Una nuova serie è giunta sulla piattaforma streaming Netflix e tutt* ne parlano: Squid Game (오징어게임 , letteralmente “Il gioco del calamaro”) è una produzione sud-coreana scritta e diretta da Hwang Dong-hyuk, nove episodi incentrati su alcuni survival games che evidenziano la violenza e la corruzione dell’animo umano.

Sud Corea. 456 persone, aventi in comune grossi debiti e difficoltà economiche, vengono reclutate per partecipare ad un misterioso gioco gestito da un personale armato dal volto coperto: in palio una cifra spropositata, il corrispettivo di 33 milioni di euro. Privati di ogni bene proprio, i partecipanti si ritrovano in un dormitorio, tutti con indosso delle tute da ginnastica verde-blu e dei numeri identificativi, dall’uno al 456. Inizia il primo gioco che altri non è che il classico un, due, tre, stella. A supervisionare il tutto, insieme alla squadriglia di uomini mascherati dalle divisa fucsia, vi è una bambola gigante che rotea il suo capo per osservare i giocatori. Ben presto i partecipanti capiscono che chi perde a questo gioco verrà eliminato, ma per davvero! Proiettili partono da ogni direzione colpendo qualsiasi individuo che osa muoversi e spezzare il silenzio generale ed è subito una strage di uomini e donne. I fiumi di sangue ed i cadaveri portati via come se nulla fosse mettono in allarme i giocatori: questo è l’inferno, ma la realtà a casa non è poi tanto migliore, dunque the show must go on!

Squid Game ci rende spettatori delle varie sfide mortali mascherate da giochi per bambini, dal tiro alla fune al gioco delle biglie. Ogni partecipante si ritrova a riesumare la propria infanzia, ripescando nei ricordi di quei giochi un tempo contornati dalla spensieratezza tipica della fanciullezza. Ma qui non c’è spazio per risate ed errori: chi perde, muore.

La vita assume così tutto un altro valore ma ancor di più la morte. Infatti ad ogni giocatore deceduto viene aggiunta una somma di denaro al bottino messo in palio e questo è lì, esattamente sopra le loro teste, sospeso in aria all’interno di un salvadanaio a forma di maiale trasparente in modo che possano vedere ogni singola banconota. Per quanto il desiderio di tornare a casa è tanto, la tentazione è tangibile, il sogno di diventare finalmente ricchi è raggiungibile, bisogna solo sopravvivere e giocare d’astuzia.

Il protagonista della serie che ci viene presentato sin da subito è Seong Gi-hun (Lee Jung-jae), un uomo sommerso dai debiti che ha perso la custodia della figlia e vive con la madre che si spezza la schiena a lavoro per mantenere lui e le sue sconsiderate scommesse al gioco. È difficile nutrire simpatia per questo personaggio, uno scansafatiche a cui non affidereste nemmeno la lista della spesa, privo del desiderio di realizzarsi e ripagare le fatiche della madre, eppure una volta inserito all’interno del survival game mortale tutto cambia. Scopriamo la bontà d’animo di Gi-hun, la sua correttezza, il desiderio di aiutare il prossimo e di difendere gli oppressi. È molto interessante lo sviluppo caratteriale dei vari personaggi e come il gioco alla sopravvivenza esponga il marciume della loro persona in alcuni casi e l’altruismo in altri.

Gi-hun mette insieme un gruppo di giocatori di cui nutre fiducia (almeno inizialmente): l’amico d’infanzia Cho Sang-woo (Park Hae-soo), orgoglio del paese per essersi laureato col massimo dei voti ed essersi trasferito in America dove però ha truffato i suoi stessi clienti finendo ricercato dalla polizia; la giovane fuggiasca nord-coreana Kang Sae-byeok (Jung Ho-yeon), a primo impatto fredda e diffidente ma dal cuore d’oro e molto protettiva nei riguardi del fratellino finito in orfanotrofio; Oh Il-nam (Oh Yeong-su), un anziano affetto da demenza senile ed infine Abdul Ali (Anupam Tripathi), immigrato Pakistano che non riscuote il suo stipendio da mesi e decide di partecipare al gioco per provvedere allo sostentamento della sua famiglia.

