Inizio a scrivere in punta di piedi, lo faccio perché la materia Christie mi è molto cara – so di non saperne mai abbastanza – e procedo silenziosa, in quanto stento a credere che Death on the Nile sia finalmente sbarcato, Karnak e tutto il resto, nelle nostre sale. A pensarci, quella di riportare Hercule Poirot al cinema, può dirsi impresa per nulla immediata – certamente altra attesa condivisa.

La prima volta accadeva nel 1974 con Assassinio sull’Orient Express di Sidney Lumet e, per quanto sembra esserci sempre stato – anche grazie alla sempiterna presenza di David Suchet nelle nostre case – il detective belga tornerà sul grande schermo solo nel 2017 con l’omonimo film di Kenneth Branagh. La ricetta è la stessa del suo predecessore: un cast stellare avente nomi conosciuti e rinomati, sia del momento che navigati – un ventaglio, insomma, che abbracci le preferenze del vasto pubblico – e un whodunit classico che li contenga tutti.

La meraviglia delle storie che stanno sui nostri scaffali da decenni, è che possono esserci riproposti con linguaggio nuovo e stile differente. Con Agatha Christie è parso subito essenziale trovare per il giusto caso, la giusta personalità e dal remake, rimestando con cura le pagine del libro, si è riusciti a confezionare un film che voleva offrirsi come nuovo. Non c’è dunque da stupirsi se Assassinio sul Nilo risulti tanto differente dal film di lancio. Dimentichiamoci l’elegante e raffinato viaggio dell’Orient Express, il delitto che ci aspetta in Egitto è di natura passionale, la cui matrice è legata al vile denaro e per tanto l’atmosfera, che ci avvolgerà, sarà ruggente, caotica, cosparsa di opulenza e sfrenata sensualità.

Entriamo nell’immediato scenario di una sala da ballo londinese, palco che accoglierà i principali personaggi dell’opera: Jacqueline de Bellefort (Emma Mackey), Linnet Ridgeway (Gal Gadot) e Simon Doyle (Armie Hammer). L’atmosfera è insalubre e frenetica in un opaco squarcio dei tardo-roaring years, la cui “musica sporca” del blues saprà ammaliare lo stesso Poirot, grazie in parte al simbolo che ne racchiude la suggestione, la cantante Salomè Otterbourne – interpretata da una Sophie Okonedo magnetica e qui per lei, il personaggio riscritto in sfumature più serie e misteriose. Vengono così a galla alcuni dei sottotesti lasciateci dalla scrittrice: disparità e razzismo.

Forse più di quanto si sia fatto col primo film, si cerca qui di dar voce alle problematiche del periodo – alle quali Christie non era indifferente, ma, per amor di genere, fu spesso costretta ad evitarne l’approfondimento. Al suo interno si cela anche l’interessante dibattito dei personaggi queer, secondo alcuni (me compresa) celati fra le innumerevoli pagine, mai canonizzati ma nemmeno mai smentiti. Death on the Nile, con semplicità, strizza l’occhio anche a loro e, ricordando quando lessi il libro anni prima, sperando in una tale possibilità, come posso ora negarvi la commozione che mi ha colto in sala? Michael Green lo ha scritto, Agatha Christie Limited ha dato il lasciapassare, ed io ringrazio d’esser stata ascoltata; questo franchise è proprio casa mia.

Come accennato sopra, l’atmosfera più dark e realistica, si noterà in seguito, non vagare sola lungo la via, ma sarà anzi un’unica faccia della stessa medaglia; per parlare della personalità integra del film, dovremo prendere in causa anche l’altra, che le si confà a braccetto, quella più esagerata dell’amor passionale, portato all’estremo quasi macchiettistico. Ho dovuto farci i conti, poiché il dislivello mi era parso sgraziato e solo in seguito ho capito che Branagh ci aveva dato la giusta chiave di lettura, lasciata alla nostra portata.

Citare così assiduamente Antonio e Cleopatra di Shakespeare, non è solo dimostrare di conoscere l’indole di Christie, – la quale amava il romance, ancora di più se il genere poteva farsi beffe di sé stesso, nel giogo dei viscerali sentimenti – ma è anche voler offrire allo spettatore un’interpretazione equiparata. Quest’opera teatrale può dirsi la mezza via tra satira e tragedia: la regina d’Egitto e il generale romano sono troppo infantili, capricciosi e vogliosi, mossi come sono da una lascivia nauseante, a tratti inappropriata e caricaturale. Come possono considerarsi eroi da tragedia? Eppure, nel loro minuscolo mondo passionale, lo sono, e come sopraggiunge la fine nell’opera del Bardo, anche nel romanzo di Christie la tragedia si compie ed Hercule Poirot è chiamato, ancora una volta, a risolverne il caso.

Rischiando di ripetermi, credo, anzi sono convinta, che se non ci fosse stato Branagh alla regia, un film simile – con una trama tanto offuscata quanto intrigante – avrebbe rischiato di eccedere in molteplici errori. Lavorando per istinto, ha saputo mantenere l’equilibrio tra satira e tragedia, tra il goliardico e il serioso, tra l’amore e la morte – nonostante l’ombra di quest’ultima, per ovvie ragioni, sovrasti infine il resto. L’eccesso esasperante lo contiene chi conosce il linguaggio teatrale e sa quanto esso possa essere a sua volta strabordante.

Con pellicola 70 mm, per un’immersione più totale nello scenario, e una colonna sonora melò ed eroica insieme, firmata Patrick Doyle, il regista è a suo agio nell’apparente caos scaturito dagli eventi, e gioca in scena con simmetrie – quelle del Karnak, per l’occasione, costruito da zero dal designer Jim Clay – e coreografie ordinate. Per non trovare il complesso troppo fastidioso, urge rammentare che si osserva la vicenda dal punto di vista di Poirot e, se egli impressionò i sospettati nella propria mente come il Cenacolo di Leonardo da Vinci, non dovrà stupire la peculiare scelta visiva di certi scorci e ricostruzioni in questo film.

Non manca infine un malinconico riferimento alle maschere, quelle dei sospettati per certo, ma, con commovente sorpresa, soprattutto quella del nostro detective belga. Conferire a Hercule Poirot il suo drammatico retroscena, è – a parer mio – un dono splendido, sia per gli affezionati che per i novizi. Avevamo qualche scorcio lasciato, qua e là, dalla scrittrice e tale mossa era già stata approntata con la versione di Suchet. Il Christieverse cinematografico segue le stesse orme con pathos più ricercato per dare la possibilità di comprendere Poirot, ed accostarcisi con delicatezza e maggior empatia. Non è più solo l’espediente per fornirci un caso risolvibile in maniera interattiva, non è più solo la pedina della geniale scrittrice capace di offrirgli avventure di ogni tipo.

Di Kenneth Branagh si ricorderà, più che l’entità del crimine risolto, come i casi da Hercule Poirot incontrati possano risolverlo a loro volta.

Di epifanie e passati insoluti, diventa il detective l’umano mistero da scoprire.

E di un classico simile, con ogni difetto che si possa attribuire al blockbuster di larga scala, invecchiato due anni sullo scaffale – non dimentichiamo! – si potrà dire che ha resistito alla prova del tempo egregiamente quanto una meraviglia del mondo antico.

Laura