CONCORSO
MADRES PARALELAS

Ad aprire il concorso della 78esima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia è stato il film di Pedro Almodovar Madres Paralelas con protagoniste Penelope Cruz (Coppa Volpi proprio grazie a questa pellicola) e Milena Smit, due madri single alle prese con uno scambio di neonati. A contornare questa storia fatta di generazioni a confronto, il tema della memoria della storia spagnola rappresentato dalla riesumazione delle salme di una fossa comune, luogo di riposo delle vittime dei falangisti nella guerra civile. Ahimè il melodramma costante e ridondante generato da queste madri non regala né empatia né ritmo al film che si perde fra le varie storylines senza giungere ad un epilogo soddisfacente.
Angelica
AMERICA LATINA

Non è amore. Il terzo lungometraggio dei gemelli d’Innocenzo – e il primo ad approdare sul Lido – purtroppo lascia tanto amaro in bocca. La fotografia mozzafiato (in un’inquadratura Germano sembra Nosferatu), il sapiente uso dei colori e la suggestiva colonna sonora dei Verdena non sono sufficienti a tenere in piedi un film a tratti inconcludente. E sono ben consapevole che il Cinema non sempre ha le risposte e il più delle volte coltiva il dubbio, ma questo film mi ha lasciato addosso un forte senso di incompiutezza che non sento giusto. Una trama prevedibile con degli espedienti quasi banali e totalmente inaspettati da parte di due autori del calibro dei D’Innocenzo, un thriller che non fa decollare lo spettatore come le loro opere precedenti. Nell’attesa di essere di nuovo cullata fra le braccia dell’originalità che tanto amo, mi aggrappo a La Terra dell’Abbastanza e a Favolacce.
ps. qualcuno mi può spiegare perché si intitola America Latina?
Marika
SUNDOWN

Dopo il Leone d’Argento per Nuevo Orden durante Venezia77, Michel Franco fa ritorno sul Lido con un’altra opera totalmente spiazzante. Le vacanze di una ricca famiglia ad Acapulco vengono scombinate da un lutto improvviso che li costringe ad interrompere il loro viaggio. Da questo momento in poi è il delirio. A differenza del film precedente, Sundown è meno caotico, con un ritmo che non incalza mai, passivo come il suo apatico protagonista. I risvolti talmente assurdi, quasi grotteschi e a primo impatto senza un senso, sono talmente disorientanti da avermi condotta ad una conclusione: per quanto ci provi, mi impegni e mi immerga nelle storie che racconta, io Michel Franco non riesco proprio a capirlo.
Marika
Kapitan Volkonogov bezhal

Il capitano del servizio di sicurezza nazionale Fedor Volkonogov è rispettato da colleghi e superiori. Nel momento in cui sta per essere accusato di un crimine proprio dalle persone che nutrono stima nei suoi confronti, fugge per evitare di essere interrogato e sicuramente torturato. Una visione lo avverte di essere ancora in tempo per cambiare il suo destino. Inizialmente difficoltoso entrare nella vicenda per via dell’ambientazione temporale ambigua, l’opera distopica di Natasha Merkulova e Aleksey Chupov è una parabola che mette in discussione il sistema di tortura, sottoponendo la possibilità di redenzione attraverso la ricerca dell’assoluzione del protagonista. Spetta al pubblico stabilire se per il carnefice ci sia un posto in Paradiso. Visivamente impattante (restano impresse le inquadrature che si soffermano sugli edifici di Mosca e le tute rosse dei soldati che dominavano la scena), avrebbe funzionato meglio se la trama fosse stata più addensata. È la versione russa e meno riuscita di Arancia Meccanica.
Marika
ILLUSIONS PERDUES

Xavier Giannoli adatta “La Comédie Humaine” di Balzac raccontando l’ascesa e il declino di un aspirante poeta. Una messa in scena sontuosa ed equilibrata, scandita dall’alternanza di momenti più intensi e drammatici a quelli dai toni più leggeri e spassosi. Un ritmo vivace, che tiene lo spettatore ancorato alla storia, prendendosi il suo tempo senza far pesare le quasi tre ore di film. Nonostante sia ambientato nella Francia del XIX, brilla – e fa riflettere, parecchio – per la contemporaneità dei temi trattati. L’opera di Balzac è spaventosamente attuale, adattata in un film-affresco che veicola negli intrighi fra i personaggi corali (che cast!) diverse critiche, fra cui quelle al giornalismo, alle leggi del mercato e non solo.
Viva Xavier Dolan e viva i period drama, sempre.
Marika
MONA LISA AND THE BLOOD MOON