Ad ogni nuovo gioco scopriamo più sfumature di questi personaggi, intuiamo le motivazioni che li spingono ad andare avanti, le scelte (spesso crudeli) che adottano per salvarsi la pelle e come i fragili equilibri del gruppo sono messi a rischio quando la pressione si fa maggiore, il premio in denaro aumenta e con esso la speranza di arrivare alla fine del loro viaggio. Ma a contornare il sinistro destino di questi giocatori vi è quello delle guardie di fucsia vestite, di cui non ci viene svelato pressoché nulla sulla loro identità. Li vediamo seguire una rigida routine quotidiana, fatta di mansioni specifiche e regole da seguire fra cui la più importante: non togliere mai la propria maschera.

Vi sono varie tipologie di guardie, contraddistinte da una forma dipinta sulla loro maschera, triangolo, cerchio e rettangolo, che rappresentano la forma stilizzata del calamaro e che appariranno più volte nel corso della serie. Ci è da subito chiaro che esiste una gerarchia anche fra di loro, gradi diversi di comando e questa è una delle tante metafore all’interno di Squid Game.

Per quanto assurda possa essere la trama ed il gioco in sé, questa serie tv non è altro che il ritratto della società coreana odierna in cui emerge la netta distinzione fra il ricco ed il povero. Questo tema è molto caro ai cineasti coreani, basti pensare a film come Parasite e Snowpiercer dell’acclamato premio Oscar Bong Joon-ho, pellicole che mettono in scena dei veri e propri parassiti che smascherano altri parassiti e di come questi poveri tentino disperatamente di annientare i ricchi.

Man mano che la storia avanza, scopriamo che questo gioco mortale è stato messo in scena per il puro divertimento di un gruppo di ricchi sfondati denominati VIP, troppo annoiati dalla quotidianità e dunque pronti a scommettere sulle vite altrui, coprendo il loro volto con lussuose maschere dorate raffiguranti degli animali per nascondere l’orrenda bassezza della loro anima. Sono i ricchi a dettare le regole ed a farle rispettare, millantando di mettere sempre davanti l’equità fra i giocatori, ma quando quest’ultimi dimostrano di essere più furbi dei loro stessi aguzzini, è qui che l’oppressore detta legge, fuorviando il gioco e mettendo in maggiore difficoltà l’oppresso, altrimenti che divertimento ci sarebbe in tutto ciò? La giustizia non si applica in egual modo fra ricchi e poveri d’altronde, né fuori né dentro al gioco.

I giocatori vivono un vero e proprio inferno caratterizzato dai labirintici corridoi color pastello che percorrono prima e dopo ogni nuova sfida. È una continua discesa e salita nella profondità degli inferi, un viaggio verso una morte preannunciata. Sì perché quello che i piani alti non hanno svelato ad inizio gioco è che ci potrà essere un solo vincitore, illudendo dunque tutti quanti con una possibilità di vita migliore che però spetterà ad un unico soggetto. Ed è qui che le grida d’aiuto, le lacrime, le speranze vane si trasformano in veri e propri strumenti di piacere per i VIP che dall’alto della loro condizione sociale elitaria ridono e si prendono gioco di loro. Hanno sul volto delle maschere di animali, ma le vere bestie mandate al macello sono ben altre.

Varie solo le discriminazioni messe in mostra durante Squid Game, distinte fotografie di una società afflitta dall’indifferenza dilagante e l’opportunismo. Non solo vi è la netta distinzione fra ricchi e poveri, ma anche fra uomini e donne. I personaggi femminili vengono più volte ignorati e messi in disparte nel corso della serie, degradati come componenti deboli della squadra, anche se il gioco dimostrerà come la forza fisica non è il solo fattore vincente. Notare come nemmeno fra i VIP sia presente una donna, ma solo uomini che parlano un inglese maccheronico, forse a rappresentare la disumanità, più simili a bestie predatorie che a veri e propri esseri umani dotati di coscienza. Dunque il fatto che in Squid Game solo gli uomini occupino posizioni di rilievo è la rappresentazione di una realtà esistente un po’ in tutto il mondo, ma in questo caso pesantemente evidenziata nella società coreana in cui il sessismo è all’ordine del giorno.

