A trentasei anni, col favore di pubblico e critica, Laurence Olivier attraversava il tanto rinomato red carpet dell’Academy al fianco dell’immensa Vivien Leigh – lo scrive egli stesso nella sua autobiografia¹. I sogni diventano realtà, fate madrine, piccole magie e tutto il resto, cose così insomma. Eppure, non sempre i nostri progetti vanno in questo modo. Anzi diciamo pure, stando alle statistiche, che succede di rado. Non siamo mai quell’eccezione, quella che oltrepassa il varco invisibile e, per gli osservanti, solo pochi eletti lo trovano. Spero di non attirare le ire del fantasma di Sir Larry con l’ultima frase: qui nessuno mette in dubbio quanto ti sia sudato e meritato, per la leggenda che sei, il successo e quel passo in più verso l’Olimpo. Dico sul serio, non farmi lo scherzo di Hamlet Senior!

Ad ogni modo, questo è un discorso che vale per qualsiasi professione: giocatori, musicisti, cantanti, scrittori, performer di ogni tipo, ma anche ingegneri e inventori, artigiani e meccanici, insomma, chiunque! Certo, ho preso in causa Sir Larry, poiché di cinema qui si parla e lo cita anche Kenneth Branagh nel suo In the Bleak Midwinter (1995), come massimo esempio di ciò che si possa aspirare essere. Le carriere però sono mezze fregature, si fingono tutte in salita, poi invece, come la vita, fanno le montagne russe. Questo, Branagh lo sa particolarmente bene – non ha mai nascosto quei momenti per lui “meno brillanti”, rispetto a …be’ esatto, ottimo quesito, rispetto a cosa? Forse le aspettative. Le sue, le nostre, quelle dalla critica, va’ a capire.

In una recente intervista², il regista e attore nordirlandese ha raccontato di come avesse fatto l’audizione per ottenere in seguito la direzione del film Marvel, Thor: “Dopo tre titoli (Sleuth, As You Like It, The Magic Flute), che non ottennero particolare approvazione, né dal pubblico né dalla critica, sentivo il bisogno di fare qualcosa che raggiungesse la gente; volevo una risposta, un lavoro che fosse visto e apprezzato dalle persone. Avevo quarantasette anni, non avrebbero fatto a gara per ingaggiare quello che ritenevano essere ormai un ex prodigio”. Una tale consapevolezza, ad anni di distanza, è ammirevole e leggendo le conclusioni che ne trae, la mia stima – già prima assai elevata – non posso negare sia aumentata oltremodo. Non c’è nulla da risolvere o da correggere nel modus operandi con il quale Kenneth Branagh agisce: accetta semplicemente il corso di quel che la sua professione può offrirgli.

That Beckett phrase of fail, fail again, fail better is maybe one to bear in mind”. È da questa parte del sé, piccolo frammento di un Kenneth sempre costante negli anni e nelle sue svariate sfumature che, mi piace immaginare, una meraviglia come In the Bleak Midwinter sia stata pensata e concepita. Nascere dal completo dubbio, dall’incertezza e poi uno non dovrebbe citare Shakespeare, troppo simile alla vita? Nonostante i primi grandi successi, ci si ritrova in un periodo di latitanza e cosa fai, assembli una compagnia teatrale (perché banda-di-scappati-di-casa era brutto dirlo) e la mandi in barba al mondo: creiamo arte, siamo arte!

Poi però non puoi permetterti di pagare la tua found-family, né il setting scelto, il Bardo con le sue battute ti psicanalizza la vita, nemmeno ti lanciasse frecciatine e tutto l’arco dietro, e così si finisce per toccare il fondo. Non reggono la realtà, faticano ad affrontarla, ma – come ci ricorda la canzone di Noël Coward, Why Must The Show Go On, intermezzo di tutto il film – lo spettacolo deve continuare. Questo è ciò che decide di narrare nel film, con tanto di prologo e tre atti. Niente male per un ragazzo con del talento in un periodo – poco felice? Flop? Difficile? Non amo identificarlo in nessuno di essi. Poi io avevo solo tre anni, non ho idea di come fosse la carriera di Kenneth Branagh nel 1995, non so nemmeno quanta auto-fiction contenga tale lavoro – ma possiamo supporre fosse stato un momento arduo e complesso, abbastanza da fargli scrivere di un commediante fallito – che si sentiva tale penso sia più calzante, accidenti, se era un fallito Branagh, qui stiamo freschi! – che assolda altri attori falliti, in una fallita produzione di un Hamlet altrettanto fallito.

