The Lost Daughter, presentato In Concorso e vincitore del premio per la Miglior Sceneggiatura alla 78a Mostra del Cinema di Venezia, origina dalla penna di Elena Ferrante (con il titolo in italiano La Figlia Oscura) ed è il debutto alla regia di Maggie Gyllenhaal.

La storia, che apporta alcune modifiche dal romanzo (nell’opera scritta vediamo protagonista l’Italia), è ambientata in Grecia, dove Leda (Olivia Colman), una docente universitaria specializzata in letteratura italiana, decide di trascorrere un periodo di vacanza. Inizialmente alla ricerca di quella spensieratezza tipica della villeggiatura, giorno dopo giorno, vediamo come la sua attenzione si focalizza sui suoi vicini di ombrellone, una famiglia numerosa e chiassosa del Queens che ogni estate si ritrova ospite nella località balneare greca. In particolar modo il suo sguardo non si distoglie da una giovane madre, Nina (Dakota Johnson) e dalla sua bambina Elena. Con loro, la professoressa ripercorre – attraverso dei flashback che mostrano una Leda giovane (Jessie Buckley) – alcune delle fasi più importanti della sua vita, che l’hanno segnata e che credeva di aver attenuato: un passato composto dalla fuga dal ruolo di madre e dalla sfera domestica nel tentativo di costruirsi una carriera accademica e ricercare la propria libertà (anche sessuale).

Leda è un personaggio che tende ad estraniarsi, cercando di non far trasparire all’esterno le proprie emozioni. È una donna malinconica che non riesce a liberarsi dei suoi sensi di colpa, ed è proprio con i flashback tornano a galla le sue cicatrici. Se l’intento di far arrivare al pubblico quanto la protagonista sia tormentata dai suoi incubi riesce è anche merito del grande lavoro espressivo della Colman e di conseguenza della Buckley, che con una camera a mano puntata sui loro volti riescono a dar vita alle angosce e ai fantasmi del passato di Leda.

La Johnson allo stesso tempo, con un’ipnotica interpretazione, porta sul grande schermo il personaggio di Nina, una madre che in alcuni momenti riesce a trasmetterci quanto non le dispiacerebbe se la figlia fosse come la bambola dalla quale non riesce a dividersi, togliendole così quello spirito euforico che risiede in ogni bambino e che alle volte li rende impossibili da gestire.

Nonostante la storia sia ricca di personaggi maschili (nella pellicola troviamo Paul Mescal, Oliver Jackson-Cohen, Ed Harris, Peter Sarsgaard), essi fanno solo da cornice. Il cuore pulsante qui sono le donne e il loro approccio (a tratti complicato) con la maternità, una figlia perduta e una madre smarrita.
Il soggetto scelto dalla Gyllenhaal come sua opera prima alla regia non è affatto semplice, tuttavia dimostra di avere una buona capacità dietro la macchina da presa, riuscendo a focalizzare l’attenzione dello spettatore sulla solitudine della protagonista e sulla tensione nei volti dei personaggi nella scena in cui la bambina Elena sparisce dalla spiaggia.

L’unica pecca di questo film dallo stampo indipendente è che proprio lei [Gyllenhaal] non riesce a sostenere l’intera sceneggiatura. Si crea una crepa nella seconda parte della storia dovuta proprio da un’imperfezione in essa. Vengono inseriti alcuni personaggi e alcune sequenze che non sono ben sviluppati con il fulcro della storia, quasi a suggerire che leggere il libro potrebbe aiutarci a capire le ragioni per cui vengono introdotti in alcuni momenti chiave.
Si nota una forte ispirazione allo stile di Luca Guadagnino, ma ciò nonostante Maggie Gyllenhaal non riesce a farci dono di quel je ne sais quoi che con il maestro avremmo senz’altro ricevuto.
Prossimamente al cinema e su Netflix.
India