Mona Lisa and the Blood Moon, con il quale la regista Ana Lily Amirpour torna In Concorso a Venezia, è consigliabile da vedere con accanto a sé del cibo spazzatura, di ogni varietà, essendo uno dei temi principali del film. Come con The Bad Batch (opera che a Venezia 73 ha conquistato il Premio Speciale della Giuria), la storia vede protagonista una donna che combatte sia per le ingiustizie che le accadono, sia per trovare il suo posto nel mondo.
Mona Lisa Lee (Jeon Jong-seo), che all’inizio troviamo rinchiusa in una prigione psichiatrica, riesce a scappare dalla struttura grazie alle sue capacità telecinetiche. Da lì, sotto lo sguardo vigile di una luna piena che il titolo richiama, il suo percorso si farcisce di particolari (e anche di junk-food, elemento che nella vita reale ha una forte influenza su molte persone) e diventa sempre più coinvolgente. Della protagonista, una vittima-vendicatrice quasi sempre silenziosa ma che possiede un potere, conosciamo poco, ma il viaggio che la porterà alla conoscenza di sé stessa (e allo sviluppo della sceneggiatura) avviene attraverso il suo incontro con altri personaggi. Alcuni di essi sono delle anime amichevoli, disposti ad aiutarla perché prendono a cuore la timida Mona, come: Fuzz (Ed Skrein), un dj molto stravagante e Charlie (Evan Whitten), un bambino con cui la giovane donna instaurerà un legame molto sincero e profondo.
Altri personaggi invece sono più propensi ai loro obiettivi, e qui troviamo la madre di Charlie: Bonnie Belle (Kate Hudson), che seppur sembra essere un’alleata di Mona in poco tempo diventa chiaro che sfrutta l’abilità di quest’ultima solo per suoi scopi personali e l’agente Harold (Craig Robinson), che forse avrebbe dovuto dar retta sin dall’inizio a ciò che il biscotto della fortuna gli suggeriva. La sceneggiatrice-regista Amirpour cerca di dare il meglio di sé in questa sua pellicola fantasy, dove fa lavorare in modo unito due qualità importanti: il potere e l’emozione umana.
India
FUORI CONCORSO
OLD HENRY

Alcuni film, sin dal primo frame, mettono in chiaro le loro intenzioni e sanno ridimensionare le nostre aspettative: è il caso di Old Henry. L’ultima opera di Potsy Ponciroli, presentata Fuori Concorso, conosce i suoi limiti e di essi ne fa la propria personalità. Si prende il giusto tempo per imbastire quello che è, a tutti gli effetti, una pièce teatrale dalla cornice western. La scenografia è minimale, la fotografia risalta una natura conforme a un periodo cruento, dove le leggi erano solo abbozzate e la giustizia la si otteneva da sé. Ambientato nell’Oklahoma del 1906, l’azione si svolge quasi interamente presso la proprietà del contadino Henry (Tim Blake Nelson), il quale ha un passato da scoprire e un figlio (Gavin Lewis) che intende crescere, seppur con severa disciplina, seguendo gli ideali di un nuovo mondo – quello moderno senza criminalità e privo di passati che tornano a chiedere lo scotto. La loro quiete vacillerà quando porteranno in casa uno straniero ferito (Scott Haze), reduce da uno scontro con Ketchum (Stephen Dorff) e i suoi uomini. C’è verità storica e c’è finzione: entrambe sono intrecciate dall’espressività del non-detto e creano così l’atmosfera tesa pronta ad esplodere nell’atto finale. Old Henry è un film onesto, che conosce la sua natura e sa dove condurti: un gioiellino per chi ama il genere.
Laura
LA SCUOLA CATTOLICA

Avete presente il muro de “Ridateci i soldi”? Quello su cui si trovano sempre fogli con sopra scritto: “Arrestate Gianfranco Rosi” o “Arrestate Michel Franco”? Ecco io avrei voluto aggiungere: “Arrestate Stefano Mordini”. Per il secondo anno di seguito mi ha fatto pentire di essermi alzata dal letto per andare in sala, è un talento il suo. Tratto dall’omonimo romanzo vincitore del Premio Strega 2016 scritto da Edoardo Albinati, Mordini porta sullo schermo il delitto del Circeo con una regia quasi assente, dove gli attori sono lasciati allo sbando. La prima metà del film è un insieme di eventi che in teoria dovrebbero contestualizzare e anticipare la tragedia che si consumerà nella seconda metà parte, in realtà è solo un’accozzaglia di scene senza un filo conduttore. Infine, pur comprendendo che “la violenza era all’ordine del giorno” in quel periodo in particolare, ho trovato piuttosto gratuito il modo in cui è stato girato l’omicidio, come se ci fosse un certo compiacimento dietro la macchina da presa. Non traspare affare l’intento di denuncia. Mi chiedo: è forse questo il modo di portare sullo schermo un fatto di cronaca?
Marika
EZIO BOSSO – LE COSE CHE RESTANO