Oltre a ciò, da sottolineare anche la vena razzista che si snoda nel corso degli episodi, delineando il personaggio dell’immigrato Pakistano Ali come un opportunista che mangia alle spalle della società, quando in realtà è chiaro come egli venga sfruttato ingiustamente in quanto straniero, negandogli addirittura il suo sudato stipendio. Non stupitevi di tutto ciò, la Sud Corea non è solo la terra delle star musicali, dei videogiochi e del kimchi: ha i suoi lati d’ombra e sono più evidenti di quel che si vuol credere.

La corruzione è un altro tema fondamentale della serie. Vediamo le guardie incenerire i corpi dei cadaveri, ma non tutti. Alcuni vengono prelevati segretamente e dissezionati da un medico (appartenente al gruppo dei giocatori) che, attraverso i suoi servigi per aiutare le guardie a portare avanti l’illegale traffico d’organi, ottiene informazioni importanti per sopravvivere duranti i giochi. Dunque anche nelle organizzazioni più rigide e controllate la corruzione s’infiltra silenziosamente, facendosi strada fra gli opportunisti. Illegalità all’interno di altra illegalità.

Ma a contrastare ciò vi è il personaggio di Hwang Jun-ho (Wi Ha-joon), un giovane poliziotto che s’infiltrerà vestendo i panni di una guardia per ritrovare il fratello scomparso. Jun-ho è mosso non solo dal desiderio di ricongiungersi con parte della sua famiglia, ma anche da quel senso di giustizia che lo porta a voler smascherare l’intera organizzazione dietro ai giochi mortali. Peccato che questa storyline parallela sia stata poco sfruttata, concludendosi in un epilogo prevedibile, ma che probabilmente potrebbe riservare dei risvolti futuri nel caso ci fosse una seconda stagione.

Ma parliamoci chiaro: Squid Game non è un prodotto che vanta chissà quale originalità, è molto derivativo ma lo ha ammesso l’ideatore stesso Hwang Dong-hyuk, ammettendo come specialmente i manga e gli anime giapponesi siano stati per lui fonte di grande ispirazione. In effetti ad un primo sguardo, specialmente durante l’episodio iniziale, gli elementi che rimandano ad As the Gods Will sono molteplici: il survival game, la bambola gigante, la violenza sfrenata, ma il regista ha dichiarato che Squid Game era in lavorazione dal lontano 2008 e che per quanto ci siano delle somiglianze con l’opera giapponese (As the Gods Will è un manga scritto da Muneyuki Kaneshiro e disegnato da Akeji Fujimura nel 2011, divenuto poi un live action diretto da Takashi Miike nel 2014), la serie sud-coreana prende strade completamente diverse. Ciò nonostante i rimandi a film come Battle Royale, Snowpiercer e The Cube sono innegabili, ma per quanto Squid Game sia un prodotto derivativo, mette in scena un universo diegetico che affascina lo spettatore portandolo a tifare per l’oppresso, terrorizzandolo per la brutalità dei survival games mostrati ma allo stesso tempo stregandolo per i risvolti che tanta violenza porta con sé, ricordando al pubblico che alla fine il dolore ci rende tutti uguali.

Molteplici sono i riferimenti alla cultura coreana inseriti all’interno di Squid Game a partire del titolo stesso: il gioco del calamaro (in Corea prende il nome di ojingeo), passatempo per bambini che si pratica dal 1970 che apre il primissimo episodio e sarà anche l’ultimo gioco praticato dai finalisti del survival.

