A trentacinque anni dal primissimo capostipite della saga, Predator diretto da John McTiernan, ne abbiamo visti di film dalla dubbia qualità. Per chi fosse novizio a questo franchise, la ricetta è sempre la medesima: prendi un alieno dalle incredibilità capacità da cacciatore e dotato di un sistema di occultamento ed un equipaggiamento assai sofisticato e inseriscilo in qualsiasi sorta di scenario, dalla giungla tropicale alla Los Angeles del 1997. Lui sarà spietato nella sua caccia, stanando e uccidendo nei più cruenti modi possibili ogni essere umano armato. L’obiettivo: migliorarsi e diventare il più temibile predatore vivente.

Se il film di McTiernan ha riscontrato un discreto successo ed apprezzamento da parte di critica e pubblico, dovuti anche alla presenza di un iconico Arnold Schwarzenegger nei suoi anni migliori, i successivi sequel e crossover non hanno saputo tenere alta l’asticella. A nulla è servito il rilancio della saga nel 2018 col film di Shane Black, tantomeno il matrimonio (tormentato) fra gli universi di Predator ed Alien. Per queste ragioni all’annuncio di un prequel della saga confesso di aver storto il naso. Felice di essermi ricreduta.

Prey di Dan Trachtenberg (regista di 10 Cloverfield Lane) è la chiara prova che c’è sempre una possibilità di redenzione. Il film è ambientato nel 1719 in una riserva appartenente ai nativi americani, i Comanche, e vede come protagonista Naru (Amber Midthunder), una giovane che desidera ardentemente diventare una cacciatrice ottenendo il rispetto della sua comunità. Ma se a fatica tutt’oggi raggiungiamo i meritati diritti per il genere femminile in un mondo segnato dal patriarcato, figuriamoci a quei tempi! Naru in quanto donna è relegata a mansioni decisamente diverse da quelle a cui aspira. Non è previsto che impari a difendersi, a cacciare, a seguire le tracce, eppure nonostante i continui atti di derisione da parte dei suoi coetanei Naru non si dà per vinta. Da questo punto di vista Prey è a tutti gli effetti un coming of age, assai poco tradizionale poiché arricchito da valanghe di sangue e viscere.
La quotidianità di Naru e dei suoi compagni verrà però devastata dall’arrivo di un nemico assai più pericoloso di un orso o di un leone che sono soliti cacciare: un yautja, una specie aliena che seminerà il panico nella tenuta dei Comanche.


Madre di Naru: “Perchè vuoi diventare una cacciatrice?”
Naru: “Perchè tutti pensano che non possa farlo!”

È interessante la scelta di intitolare questo film Prey, discostandosi in qualche modo dai precedenti prodotti tutti targati col nome Predator. Il film sembra porsi quasi come un esperimento coraggioso, del resto è cioè che Prey è a tutti gli effetti, una pellicola che per la prima volta sposta la sua attenzione verso la preda e non sul predatore. Ma è qui che i giochi si fanno interessanti, perché sono proprio le vittime a trasformarsi in carnefici, come la giovane Naru, apparentemente oppressa ma del tutto capace di difendersi. Inoltre è da evidenziare l’inclusività di Prey che può vantare un cast composto quasi interamente da nativi americani e recitato in lingua comanche.


A differenza di Predator (1987), un film contestualizzato in un cinema più muscoloso ed erculeo (la scelta di Arnold Schwarzenegger come protagonista non fu casuale), Prey combatte ogni dogma del machismo tossico, presentandoci un’eroina dotata di arguzia ed intelletto, capace di sopperire alle sue debolezze fisiche con l’inventiva. La vediamo costruire armi, trappole, scovare tracce, celarsi fra le fronde degli alberi e spiccare il volo affondando frecce e picche nella carne dei suoi nemici. La lotta di Naru per essere presa sul serio dalla sua tribù come guerriera è il punto focale su cui la sceneggiatura si concentra.


Il regista ha sapientemente scelto di mostrare sin da subito come il Predator si fa strada lungo la catena alimentare evidenziando sia la forza che l’arsenale tecnologico di cui dispone ma delineando anche le differenze tra gli stili di caccia di Naru e dell’alieno e come quest’ultimo si affida ciecamente alle sue sofisticate armi, suggerendo così a Naru e a noi spettatori come potrebbe essere sconfitto.

Trachtenberg usa la macchina da presa come un occhio vigile sui movimenti di Naru, mostrandoci la sua arma segreta, ben diversa da quelle del Predator: il pensiero critico. Naru ascolta, osserva, fiuta e riflette sempre, in ogni occasione, non combatte con la foga spietata di una bestia bensì si ferma e sfrutta quelle pause come opportunità di apprendimento. È così che sopperisce al suo svantaggio nel combattimento singolo, studiando chi ha dinanzi a sé ed al momento opportuno attaccandolo senza alcun briciolo di timore.
Un applauso doveroso va ad Amber Midthunder che ha dato vita ad un’eroina di tutto rispetto destinata a diventare un’icona nel panorama cinematografico di fantascienza, tanto quanto la sua ascia legata ad una corda che scaglia con precisione chirurgica in ogni direzione mietendo più vittime di un mitra.


“Se sanguina, lo possiamo uccidere.”
Questa è l’iconica frase pronunciata da Schwarzenegger nel 1987 e ripresa nuovamente da uno dei protagonisti di Prey. Il prequel di Trachtenberg è il primissimo prodotto a collegarsi con i suoi predecessori, citando battute e inserendo easter egg non di poco conto, come la pistola che Naru ottiene e che altro non è che la stessa arma che Mike Harrigan riceve dallo yautja alla fine di Predator 2.

Quest’elemento ci suggerisce che forse la comunità Comanche avrà nuovamente a che fare con i temibili alieni e chissà se questo non è altro che l’annunciazione di un secondo capitolo di Prey.


Prey sembra porsi più come un film d’azione piuttosto che un horror, nonostante le innumerevoli uccisioni a cui assistiamo. È nelle coreografie delle lotte corpo a corpo che denotiamo non solo la bellezza delle immagini ma anche la maestria di Trachtenberg nel giostrare la telecamera, imbastendo una danza della morte tanto cruenta quanto suggestiva. Posso garantire che sarà impossibile spostare lo sguardo altrove. A far da contrasto a tanta brutalità, la scelta di mostrarci l’immacolata meraviglia dei paesaggi, puri ed intatti, capaci di regalarci attimi di quiete e serenità grazie alla fotografia di firmata da Jeff Cutter.


So bene che la mia è un’affermazione audace ma forse solo se si resta ancorati all’idea che il capostipite di una saga non possa avere rivali, ma Prey è indubbiamente il miglior film del franchise Predator, un titolo coraggioso, audace ed inclusivo. Vedere per credere!

Angelica