Se i nostri bisavoli avevano Agatha Christie, forse è giusto dire che noi abbiamo oggi il connubio John Hoffman e Steve Martin. Lo trovate esagerato? Ok, magari un po’, ma andiamo per gradi. Innanzitutto, vi converrebbe fare incetta di romanzi polizieschi – che siano della Regina del Giallo è sottointeso, ma lascio a voi la scelta – prendere taccuino e penna per appuntarsi ogni dettaglio (se avete una lavagna in sughero, pure meglio!) ed iniziate a fare un po’ di pratica. La ricetta è leggermente più vasta, in effetti, e vi venisse voglia d’ascoltare intere playlist di podcast true crime, non sarò di certo io a fermarvi. Siete sulla strada giusta!

E se Christie sapeva unire il giallo al rosa, il crimine al dilettevole e la tragedia alla commedia, vi chiedo un ultimo sforzo per entrare nella giusta atmosfera. Siate un po’ figli del sogno americano – non storcete il naso, lo so che ci siamo passati tutti, mica ci dobbiamo ancora credere, ma un po’ di fantasia non guasta mai … Parlo di quel sogno che narra della moda anni 70, delle commedie romantiche anni 80 e dell’umorismo anni 90; di quel quadro, insomma, dipinto nel fior fiore dei film cult che ci hanno accompagnati da sempre abituandoci a una simil cornice per anni.

Ora condensate tutto in un’attualità fittizia calzante, che ugualmente voglia creare per noi, più che un marciapiede affollato all’ora di punta, un vero e proprio palcoscenico di Broadway. Così entrano in scena i personaggi del Cluedo e un omicidio ha luogo durante una normale routine newyorkese, la cui zona circoscritta dell’indagine, si riassumerà nella figura di un palazzo. Non c’è niente di meglio che un classico giallo della camera chiusa per cominciare! O forse sì, qualcos’altro in aggiunta che arricchirebbe questo variegato puzzle, potrebbe esserci. Quando a capo delle indagini si ritrova un trio – il cui trope fondante è la found family, – di soli fan del true crime, detective (si fa per dire) dilettanti, oso scommettere, senza sbagliarmi, che verrete agganciati all’idea in un batter d’occhio. Only Murders in the Building sa essere tutto questo e ha la forza di diventare molto di più. Personalmente, il genere giallo ha iniziato a piacermi quando ho compreso che anche giorni dopo la rivelazione del caso, continuavo a riviverlo, volevo riviverlo, non tanto nei pensieri quanto nelle emozioni; provavo compassione per la vita e me ne beavo perché non era mai la stessa sensazione provata due volte, anzi si plasmava e sfumava in continuazione. Sapevo che potevo vivere i personaggi finché, a un certo punto, uno di loro non ci sarebbe stato più. Quel vuoto diventava una tristezza che amavo provare: mi rammentava quanto una vita, per ordinaria e semplice che fosse, era sempre vita e riempiva un posto – era, insomma, unicamente meritevole. Per certo, non tutti i mystery crime sono e vogliono essere così, ma l’umanità colta nell’ingiustizia e che brama un colpevole da stanare, fonda le basi su queste semplici ma necessarie emozioni.

E tale ne diventa il caso di Only Murders, alto com’è il livello emotivo che spesso si prefigge di raggiungere. Tutto quel che c’era stato dato nella prima stagione, si arricchisce con la seconda, dimostrando non solo quanto sia consapevole della propria natura e pertanto non tema d’osare, ma che sappia anche ottenere dai tipici espedienti del crime una nuova modalità per narrare storie e svelare a strati i personaggi che raccoglie. Una serie matrioska i cui falsi indizi per il caso, servono in realtà a farci scoprire poco per volta chi si cela dietro un Brazzos, chi chiude i sipari di Broadway e chi vorrebbe solo mimetizzarsi all’interno del proprio Murales. Only Murders in the Building, sotto la lente d’ingrandimento, ha sempre voluto parlare dell’essere soli tra la folla, di cosa significhi esserlo – a simbolo e con ragione – nella più gettonata, caotica e vibrante città del mondo, New York, Manhattan. Questa solitudine moderna, circoscritta anche contro la nostra volontà, incornicia un inizio come tanti, di tre inquilini soli poi uniti da un fattore comune e di come basterà quella scintilla per tirarli fuori dal buio.