La seconda prova in Squid Game vede protagonisti i biscotti al caramello che altro non sono che i dalgona, dolcissimi leccalecca che si producono sciogliendo lo zucchero sul fuoco con l’aggiunta di bicarbonato. In Sud Corea è un dolciume molto diffuso col divertente risvolto che mentre lo si ottiene dandogli una forma circolare, si preme sopra uno stampino con una specifica forma: il gioco sta nel leccare i contorni del dalgona senza rompere la figura al centro. A quanto pare quest’usanza popolare ha incuriosito e divertito moltissimo il pubblico che ha cercato di ricreare la medesima sfida cuocendo i biscotti al caramello e provando ad ottenere la formina impressa al centro, dando vita ad un vero e proprio trend su TikTok con più di 14 miliardi di video di suddetta prova.

Altro riferimento alla cultura coreana inserito all’interno della serie è un ricordo del passato del protagonista: lo sciopero del 2009 ai danni della compagnia automobilistica Ssangyong Motor che a quei tempi licenziò ben 2500 operai. Fu un vero e proprio scandalo che divenne un caso di cronaca non di poco conto, non solo per la tragedia che si abbatté nei confronti dei lavoratori e delle loro famiglie ma anche per il conseguente sciopero che si trasformò in una vera e propria occupazione dello stabilimento di Pyeongtaek conclusosi il 5 agosto di quell’anno dopo ben 77 giorni. Le forze dell’ordine sospesero l’erogazione dell’acqua all’interno dello stabilimento per costringere gli operai a cedere, tagliando inoltre gli approvvigionamenti di gas e medicinali. Gli occupanti costruirono delle vere e proprie barricate per tenere lontana la polizia, non impedendo però gli scontri armati. La vicenda si concluse con la sconfitta amara degli scioperanti della Ssangyong Motor. Per una società come quella coreana dedita profondamente al lavoro, fu un colpo durissimo ritrovarsi di punto in bianco senza occupazione. Non stupisce dunque la difficoltà e la profonda crisi che alienano i personaggi di Squid Game.

Elemento passato in sordina ma che ha una rilevanza non da poco è il biglietto rosso usato come messaggio segreto recapitato al dottore da parte dei trafficanti d’organi. Anche in Snowpiercer di Bong Joon-ho si era ricorso a questo espediente che rappresenta il Libretto Rosso di Mao Tse-tung, simbolo del Partito Comunista Cinese degli anni ‘40 e voce del culto della personalità adottato in passato dal dittatore coreano Kim Il-sung e dai suoi successori, un vero e proprio atto di indottrinamento ed oppressione.

Come è stato già detto, all’interno di Squid Game ricorrono più volte le figure del gioco del calamaro. Ma quant* di voi si sono accort* che i sadici giochi erano raffigurati sulle pareti bianche del dormitorio? Ebbene sì, i concorrenti erano circondati da indizi ovunque, ma la tensione e la paura li ha resi completamente ciechi da non notarli minimamente.

Inoltre una piccola chicca per tutti gli amanti delle leggende metropolitane giapponesi: nel primissimo episodio il protagonista Gi-hun viene fermato da un misterioso uomo d’affari con una valigetta alla mano (Gong Yoo) che gli propone di giocare a ddakji (tradizionale gioco coreano) chiedendogli di scegliere fra una carta rossa ed una blu. Codesti colori rimandano alla leggenda di Aka Manto (in italiano significa mantello rosso), uno spirito dal volto coperto vestito di rosso che infesta i bagni pubblici ponendo la stessa domanda del personaggio di Squid Game: “Carta rossa o carta blu?”. Nella leggenda metropolitana nipponica, il destino degli sventurati che incontravano suddetto spirito maligno era stabilito dalla scelta della carta.

Che altro aggiungere? Squid Game è sicuramente una serie che farà parlare ancora molto di sé, capace di intrattenere il pubblico, anche quello non abituato ai prodotti made in Korea, ma d’altronde non abbiamo davanti il classico drama melò tanto caro quanto mainstream ai coreani.