“La musica come la vita, si può fare solo in un modo: insieme”. Ricordo questa citazione come se l’avessi sentita ieri, invece risale a Sanremo 2016. Ezio Bosso – Le Cose che Restano è proprio questo: ciò che resta, ciò che rimane di un artista immenso, di un uomo straordinario. Il documentario di Giorgio Verdelli si accosta all’animo di Bosso con estremo rispetto, una lontananza quasi ricercata. Non è mai facile parlare di personalità così pure ed elevate, farlo dopo solo un anno dalla loro dipartita, poteva anche risultare rischioso. Forse per questo, rendere il documentario non troppo peculiare soffermandosi solo in superficie, è risultata essere la scelta migliore. Alternando voci e racconti di persone e artisti a lui vicine, si delinea un ritratto poco specifico in particolari ma dai contorni ben definiti. Dopotutto il Maestro era la Musica, era fatto di anima, sangue e musica; per tanto quest’ultima indosserà la maschera da protagonista. Con Ezio Bosso abbiamo avuto, non solo un uomo che è vissuto oltre la malattia – per esistere nei colori delle note, come diceva lui, che in esplosioni, inchiostravano le palpebre serrate – ma anche un artista che comprendeva quanto uguaglianza e empatia fossero importanti. La musica come casa per tutti, ascoltatori ed esecutori, senza più alcuna élite sociale che osasse circoscriverla. Queste idee che gli sopravvivono in forza e risonanza, ebbero modo di essere ascoltate ed accolte da un pubblico maggiore e più eterogeneo proprio dopo l’invito a Sanremo. Da allora, per tutti noi, l’arte che ci ha lasciato, non ha mai smesso di arricchirci.
Laura
LES CHOSES HUMAINES

Yvan Attal porta fuori concorso il suo ultimissimo lavoro tratto dal romanzo di Katerine Tuil, con la partecipazione della compagna Charlotte Gainsbourg e del figlio Ben Attal. A far da centro al film Les Choses Humaines è il dramma dello stupro ed i dubbi che esso genera quando le versioni sono poco chiare poiché nate da un’incomprensione di base. È sicuramente un titolo coraggioso ed audace, non privo di difetti, ma che riesce a non cadere nella retorica, mostrando la differente percezione dei fatti con occhio assai acuto. Immediatamente accusato ed accusatrice divengono vittime di un indagine morbosa in cui ogni aspetto della loro vita privata (specialmente quella sessuale) viene posto sotto esame, non mancando di evidenziare le distinte condizioni sociali e culturali dei due protagonisti. Lei è convinta di aver subito una violenza sessuale, lui è del tutto stupito da questa notizia, certo di aver solo giocato con l’erotismo, adottando frasi un po’ spinte ma del tutto innocue. Insomma abbiamo di fronte un caso in cui è difficile mettere sulla bilancia la veridicità delle testimonianze. Yvan Attal si fa carico di tanta responsabilità, regalandoci un’opera intima, profonda e attuale.
Angelica
INFERNO ROSSO: JOE D’AMATO SULLA VIA DELL’ECCESSO

