Mi manca Belfast. Mi manca Buddy from Belfast 15. Mi mancano le sue smorfie adorabili e le sue espressioni più consapevoli; mi mancano i suoi genitori uniti disperatamente e i suoi nonni, sicura dimora in tempi ostili. Mi manca la sua via satura di schiamazzi tra amici mentre il giradischi accompagna gli svaghi del vicinato. Mi mancano le sensazioni di una vita che non ho vissuto, eppure ora, diventata riflesso vibrante di quel che serbo nel cuore da sempre. Mi manca entrare in sala e saper di poter ritrovare tutto questo, attendere al buio, sentire le note di Van Morrison incorniciare quel piccolo frangente di mondo e sapermi a casa.

Il mio soggiorno romano è stato breve, mosso solo dall’affetto che porto al regista irlandese. Due giorni al Festival del Cinema di Roma, nei quali per due volte mi sono rifugiata in una modesta e dolce fiaba: l’ultimo film di Kenneth Branagh. Il tempo speso è parso almeno un quarto della mia vita, ed è forse per questo, che ne sento così visceralmente la mancanza adesso. Branagh con la sua storia tanto attesa, ha scovato in me ricordi che avevo assopito, forse frammenti che un po’ nascondevo. Belfast nasce come storia personale e omaggio al popolo irlandese ferito, il quale ricorda ancora – ma vivendo nei cinema, diventa universale e cerca con tenerezza di parlare a tutti noi.

Ci sono voci, celate allo sguardo, che hanno un loro vissuto da raccontare. Durante il lockdown del 2020, Branagh si siede alla scrivania e sente che è giunto il momento di ascoltare la sua: è stata una gestazione di cinquant’anni. Ha avuto bisogno di tempo e del momento giusto. Nel silenzio di un mondo che si stava fermando, ho ascoltato quella voce: era il momento di tornare a casa. Le parole sono importanti e Kenneth Branagh trovando quelle giuste, ha conferito a Belfast la forma calzante, la forma che si meritava: è la resa, la messa in scena che, dopo anni, ha trovato la strada per arrivare al pubblico. In essa c’è commozione e gratitudine, un dolce senso dell’umorismo e molta nostalgia. Seguendo le orme dell’auto-fiction, – a detta di Branagh è stato Almodóvar con il suo Dolor y Gloria a fargli da precursore – Belfast narra la vita di Buddy e della sua famiglia, tra giornate a scuola e pomeriggi trascorsi in compagnia dei nonni. Nell’agosto del 1969 la stabilità e la sicurezza conosciute fino a quel momento, si incrinano. L’infanzia limpida senza preoccupazioni, come dovrebbe essere per ogni bambino, svanisce. I disordini nordirlandesi, così chiamati The Troubles – quando era rivolta e conflitto aperto tra protestanti e cattolici – arrivano alla sua porta con frastuono e violenza. Sin dalla prima scena è chiaro che l’intreccio può leggersi su due piani, i quali unendosi, formano la spina dorsale del film. Infatti, Belfast funziona così, per scene: l’una legata all’altra come gli scatti di un album fotografico. Scorrono sulla costante narrativa dei moti irlandesi – non a caso gestiti per lo più in campi lunghi e necessari. La scena che apre il film ne è l’emblema e toglie il fiato, esattamente come quello “sciame di api lontano sulla via” (ricorderà nella sua autobiografia*, Branagh), lo toglie a Buddy prima ancora di comprenderne l’imminente pericolo. Tale narrazione si sposa bene con la resa teatrale, di cui il film è intriso e lascia al regista totale libertà di movimento – trattandosi di materia ormai malleabile nelle sue mani. Gli allestimenti e le scenografie sono costruiti sulla base della presenza scenica e il regista giocherà coi personaggi come fossero sul palco. La differenza, nonché privilegio, è che potremo osservarli attraverso i virtuosismi della sua camera. Dopotutto Belfast non è un film di spazio e tempo, ma di sensazioni ed emozioni. Mi sorgono fin troppo facili i riferimenti a Dubliners, per un’atmosfera molto joyciana, la quale, son certa, non sia nata per caso. Da questo quadro ben studiato, la realtà farà capolino tramite i notiziari alla radio e alla televisione, ma la supervisione dell’accaduto, verrà filtrata dal costante sguardo intuitivo e a volte furtivo di Buddy. La soggettiva così edulcorata, ci renderà intrusi – sbirciando attraverso i piantoni delle scale o spiando dalle finestre notturne – e preoccupati – per una telefonata o una lettera di troppo.