Il regista Hwang Dong-hyuk anche in passato aveva usato la macchina da presa per dar voce agli oppressi ed alle vittime di barbarie, come nel film Silenced (도가니) ispirato ad un reale fatto di cronaca avvenuto nel 2005 in cui alcuni allievi di una scuola per non udenti divennero oggetto di violenza sessuale da parte degli insegnanti.

Squid Game, senza mai cadere in scene pietistiche e banali, si presenta come un prodotto dotato sì di potenza scenica ma anche di un’intelligenza narrativa che lo porta ad indagare ed accusare le disuguaglianze sociali, rimembrandoci che anche se dotati di numeri identificativi, i protagonisti sono persone e che le tragedie possono abbattersi su chiunque.

ATTENZIONE! Da qui in avanti ci saranno numerosi spoiler su Squid Game, è consigliata la lettura solo una volta conclusa la visione della serie tv.

Molteplici sono i punti interrogativi che Squid Game mi ha lasciato e che voglio condividere.

Qual è l’identità delle guardie? Come vengono reclutate? Si sa veramente poco su di loro, eppure il dubbio che possano essere persone comunissime adescate come i partecipanti del gioco continua a punzecchiarmi. Oltre a ciò, ho immaginato addirittura che quando l’uomo misterioso alla metropolitana chiede di giocare a ddakji, la scelta del colore della carta possa essere rilevante per il futuro dei giocatori. E se la carta rossa rappresentasse le guardie (vestite per l’appunto di fucsia) e la carta blu invece i giocatori con la tuta verde-bluastra?

Altro quesito sul quale sto rimuginando parecchio è la correlazione fra i personaggi di Gi-hun (il protagonista) e Oh Il-nam, l’anziano affetto da demenza senile. Nell’ultimissimo episodio scopriamo che quest’ultimo non è morto durante il gioco delle biglie, ma è vivo e vegeto (anche se parecchio provato dalla malattia) ed è colui che ha ideato il maligno e sadico gioco. Oltre al fatto che all’interno del survival Il-nam possedeva il numero 1 mentre Gi-hun il 456 e che dunque sono i due numeri agli antipodi, ciò che mi ha reso particolarmente sospettosa sono le varie dichiarazioni fatte dall’anziano signore. Dice di vivere nello stesso quartiere del protagonista e durante il gioco delle biglie, svoltosi all’interno di un groviglio di strade e case residenziali ricostruite, sia lui che Gi-hun riconoscono il luogo come familiare. Quando a Gi-hun viene consegnato il latte a colazione, questi lamenta di non poterlo bere in quanto gli crea malessere fisico come il figlio di Il-nam. Ciò che sappiamo di quest’ultimo è che ha una moglie ed un figlio ma non conosciamo la loro identità come non sappiamo quella del padre di Gi-hun. Dunque la mia domanda è: sono in realtà parenti?

Ed infine veniamo all’epilogo della serie. Gi-hun vince ma non fa uso della mastodontica somma di denaro conquistata fin quando non ha l’acceso confronto con l’anziano ideatore del gioco. Da quel momento in poi decide di aiutare le persone a lui care. Gi-hun cambia radicalmente aspetto, scegliendo di tingersi i capelli di rosso e sul più bello che stava finalmente dando una svolta alla sua vita partendo per l’America per ricongiungersi con l’amata figlia, chiama il numero trovato sul cartellino del gioco consegnato ad uno sventurato incontrato nella metropolitana (stesso destino che gli spettò a lui un anno prima). È in quel breve lasso di tempo in cui scambia alcune parole con l’interlocutore (probabilmente il Front Man a capo del gioco) che sceglie di tornare sui suoi passi e non prendere l’aereo. Il colore rosso dei suoi capelli è un indizio che Gi-hun rientrerà segretamente nel gioco sotto le vesti di guardia per smascherare una volta i suoi oppressori?

Suppongo che se non ci sarà alcun continuo della serie, resterò a bocca asciutta e senza risposte, ma in realtà preferirei che accadesse ciò: la paura che un prodotto così ben ingegnato possa perdere la propria bellezza in una seconda stagione è tanta!

Angelica