Ad infiammare e divertire il programma dei documentari di Venezia78 arrivano Manlio Gomarasca e Massimiliano Zanin col loro intimo ritratto del prolifico regista di genere Aristide Massaccesi, in arte Joe D’Amato.
Presentato da Nicolas Winding Refn con le varie testimonianze di parenti ed amici (fra cui spiccano la figlia Francesca ed i colleghi Lamberto Bava, Eli Roth, Alberto De Martino, Jess Franco e Ruggero Deodato), il documentario mostra la vita folle di Aristide, fatta di grandi successi ma anche di amare delusioni. Era un artigiano professionale, un abile direttore della fotografia ed una personalità frizzante e pragmatica con più di 200 film diretti, prodotti e fotografati. Ha attinto da tantissimi generi: l’horror, i thriller, il peplum, gli spaghetti-western, lo splatter e il porno. Ma ciò che più contava per Joe D’Amato era fare cinema.
Il nostro amato genio italiano era conosciuto in tutto il mondo, amato in America per il suo cinema horror ed idolatrato in Francia per quello erotico. E neanche a dirlo, in Italia è stato massacrato dalla critica proprio per quest’ultimo.
La violenza estrema, il sesso e gli eccessi sono i caposaldi del sul cinema che, oltre a titoli di inestimabile successo mondiale, ha collezionato diverse denunce (alcune davvero disparate).
Impossibile dimenticare opere come Buio Omega (1979), Antropophagus (1980), la serie di film di Emanuelle con protagonista Laura Gremser, Sesso Nero (1980), Le notti erotiche dei morti viventi (1980) e Rosso Sangue (1981).
Nonostante il regista non amasse particolarmente girare film pornografici, fu costretto negli anni ’90 a tornare sui suoi passi e girare nuovi porno per riuscire a rimettersi in pista dopo che la sua casa di produzione, la Filmirage, finì in bancarotta. Venne etichettato come il “re del porno italiano”, appellativo che odiava con tutto sé stesso trovandolo alquanto riduttivo pensando alla sua vasta carriera cinematografica.
Joe D’Amato era molto di più! Un uomo che ha messo da parte ogni cosa, pure la famiglia, per fare cinema a più non posso. Un uomo del popolo che faceva film per il popolo, senza abbellimenti e falsità. Un uomo genuino, sfacciato, per nulla intimorito da un’Italia particolarmente bigotta e conservatrice anche sul piano cinematografico. Un uomo che ha offerto al mondo intrattenimento nudo e crudo.
“Il mio peggior difetto? La modestia. La più grande virtù? La modestia.” Queste le parole di Aristide, regista che ricorderemo sempre con tanto affetto e nostalgia.
Angelica
BECOMING LED ZEPPELIN

Becoming Led Zeppelin – dal regista di American Epic – presentato nella selezione Fuori Concorso a Venezia 78, è un film del tutto fedele al suo titolo.
Il documentario affascina perché non punta sin da subito al periodo in cui la band era sotto i riflettori, non si sofferma solo sugli anni d’oro e al successo musicale che ha avuto in Inghilterra ma soprattutto negli Stati Uniti, bensì dedica la prima parte a raccontare la storia dei quattro membri prima che arrivasse la fama.
La parola chiave sta proprio in quel “becoming”, perché perfino quattro fuoriclasse come Jimmy Page (presente a Venezia per la prima del documentario), Robert Plant, John Bonham e John Paul Jones hanno dovuto faticare e andare anche contro il volere dei propri genitori per poter “diventare” se stessi ed arrivare ad essere una delle band del genere rock più conosciuta e amata al mondo.
MacMahon ci mostra i primi anni della loro formazione attraverso interviste e foto d’epoca, molte di esse persino inedite.
I Zep stessi raccontano in prima persona – John Bonham è presente grazie a delle passate interviste inedite – la loro storia da singoli e a come dopo anni di gavetta hanno trovato quella strada che li ha portati al destinato incontro.
A tutto ciò ovviamente non può non mancare la vera protagonista del documentario: la musica.
Una storia che racconta la vita dei quattro musicisti londinesi attraverso non solo racconti, ma anche riprese dei loro live e di varie esperienze singole.
India
ENNIO

ENNIO, presentato alla 78a Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia nella categoria Fuori Concorso, è un elogio di Giuseppe Tornatore al grande maestro Morricone.
Tornatore ci fa regalo di alcuni dei momenti più intimi della vita del grande compositore, scomparso il 6 luglio 2020. Un omaggio in cui il maestro stesso, attraverso interviste e immagini di repertorio ci rivela tutto quello che si celava dietro le sue grandi opere, le quali spesso tendeva a nascondere o addirittura minimizzare.
Ci viene mostrata parte della sua vita privata: dall’infanzia all’adolescenza, al matrimonio con Maria Travia e al ruolo fondamentale che aveva nella vita di Ennio, e soprattutto a come riuscisse ad avere impresso davanti i suoi occhi gli spartiti completi di quelle che poi sono diventate colonne sonore storiche.
Nel documentario sono stati inseriti anche i tributi di attori, registi e musicisti quali: Tarantino, Eastwood, Zimmer, Springsteen, Verdone.. che ricordano la maestosità del grande genio musicale.
Ma i racconti degli artisti sono solo il pentagramma di questa opera (documentario), le parole e i suoni di Morricone sono le note musicali con le quali viene difficile non commuoversi.
Il cinema sarà sempre grato al grande Ennio Morricone per tutti i capolavori che gli ha donato e di cui da un anno a questa parte ha reso erede.
India