La regia è salda e consapevole, Branagh usa il suo punto di vista con attenzione sapendo sempre quanto e come, di tutto questo, voglia mostrare. Per tale ragione ritengo Belfast, non solo un meraviglioso film, ma anche un nuovo traguardo, per il regista, in evoluzione stilistica e consapevolezza artistica. Ha creato un Amarcord tutto personale sperimentando più di quanto non avesse fatto prima (forse secondo tentativo, considerando In The Bleak Midwinter del 1995). La firma è tale, da rammentarci sì, molti altri film del genere – in omaggio al cinema stesso e al proprio bagaglio immaginativo personale – ma Belfast vuole essere, o lo diventa per modesta natura, originale, ben più di quanto una prima visione lasci intendere. La scelta, forse troppo naïve ma mai fuori luogo, d’infondere pennellate di colore sul bianco e nero – quando Buddy scopre il teatro o va al cinema – può dirsi pienamente sua, ed è una prova concreta di quanto Kenneth Branagh ami questa materia e adori giocarci nei modi più disparati. Come accennato in precedenza, tramite linguaggio teatrale, persiste dunque il simbolismo: il colore che alimenta l’immaginazione di un bambino, il colore che diventa posto sicuro, lontano da una realtà ormai sbagliata; il colore in quei luoghi destinati, che formeranno il giovane Branagh plasmandolo nell’artista divenuto oggi – e di easter egg simili ne è pieno il film, per vostro interesse e divertimento! Simboliche sono anche alcune scene, rese surreali, in quanto volutamente topiche – come lo scontro finale coreografato tra rivoltosi e militari e la famiglia di Buddy divisa fra loro.

A sorreggere questo incessante equilibrio, il cast, che offre un pilastro saldo sul quale l’intera storia può dirsi orgogliosa di rivivere. Caitríona Balfe con la sua tragica forza, Jamie Dornan con i suoi silenzi lapidari, Ciarán Hinds completamente mutato nell’essenza e un’immensa Judi Dench la quale, nei panni della nonna, si fa carico di rappresentare fino allo struggente primo piano finale, tutti coloro che sono rimasti, portando il tema dell’accettazione a un piano superiore. Ad ognuno di loro viene offerto un punto di forza sul quale eccellere, senza incrinare mai la coralità dell’insieme. Il piccolo e incredibile Jude Hill li unisce tutti, sorprendendo anche lo spettatore più scettico. Forse la sua indole ad oggi ancora immacolata e libera da qualsivoglia metodo (si tratta infatti del primo ruolo sul grande schermo), è la carta vincente che lo determina come degno little Ken della rappresentazione.


Una importante nota di merito va data a Haris Zambarloukos, direttore della fotografia, con il quale Branagh collabora ormai da anni. Il risultato finale, in luci e ombre su inquadrature ricercate, si deve, in buona parte, all’unione di entrambe le menti all’opera. Per loro sponte, il fotografo Henri Cartier-Bresson – noto per il suo operato nel fotogiornalismo – verrà preso come primaria ispirazione, poiché di conflitti e rivolte si parlava, il connubio nacque da sé trovando nel bianco e nero la giusta e intensa sintesi. Con “Everlasting Love” dei Love Affair si pennella l’ultimo svolazzo, fin quando la melodia riecheggerà nel silenzio per tutti coloro che sono partiti. È forse precoce parlare di coming of age, laddove manca (volutamente) un’evoluzione del piccolo protagonista. Ma è altrettanto giusto ricordare che Belfast mostra l’attimo in cui fu tolta a Buddy/Branagh un’infanzia felice. La presa di coscienza avverrà con lentezza e in un secondo momento – è un frammento della storia che il film si premura di non raccontare. Questa è una pièce di lascito e partenze. Eppure, come lo stesso regista ha detto una volta: “Puoi togliere il ragazzo da Belfast, ma non Belfast dal ragazzo”. E così è stato.
L’ultima opera di Kenneth Branagh lo porta a un livello successivo, gli conferisce la libertà che serviva al suo animo di moderno cantastorie di eccellere. Ha creato una tenera fiaba del vissuto partendo da un trauma personale. Ha generato meraviglia da una realtà più spietata e ha dato a noi la possibilità di viverla.

Quella è la nostra Belfast, con la nostra casa e la nostra famiglia. Ed è la nostra partenza.
E per tutte le volte che mi sentirò di troppo in questo personale, preziosissimo, racconto – per affetto, pudore e profonda stima – ricorderò fin l’ultima riga, e saprò che c’è posto anche per me:
For all the ones who were lost.
*Beginning, prima pubblicazione 1989.
Laura