La sera del giorno della pubblicazione della lista del Best of 2021 ho visto Red Rocket di Sean Baker. A fine visione mi sono mangiata le mani per non averlo inserito… e ovviamente ho modificato la mia classifica. Andava fatto. È stata una folgorazione.
Di Baker avevo visto solo The Florida Project (2017), che purtroppo non mi aveva totalmente convinta. Per questo motivo mi sono approcciata all’ultima fatica dell’autore statunitense senza grandi aspettative. Quanto è meraviglioso lasciarsi sorprendere.

Il brand di Sean Baker è prendere delle realtà americane e farne un affresco su pellicola (o con la fotocamera di un iPhone nel caso di The Florida Project (2017)). Così ha fatto anche con Red Rocket, opera che ha iniziato il suo viaggio in concorso sulla Croisette durante la 74a edizione del Festival di Cannes, ha trionfato al Festival de Deauville ottenendo il Premio della Giuria e il Premio della Critica Internazionale, per poi fare anche tappa alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Tutti ne parlano. Oltre ai Festival, si sta anche facendo strada nel circuito delle premiazioni in corso, guadagnando consenso sia dalla critica che nomination ai Gotham Awards e agli Independent Spirit Awards.

Red Rocket è un po’ il diario delle (dis)avventure di Mikey (Simon Rex, che rivelazione), una porno star in declino. La scena si apre con lui in viaggio su un pullman, Bye Bye Bye della band NSYNC rimbomba nelle nostre orecchie, mentre lui torna alle sue radici con lo sguardo perso fuori dal finestrino. Davanti ai suoi occhi non ci sono più le palme e l’oceano di Los Angeles, ma le aree industriali di Texas City, la sua città natale, dove a non attenderlo ci sono moglie e suocera. Le supplica di ospitarlo, giusto il tempo di trovare un lavoro e rimettersi in piedi. Così in sella ad una bicicletta inizia a spacciare erba nei dintorni, fino a concentrare la sua attività in un bar, il Donut Hole. L’attrazione che gli impedisce di stare lontano da quel luogo è Strawberry (Suzanna Son), una diciassettenne di cui si infatua e su cui proietta le sue fantasie sul futuro, determinato a dare una svolta alla sua vita e rientrare in California.

Il nostro protagonista piacione vede nell’innocente giovane col viso d’angelo pieno di lentiggini una possibilità per una vita migliore, lei è il suo American Dream. La fotografia dai toni caldi ed esotici restituisce su pellicola 16mm le raffinerie di Texas City, alternando la decadenza del quartiere di Mikey al benessere di quello di Strawberry, tinteggiato da colori pastello. Alla presenza di quest’ultima, così pura e ancora inconsapevole, le immagini si fanno più glowy e dreamy, inebriando e rendendo assuefatt* chi la guarda. Lo stesso Mikey, ma anche il pubblico oltre lo schermo che assapora la storia dal punto di vista del pornodivo. È come un miraggio.

Brillante. Esilarante. Apparentemente inconcludente. Ma anche pungente e malinconico. Red Rocket non si limita a narrare le vicende assurde di una star del cinema adulto che cerca di tornare alla ribalta: è lo specchio di una realtà degradata frutto del fallimento dell’American Dream. Make America Great Again, si legge su un cartellone.

E non solo. È anche la rivincita di Simon Rex che, relegato alla saga di Scary Movie, regge sulle sue spalle un progetto che gli permette di spiccare come mai prima d’ora, donando una performance memorabile, ricca di sfaccettature e in grado di dare vita ad un personaggio discutibile a cui – per quanto ingenuo, pieno di sé e incastrato nella sua bolla di illusioni-sogni – non puoi fare a meno di affezionarti. Questo è possibile per merito di Sean Baker che dirige (letteralmente: la macchina da presa accompagna il suo Mikey dall’inizio alla fine, come per assicurarsi che vada tutto bene… ma andrà tutto bene?), scrive (insieme a Chris Bergoch) e monta uno squarcio d’America con una visione netta e decisa. Questa volta, oltre a concentrarsi sui paesaggi che ha scelto come ambientazioni, gioca con lo zoom, sembra quasi di essere in Succession e fa dei close-up improvvisi e imprecisi sui suoi personaggi, come se volesse imprigionarli nelle loro stesse parole, ma anche intensificarne le azioni.

Inevitabilmente, un pensiero va a Boogie Nights (1997) di Paul Thomas Anderson, ma è un’associazione momentanea poiché i lungometraggi raccontano Hollywood da due prospettive diverse, calando lo spettatore nelle realtà che hanno ricostruito fedelmente.
Terminata la visione di Red Rocket avevo solo un desiderio: premere di nuovo play. Sean Baker è forse il mio nuovo indie king? Vedrò Tangerine (2015) e deciderò se consegnargli una corona decorata con fragole e ciambelle.
Red Rocket verrà distribuito prossimamente in Italia. Bye bye bye…
Marika
