Il Pride Month starà anche per concludersi, ma non per noi.
ANGELICA
L’arcobaleno ed i suoi colori. Quante combinazioni da ammirare, quante sfumature da osservare e quante storie queer che il cinema ci ha donato nel corso degli anni, per quanto la strada sia ancora lunga e si senta sempre più la necessità di arricchirsi di nuove testimonianze.

Vorrei iniziare la mia esplorazione nella gamma cromatica LGBTQIAP citando una pellicola che tratta il transgenderismo, percorso poco affrontato nella dimensione cinematografica. “Girl” di Lukas Dhont, presentato nel 2018 al Festival di Cannes, ci porta nel mondo di Lara, un’adolescente che ha due desideri: diventare una ballerina e portare a compimento la sua transizione, stanca di essere intrappolata nel corpo di un ragazzo. Ciò che differenzia questo film da tutti gli altri è il mancato bisogno di Lara di farsi accettare per ciò che è dato che le persone attorno a lei la amano indistintamente. La famiglia riveste un ruolo fondamentale nel cammino della protagonista, supportandola ed ascoltandola sempre, e ciò non è da dare per scontato. Ma i demoni che Lara deve affrontare sono dentro di sé: l’impazienza e la frenesia nello specchiarsi e toccare con mano il corpo che vorrebbe ma che richiede anni di evoluzione, la portano a soffrire costantemente, a sentirsi fuori posto, limitata ed ostacolata. E la danza è il riflesso dei suoi tormenti, richiedendo questa eleganza e leggiadria, qualità da étoile che Lara sente di non possedere a pieno.
“Girl” è la denuncia di un dolore quotidiano, un film necessario.

Passando dal Belgio all’Argentina, “Happy Together” di Wong Kar-wai è la fotografia di un amore senza respiro, quello di Po-wing e Yiu-fai, amanti che si prendono e lasciano continuamente. L’incapacità di trovare il giusto tempo e spazio per dar sfogo ai loro sentimenti finisce per dilaniare entrambi i protagonisti. Uno si lascerà abbandonare allo sconforto ed allo smarrimento, l’altro invece agli eccessi, cogliendo ogni occasione per ferire l’ex compagno. Il regista è un abile maestro nel rappresentare le passioni claustrofobiche dei suoi personaggi, costretti a vivere nell’insoddisfazione personale, talmente abituati alle sconfitte da credere di non meritare alcuna possibilità di felicità. E nemmeno lo scorrere del tempo saprà lenire l’amarezza che pervade costantemente l’animo di Po-wing e Yiu-fai, d’altronde l’happy ending nel cinema di Wong Kar-wai non è contemplato.

Ed infine fermiamoci in Corea del Sud, dove l’acclamato regista della vendetta Park Chan-wook ci ha fatto dono di un’opera in cui le donne amano le donne e quanto disprezzano il genere maschile! “The Handmaiden” è l’incrocio dei destini di quattro personaggi, ciascuno subdolo ed ignobile, uniti dal desiderio di ingannare chi gli sta attorno per il proprio tornaconto. C’è chi mente per il denaro, chi per il piacere sessuale, chi per riscattare la propria situazione sociale. Ma dietro a questa recita ben architettata, le due donne del film manifesteranno un autentico sentimento d’affetto che sfocerà nella carnalità. A renderle simili è la totale assenza di libertà, una condizione che attanaglia vari personaggi del cinema di Park Chan-wook, ma sapranno riscattarsi usando l’arma più potente a loro disposizione: la parola.
“The Handmaiden” è una danza continua fra il reale ed il falso, un sontuoso racconto di identità mutevoli, tradimenti ed eros.
Ecco una lista di film a tema LGBTQ+ che consiglio caldamente di recuperare:
• Addio mia concubina (1993) dir. Chen Kaige
• A Single Man (2009) dir. Tom Ford
• Desde Allá (2015) dir. Lorenzo Vigas
• Paris Is Burning (1990) dir. Jennie Livingston
• Funeral Parade of Roses (1969) dir. Toshio Matsumoto
• Pink Flamingos (1972) dir. John Waters
• 3 Generations – Una famiglia quasi perfetta (2015) dir. Gaby Dellal
• J’ai tué ma mère (2009) dir. Xavier Dolan
• 120 Battiti al Minuto (2017) dir. Robin Campillo
• M. Butterfly (1993) dir. David Cronenberg
• The Rocky Horror Picture Show (1975) dir. Jim Sharman
• Tangerine (2015) dir. Sean S. Baker
• Disobedience (2017) dir. Sebastián Lelio
• Jongens (2014) dir. Mischa Kamp
• Ritratto della giovane in fiamme (2019) dir. Céline Sciamma
LAURA
Immaginate aver perseguito le giuste tappe della propria vita. Immaginate aver frequentato tutte le scuole richieste, essersi diplomati e laureati con ottimi voti, aver intrapreso le giuste esperienze di lavoro e averlo fatto sempre al fianco del proprio migliore amico. Immaginate che quel migliore amico, nonché una brava e buona persona, diventi il vostro fidanzato e poi a Dio piacendo, anche vostro marito. Immaginate, immaginate pure! Perché tutto questo, seppur con un certo gusto asettico, sa di stabilità e di sicurezza. È ciò che si tende ad immaginare da sempre, un po’ te lo fanno credere, un po’ vogliono che tu ci creda. Immaginate che la sposa, con tutte le sue sicurezze, vacilli davanti a un semplice sguardo proprio mentre attraversa la navata della chiesa con il padre al suo fianco. Dalla parte opposta sta passando la fiorista che ha curato le decorazioni per il matrimonio. Immaginate con quanta semplicità basterebbe capirsi, se si lasciasse un pizzico di libertà in più. Servirebbe giusto il tempo di uno sguardo. Ora immaginatele insieme, fiorista e sposa. Immaginate anche il marito, che dopo un comprensibile attimo di straniamento, sceglie la felicità della moglie e la lascia andare. Immaginate Rachel e Luce. Immagina me e te.

