Quando mi si chiede che cos’è Why Didn’t They Ask Evans? trovo sia naturale dirvi: …è puro Jazz.

Non è stato difficile identificarla come tale, lo stesso Hugh Laurie non ne fa mistero. Regia e sceneggiatura portano la sua firma e delineano un perfetto connubio tra classico e moderno, e come il Jazz, non da meno, la resa sarà a dir poco spumeggiante. Chi meglio di Laurie poteva svecchiare un classico pur mantenendone intatte le ricercate atmosfere? Non c’è Christie senza un po’ di sollazzo e visti i precedenti esperimenti, tanto meglio se non andasse a perdersi l’importante ingrediente della leggerezza, lo stesso che ha sempre posto le basi del suo genere.

La miniserie – ora in streaming su BritBox – è la riuscita migliore delle sette programmate e annunciate nel 2015 (forse seconda solo a And Then There Were None, l’eterno capolavoro al quale ogni atmosfera può combaciare); la migliore perché sceglie d’essere niente più di quel che ci si aspetterebbe da lei. Non fraintendetemi, non parlo come purista unica dei libri. I cambiamenti di trama ci sono, ma oltre ad esser innocui, vengono dosati nei giusti tempi drammatici per calibrare il contorno volutamente più british e romance tipico dell’autrice. La campagna inglese potrebbe nascondere un crimine efferato, ma resterebbe pur sempre una meravigliosa campagna inglese da godersi prima del tè delle cinque. L’atmosfera christieniana è tutto, una volta colta quella, puoi permetterti ogni cosa. Ed è ciò che ha fatto Laurie decifrandone la storia, rendendola ridondante quando richiesto, snellendola dove serviva e ponendo infine il focus sulla natura imprevista e mutevole del caso.

Conformi al contesto sono Bobby Jones (Will Poulter) e Frankie Derwent (Lucy Boynton), gli improbabili detective che ci accompagneranno per tutti e tre gli episodi. Imprevisto per Bobby, sarà sorvegliare un malcapitato precipitato da una scogliera e sentirne le ultime enigmatiche parole pronunciate prima di morire: “Perché non l’hanno chiesto ad Evans?”. Mutevole sarà il piano messo in atto da Frankie per carpirne il loro significato. L’accoppiata Bonnie & Clyde è vincente, due opposti che si attraggono: Poulter conforma valenza e ingenuità, Boynton scaltrezza e imprudenza – ed aggiunge una vena di grazia che nella sua bellezza la rende, certamente, la perla della serie.

Con la regia di Laurie, sicura e compatta, gli eventi sono resi ritmati come uno spartito e, laddove uno spauracchio di intuizione farà capolino, il regista giocherà con scelte più azzardate e accattivanti, lasciando lo spettatore in balia di un possibile inganno o un’onesta verità. Questo gioco cadenzato combacia con la musica composta da Harry Escott, il cui Jazz (ancora una volta) è il vero motore d’azione; il genere è l’espediente migliore per equilibrare farsa e tragedia e fa, dunque, di humor e romance, di crime e mystery, il bilancino più appropriato. Così Conleth Hill e Hugh Laurie (anch’esso in terzo lavoro, parte del cast) offriranno la controparte più sinistra e drammatica, opposti, ad esempio, ad altri nomi di alto profilo, i cui due personaggi strizzeranno l’occhio ad un contesto più ironico e rilassato: Emma Thompson e Jim Broadbent.

Con tali basi, giunge ora la conclusione anche di questo caso (volevo dire recensione, mi son calata troppo nella parte). Intendo farlo aprendo una parentesi interessante e nella quale mi sono imbattuta nolente negli ultimi mesi. Laddove la soluzione vi sembrerà sempre troppo scontata, soprattutto in vista della struttura narrativa con cui questa storia viene sbrogliata (critica ricorrente anche per il Poirot inscenato da Branagh), rammentate sempre che la filosofia di Christie è quella di mostrare il crimine come un atto vile, ma assai semplice da commettere. Non c’è niente che sia più ovvio dell’omicidio e di ciò che porti a compierlo. Qualsiasi altra intrigante azione interposta nel percorso, è un preambolo inconsistente diretto da chi conduce l’auto e ha le mani ferree sul volante. Agatha Christie è di altra scuola, non ha bisogno di shock value e se di molti suoi romanzi possiamo supporlo, con Why Didn’t They Ask Evans? possiamo accertarlo: è più importante il viaggio, non la meta.

Osservate e godetevi ogni peculiarità, non ve ne pentirete.

Laura