Eppur vi pare che un regista, nel cui destino è segnata una fiaba come Cinderella, e che incita a ogni piè sospinto di sognare, di fare, di pensare e creare, ci lasci con questo amaro in bocca? Non vi ho detto la parte migliore del film. L’Hamlet di In the Bleak Midwinter, prende vita nella cittadina di Hope. Vi dice nulla questo? A parte forse un devoto interesse del cantastorie per Leia Skywalker, ok, ma facciamo i seri. Uno come Branagh non prende una cittadina e la chiama Speranza, fortune’s fool, se non volesse semplicemente dirci che lo spettacolo deve continuare. Keep dreaming, keep making stuff… esatto, sempre parole sue, annate diverse stessa mirabile persona.

Ma allora, chiediamocelo: perché?

Le notti più oscure esistono e in quelle si sedimenta il senso di inesorabile fallimento e preme, preme, e non ci abbandona; perché continuare a farlo? Se siamo mai stati quell’Hamlet fallito di Hope – perché suoniamo nella cantina in disuso del cugino, giochiamo per la finale di calcetto del paesino, cantiamo al circolo del volontariato o veniamo a malapena pubblicati nel giornale del paese – perché diamine continuiamo a farlo?!

La verità è che non è importante saperlo. Sembra una stronzata, ma non lo è. Anzi è tutto ciò su cui si fonda il film. È la nostra vita, la nostra passione e chi meglio di noi può perpetrarle di pari passo? Ci serve davvero sapere perché lo spettacolo deve continuare, per farlo continuare?

Non ti angustiare troppo, vecchio mio, purtroppo non tutti si possono permettere il lusso di nutrirsi l’anima. È una prerogativa dei romantici e basta, questa. Cose che succedono. Lui cosa dice? – Se accade ora, non accadrà domani. Se non accade domani, accadrà ora. Se non accade ora, accadrà comunque. Basta essere pronti”.

Lo sconforto ci sarà sempre e una persona che scrive un monologo simile, lo sa bene. Ma è anche la stessa persona che ha continuato a lavorare, variando tra generi e richieste, al di là del benestare generale. Quella persona, con estrema semplicità, non ha nemmeno elemosinato parole come: “You are special, every single one of you. You offer something different!”³. Vi assicuro che non c’è nient’altro d’aggiungere.

Di recente ho finito di leggere “Parole di Conforto” e una frase in particolare mi sovviene, giusto in tempo per concludere. Matt Haig scrive: “Il meglio della vita è tale a prescindere dai modelli che siamo indotti a emulare”. Per cui, d’accordo Sir Larry, sei stato e rimani un grande, noi comuni mortali tentiamo ugualmente il possibile nell’impossibile, se non ti dispiace. Un matto dovrà pur esserci in questa messa in scena che è la vita, e a quel punto, perché non noi? Lo siamo insieme alla compagnia dell’Hamlet di Hope, i quali riusciranno nell’impresa nonostante le loro – come sentono di definirle – miserabili situazioni, e problematiche vite.

Quanta commovente forza, quanta tenera bellezza, in un film così piccolo e semplice. Ha una consapevolezza spiazzante, ma dopo la prima doccia fredda, decide di abbracciarti, decide che fai parte della famiglia e che sei a Hope anche tu, insieme loro. Il sogno non si abbandona tanto facilmente, è solo parte malinconica della realtà – Antonio confinato a Venezia ma desideroso di Belmonte, lo sa bene.

Quando, alla Vigilia di Natale, scoccherà la mezzanotte, saremo un po’ stanchi, forse ancora un po’ affranti, ma pur sempre, irrimediabilmente, romantici.

Questo è di gran lunga il conforto più dolce.

But who pretends that life is one slowly ascending curve of human development? Most of the time you have to smash into something: the death, the broken relationship, the horrible career moment. Then you think, Well, what matters to me? What do I enjoy? Or even just, I’m still here”. ²

Laura

¹. Autobiografia “Confessions of an Actor” pubblicata nel 1982.

². Intervista per il The New York Times Magazine, “Kenneth Branagh is finally processing His Childhood Trauma”, 2021.

³. Kenneth Branagh, Presentazione di “Belfast” al Toronto Film Festival, 13 settembre 2021.