Il primo passo è sempre quello dell’immaginazione ed i libri, il teatro, il cinema sono tutti mezzi che ci aiutano lungo questa via, poiché possono parlare di qualsiasi cosa, senza limiti. Farsi una domanda in più piuttosto che una di meno, non può essere sbagliato. La risposta che vi darete sarà il passo successivo per conoscersi e infine accettarsi. Per il pezzo dedicato al Pride Month ho scelto di parlare di Imagine Me & You (2005) perché è stato per me quel primo passo. Ho immaginato che forse tutta quella stima che provavo anche per alcune donne, non fosse solo stima. Mi sono data delle risposte e dopo averlo immaginato, ho anche capito.
Come Rachel che si ascolta e comprende che quel che sente per Luce è vero amore e vale la pena di cercarla in mezzo al traffico londinese all’ora di punta, pur di restare con lei per tutta la vita.
La gratitudine che sento per questo film non ha modo d’essere espressa se non dicendo che sono diventata la persona di oggi proprio grazie al punto di partenza che ha rappresentato per me.
Imagine Me & You, I do – Lo dedico anche un po’ a Katia il cui amore per Lena Headey parlava da sé, ed è stata una delle prime con cui condivisi l’amore per questo film.
Come vedi, c’è qualcosa di te, insieme a tutto il resto, che non sarà dimenticato.
Seppur molto mainstream – non ho la conoscenza di Marika, va detto – lascio la mia sapphic movie list di letterboxd.
INDIA
Se penso al mondo LGBTQ+ nel cinema, o sul piccolo schermo la lista di film dei quali potrei parlare sarebbe infinita, perciò ho deciso di soffermarmi su una serie tv che, formata da un cast poco conosciuto, si è fatta strada nel cuore di molti: SENSE8.
Per chi non l’avesse mai vista, oltre a consigliare di iniziarla quanto prima (è targata Netflix), volevo parlare brevemente di come essa, seppur di genere sci-fi, professi l’amore e l’essere se stessi nel modo più realistico che possa esserci. Sense8 (ideata dalle sorelle Wachowski e J. Michael Straczynski) racconta di come otto sconosciuti che vivono in diverse parti del mondo, con diverse culture, orientamenti sessuali e credi si riscoprono improvvisamente in connessione telepatica l’uno con l’altro.

