“Ridi e il mondo riderà con te. Piangi e piangerai da solo.”
Questo recitava il personaggio di Dae-su nell’iconico Oldboy di Park Chan-wook. Un’amara verità, tanto reale quanto il dolore di un pugno allo stomaco.

Il cinema sud-coreano ha imparato a sfruttare l’arte della malinconia dando vita a film dal sapore dolceamaro e sicuramente l’opera prima del 2021 di Hong Sung-eun dal titolo Aloners (혼자 사는 사람들) ne è un valido esempio.
Jina (Gong Seung-yeon) lavora in un call center. È la miglior impiegata, elogiata sempre dalla sua capo-reparto ma questo non sembra recarle alcuna soddisfazione. Vive sola in un appartamento dove la luce del sole non entra mai nelle stanze, passa il tempo libero a spiare il padre vedovo da una telecamera nascosta nel suo salotto ed a guardare la tv. Non ha amici, alcun partner, nessuna valvola di sfogo dalla monotonia della sua vita. Semplicemente evita i contatti sociali e parla il meno possibile. Un giorno però le viene affidata una stagista impacciata e dovrà fare i conti con la sua apatia.

La solitudine urbana è un fenomeno in netto aumento nel microcosmo giovanile asiatico. Jina è una ragazza ipnotizzata dalla routine meccanica e rigida delle sue giornate, delimitate da una barriera che ha costruito lei stessa per tenere a distanza relazioni di ogni genere. Non c’è da stupirsi che la conseguenza di tale prigionia auto-indotta sia una lenta e progressiva erosione della propria anima, la frammentazione di quell’equilibrio di benessere.
La regista non punta il dito contro nessuno, non intende offendere coloro che preferiscono stare per conto loro, ma col cuore colmo d’affetto invita ad una riflessione sincera, alla speranza che qualsiasi siano i nostri traumi saremmo in grado di prenderci cura di noi stessi, porgendo la propria mano per aiutare chi abbiamo attorno, onorando la famiglia e chi ha cura di noi perché il divario fra isolamento ed egoismo è molto sottile.


In tempi come questi, in cui abbiamo vissuto sulla nostra pelle la pandemia globale e le sue conseguenze, la tecnologia è stata uno strumento sia per connettersi col mondo intorno a noi sia per isolarci e stringerci ancor di più all’interno delle mura delle nostre case. Un’arma a doppio taglio a seconda di come la si utilizza, perché si può benissimo essere connessi ad internet ma ugualmente sconnessi dalla realtà quotidiana.

Jina è circondata da futili presenze, i clienti che la chiamano a lavoro e di cui lei conosce solo lo stretto necessario non curandosi veramente dei loro problemi, i genitori distanti e indecifrabili nelle loro azioni, i vicini di casa che incontra occasionalmente ma con cui non ha mai stretto alcun legame. È come se fossero tutti fantasmi, figure spettrali che aleggiano attorno a lei come un fumo intangibile. E Jina stessa, allontanandosi da tutto e tutti, sta tramutando la sua stessa persona in un fantasma.

Eppure, col passare del tempo, Jina si accorgerà che nessuna creatura sulla Terra è destinata a vivere da sola, si sentirà smarrita, incompresa, abbandonata, dalla famiglia come dalla stessa società che la vede solo come un numero e nulla più. Jina aprirà le tende della sua finestra facendo finalmente entrare la luce che irradierà il suo viso e il suo futuro.




La scena più emozionante di tutto il film riguarda una telefonata ricevuta dalla stagista assegnata a Jina, un cliente con disturbi mentali convinto di aver creato una macchina del tempo, desideroso di tornare indietro all’anno 2013. Fino a quel momento Jina non s’era mai interessata di conoscere il motivo di tale sogno, ma l’empatia e delicatezza delle parole della stagista cambieranno la sua prospettiva. Nessun “Ci dispiace, non possiamo aiutarla”, nessun telefono riagganciato. Una domanda semplice, spinta dalla curiosità di conoscere le volontà di un estraneo. In lui il desiderio di rivivere la goliardia e la gioia di una partita di calcio in cui la passione abbracciava chiunque, dove si era realmente uniti, spensierati, vivi.
È qui che Jina comprende che un’esistenza di rinunce non la porterà ad alcun epilogo felice. È qui che sceglie di trasformarsi da fantasma ad eroina della propria storia.

L’attrice protagonista Gong Seung-yeon ha dato prova di tutta la sua bravura, presentandoci un personaggio dal volto apatico ma capace di parlare col linguaggio del corpo. Hong Sung-eun ha saputo lavorare in sottrazione invece di arricchire la trama con inutili dialoghi, l’assenza della parola per esprimere un urlo agghiacciante, una chiamata d’aiuto. Aloners è la testimonianza di come tutti quei muri eretti per proteggerci sono la causa stessa della nostra impossibilità di comunicare il proprio dolore.
Angelica