei a dirigere gli episodi con i momenti più iconici e intensi fra June e Nick.

La grandezza della Moss sta nella sua abilità di sapere esattamente che sensazioni vuole trasmettere allo spettatore. Questo emerge soprattutto nel terzo episodio, “The Crossing”, quello che ho preferito fra quelli che lei ha diretto. È riuscita ad alternare momenti di pura claustrofobia (June catturata da Gilead, la macchina da presa che cambia ruolo a secondo dell’inquadratura che prima si concentra sul suo occhio sofferente e dopo è essa stessa l’occhio, imprigionando nella gabbia anche chi è dall’altra parte dello schermo) a pure boccate di aria fresca (il ricongiungimento fra June e Nick in cui la camera gira intorno a loro mentre si baciano, facendoci dimenticare per un attimo che là fuori è guerra. “And then, in a perfectly executed moment of pure romantic escapism, she turns back, runs to him, and kisses him. Music swells. Camera spins. It’s an uncharacteristically swoon-worthy moment for the show—and a much-needed moment of respite in the middle of a brutally dark episode. I think that these two characters find real refuge in one another, and I think in a sort of meta way, that narrative also ends up being a sort of refuge within the context of the show. The show is pretty heavy a lot of the time, and that relationship hopefully alleviates some of the tension. In terms of episode 3, it was wonderful to shoot those scenes because of what Lizzie brought to it as a filmmaker”, ha commentato Max Minghella).

Una stagione che per delle strane coincidenze mi è sembrato strizzasse l’occhio a due dei lungometraggi che hanno segnato quest’annata cinematografica. Per la prima volta, nell’episodio Janine-centrico “Milk”, viene affrontato l’argomento aborto, con la stessa delicatezza e dignità con cui Eliza Hittman ne parla nella sua gemma Never Rarely Sometimes Always (2020). Non avrebbe nemmeno dovuto stupirmi il momento in cui, sempre nel quarto episodio in cui June e Janine si aggregano ad un gruppo di ribelli di Chicago, il leader chiede loro prestazioni sessuali in cambio di abiti e cibo. Mi ha fatto ripensare a Promising Young Woman (2020), a come entrambi mi ricordino quanto sia vera la frase all men are trash. Tutti, tranne Nick Blaine.

Malgrado alcuni elementi narrativi poco approfonditi, l’opera ideata da Bruce Miller ha saputo rimettersi in piedi e tornare agli antichi splendori del suo debutto. The Handmaid’s Tale si conferma uno dei pilastri della mia esistenza. Che la rivoluzione abbia inizio. Under his eye no more.
Marika