Agli inizi disorientati e inconsapevoli delle loro capacità di condivisione, per poi venire a conoscenza di essere dei sensate: un gruppo ristretto di simili che hanno sviluppato una profonda connessione psichica. Mano a mano che la storia va avanti i componenti di questo cluster (Will, Riley, Sun, Nomi, Lito, Wolfgang, Kala e Capheus) diventano sempre più capaci di controllare le loro percezioni extrasensoriali ed iniziano ad interagire e legare tra di loro senza mai incontrarsi veramente (almeno per buona parte della stagione).
Mentre si aiutano l’un l’altro nella vita quotidiana, anche grazie a Jonas (un sensitivo di un altro gruppo che è deciso ad aiutare questo cluster appena nato) arrivano a scoprire che un ulteriore sensate (Whispers) sta dando loro la caccia, utilizzando le loro stesse abilità, con lo scopo di annientarli. Tra sotterfugi e battaglie vere e proprie la serie va avanti con uno special natalizio che apre le porte ad una brillante seconda stagione per poi – come un fulmine a ciel sereno – essere cancellata. Ciò nonostante, dopo continue petizioni e ciabatte spedite direttamente agli uffici Netflix (capirete il riferimento solo vedendola) la piattaforma streaming statunitense ha deciso di rilasciare una conclusione di ben 150 minuti così da poter dare una conclusione alle trame ancora aperte.
Il motivo per il quale Sense8 mi ha sin da subito rapita è perché – come ho già scritto qualche riga sopra – nonostante il genere sia fantascientifico, di base resta comunque umana e percorre tematiche importanti che quasi tutti noi viviamo sulla nostra pelle ogni singolo giorno – il comprendere il proprio orientamento sessuale, la lotta contro la parità dei sessi, l’accettazione della perdita di una persona cara, il razzismo, la fede…
E’ una serie tv che sin da subito si è messa a nudo in tutto e per tutto, e così facendo ci ha mostrato che la vera violenza è quella che facciamo a noi stessi quando abbiamo paura di essere chi siamo veramente. Noi dobbiamo accettarci e amarci per quelli che realmente siamo, e non permettere a nessuno di affibbiarci un’etichetta solo perché quel qualcuno deve per forza comprendere la nostra identità, perché 1. le etichette sono l’opposto della comprensione e 2. chi realmente siamo/vogliamo essere spetta solo a noi deciderlo.
Amor Vincit Omnia
A seguire una lista di film/documentari/serie tv a tematica LGBT.
Alcuni grandi cult, altri meno conosciuti ma tutti comunque meritano di essere visti.
- Philadelphia (1993) dir. Jonathan Demme
- In & Out (1997) dir. Frank Oz
- The Birdcage (1996) dir. Mike Nichols
- Brokeback Mountain (2005) dir. Ang Lee
- Freeheld (2015) dir. Peter Sollett
- The Normal Heart (2014) dir. Ryan Murphy
- The Death and Life of Marsha P. Johnson (2017) dir. David France
- Keep the Lights On (2012) dir. Ira Sachs
- Supernova (2020) dir. Harry Macqueen
- Booksmart (2019) dir. Olivia Wilde
- A Single Man (2009) dir. Tom Ford
- A Secret Love (2020) dir. Chris Bolan
- Battle of the Sexes (2017) dir. Jonathan Dayton
- Lovesong (2016) dir. So Yong Kim
- My Own Private Idaho (1991) dir. Gus Van Sant
- The Haunting of Bly Manor (2020) dir. Mike Flanagan
- La vie d’Adèle, chapitres 1 & 2 (2013) dir. Abdellatif Kechiche
- The World to Come (2020) dir. Mona Fastvold
- Boys Don’t Cry (1999) dir. Kimberly Peirce
- Tomboy (2011) dir. Céline Sciamma
MARIKA
Tragedia. Sofferenza. Catastrofe. Da che ho memoria, la maggior parte dei film a tematica LGBQTIA+ ha come costante il non vantare un happy ending. Per quanto io ami farmi spezzare il cuore dalle storie in cui mi immergo, negli ultimi anni sono giunta alla conclusione che la sfera cinematografica queer necessiti un’iniezione narrativa di speranza.
Ed è per questo che ho deciso di dare spazio a queste due gemme.

Nonostante la chiusura forzata dei cinema, una piccola opera indipendente è riuscita a raggiungere il pubblico grazie al passaparola social dopo il passaggio per alcuni festival internazionali. E l’11 giugno ha debuttato in alcuni paesi su MUBI, fra cui l’Italia, il primo lungometraggio di Emma Seligman intitolato Shiva Baby (2020).
Un coming of age tragicomico che potrebbe essere riassunto in cinque parole: due amanti e un funerale. Danielle, studentessa confusa sul suo futuro, va controvoglia ad un funerale ebraico inconsapevole del fatto che avrebbe incontrato la sua ex fidanzata e il suo attuale sugar daddy.
Il dramma prende forma nell’arco di un pomeriggio e – quasi a ricalcare Carnage (2011) di Roman Polański e mother! (2017) di Darren Aronofsky – in un unico ambiente in cui si annidano parenti-serpenti.
Settantasette minuti scanditi da un ritmo incalzante e serrato, con una colonna sonora dalle tinte horror che contribuisce ad aumentare il senso di tensione costante che permea da inizio funzione. In molti hanno descritto il film come un attacco di panico. Non me la sento di obiettare.
Shiva Baby riesce a rappresentare in maniera brillante e profondamente credibile uno squarcio di vita in cui vengono affrontate le difficoltà legate a sessualità e uso del proprio corpo, così come le incomprensioni col mondo degli adulti e le incertezze sul proprio futuro.
Uno straordinario esordio che toglie il fiato – letteralmente soffocante per come la macchina da presa sembra ammanettata alla protagonista – e al tempo stesso rassicura per la naturalezza della messa in scena del racconto. Shiva Baby è una creatura coraggiosa e audace.

Così come l’esordio alla regia di Francis Lee che ha debuttato al Sundance, quasi a braccetto con Call Me by Your Name: God’s Own Country (2017). Un lungometraggio silenzioso (dialoghi serrati e colonna sonora diegetica fino ad un momento chiave), imbrattato di fango, costellato di contatti esitanti e respingenti, quasi spaventati, in cui i sentimenti vengono repressi e vissuti segretamente.
Protagonista tormentato è Johnny (interpretato da uno strabiliante e straziante Josh O’Connor), giovane ragazzo impegnato a prendersi cura della fattoria di famiglia, che fatica a vivere liberamente la sua omosessualità: sarà l’arrivo di Gheorghe, immigrato romeno, che lo aiuterà a lasciarsi andare, ad amare e ad essere amato. Gheorghe, infatti, è la prima persona a dimostrare un vero interesse per Johnny, incoraggiandolo ad essere libero.
E questa libertà l’ho assaporata insieme a Johnny in un momento preciso, in cui la macchina da presa lo sta seguendo mentre è alla ricerca di Gheorghe. Poi la camera si ferma, continuando comunque a mostrare allo spettatore Johnny che si allontana, è come se il ragazzo stesse finalmente abbracciando totalmente la sua omosessualità. Una sorta di epifania per il pubblico. È quasi poetico.
Un lungometraggio crudo e sporco che tiene ancorati personaggi e spettatori in un microcosmo sospeso nella campagna inglese. Eppure, per quanto dreamy e quasi lontana, la messa in scena di Francis Lee non lascia spazio a finzione e orpelli: quello che la sua opera racconta è reale. È una ventata d’aria fresca, è incoraggiante: la porta si chiude e tiriamo un sospiro di sollievo. Frastornati, realizziamo che – senza mai dimenticare le sue origini e la sua storia – un altro cinema cinema queer è possibile e dovrebbe prendere quella direzione. Brokeback Mountain (2006) ha camminato affinché God’s Own Country potesse correre.
Infine, una lista di film, per cui non garantisco per tutti l’happy ending:
- The Blonde One (2019) dir. Marco Berger
- Beach Rats (2017) dir. Eliza Hittman
- Matthias & Maxime (2019) dir. Xavier Dolan
- Happy Together (1997) dir. Wong Kar-wai
- Due (2019) dir. Filippo Meneghetti
- Lola Vers la Mer (2019) dir. Laurent Micheli
- Skate Kitchen (2018) dir. Crystal Moselle
- Funeral Parade of Roses (1969) dir. Toshio Matsumoto
- Beau Travail (1999) dir. Claire Denis
- L’inconnu du lac (2013) dir. Alain Guiraudie
- The Handmaiden (2016) dir. Park Chan-wook
- Closet Monster (2015) dir. Stephen Dunn
- Freier Fall (2013) dir. Shephan Lacant
- 120 Battements par Minute (2017) dir. Robin Campillo
- Water Lilies (2007) dir. Céline Sciamma
- Querelle (1982) dir. Rainer Werner Fassbinder
- Les garçons sauvages (2017) dir. Bertrand Mandico
- Plaire, aimer et courir vite (2018) dir. Christophe Honoré
- Una giornata particolare (1977) dir. Ettore Scola
- And Then We Danced (2019) dir. Levan Akin
- The Favourite (2018) dir. Yorgos Lanthimos
- Jongens (2014) dir. Mischa Kamp
- The Kids Are All Right (2010) dir. Lisa Cholodenko
- Una mujer fantástica (2017) dir. Sebastián Lelio
- Giant Little Ones (2018) dir. Keith Behrman
- Mine Vaganti (2010) dir. Ferzan Özpetek
- My Beautiful Laundrette (1985) dir. Stephen Frears
Angelica, Laura, India & Marika