Vedere “The Last Day of Bunny Folger” per credere e ritornare alle semplici ma necessarie emozioni di cui parlavo poc’anzi, della compassione per la vita, di quanto un atto di gentilezza avrebbe potuto fare la differenza. Audrey Hepburn diceva: “Credo fermamente che tutto cominci da qui, dalla gentilezza” e a me piace pensare che si stia formando un’onda spontanea sul tema, partita da Knives Out con la sua Marta Cabrera e giunta a Charles-Haden Savage preoccupato e consapevole all’interno di un ascensore.

Un po’ due facce della stessa medaglia, dove il secondo risultato diventa esiziale rammentandoci come un’omissione possa essere quel battito d’ali della farfalla, come la fatalità prosperi a braccetto con l’ingiustizia. Questi ed altri aspetti affascinanti del genere – che si fa dramedy per abbracciare un ventaglio più vasto – si uniscono poi in un complesso strutturale impeccabile. Perderei le ore a parlarvi di quanto ogni aspetto tecnico funzioni bene in questa serie: la regia è ottimale, la sceneggiatura è brillante e reinventa sé stessa, la comicità puntuale ed abbraccia il range che va da un Martin all’altro, la recitazione impeccabile, così come costumi e soundtrack diventano la ciliegina sulla torta che ne delinea l’estetica.

La personalità che detiene è molteplice e si sposa senza fatica alle diversità che la completano, complice il fatto che si parli di vere roundtable di sceneggiatori scelti, il cui ascolto di tutti resta alla base del lavoro e tale metodo non resta isolato alla sola writing room. C’è un po’ di Steve Martin in Charles-Haden Savage che si prodiga in una performance di slow motion finale, s’intravede parecchio Martin Short nella mimica pazzesca e nell’esasperazione teatrale di Oliver Putnam, e con Mabel Mora abbiamo il riflesso più vivo della grande forza, risolutezza e bellezza che Selena Gomez ha sempre dimostrato d’avere. La bravura di chi interpreta è direttamente proporzionale alla chimica tra i tre protagonisti e li rende il connubio perfetto, l’equilibro ineccepibile tra le generazioni; loro come il motivo cardine per cui questa serie fa breccia e si fa voler bene – ed il resto segue.

Only Murders è una serie per tutti e di tutti, nessuno escluso (ebbene sì, Howard Morris e Theo Dimas, tra i tanti, sanno che ci siamo e ne sono orgogliosi!). Scalda davvero il cuore sapere che all’Arconia (realmente il Belnord al 225 W 86th St, New York, NY 10024, Stati Uniti, se ve lo steste chiedendo per un’amica), un posto per noi ci sarà sempre. Pertanto, spero stiate già armeggiando con Hulu o Disney Plus perché non potete più privarvene oltre.

Only Murder in the Building ha forse nell’anima quel che Carrie Fisher descriverebbe come: “Prendete il vostro cuore spezzato e fatene arte”, perché racconta di traumi indelebili, passati difficili, cuori sofferenti e mancanze incolmabili, eppure, lungo il tragitto ci si accoglie e ci si accetta. E si ride, si ride tanto, succede che ci si senta a casa e che, per trenta minuti, si sosti nel posto giusto (anche) nel momento più inadeguato del nostro essere qui ed ora. Perché va bene così: si va in pezzi spesso, ma ci si può rimettere insieme con l’oro delle persone, anche quelle estroverse che sognano un ritorno a Broadway, quelle impossibilitate socialmente ma con un cuore enorme e quelle che nel loro lapidario silenzio ti si accostano con fermezza per mai più andarsene.

Perciò lasciate che funzioni dopo il delitto, dopo l’unione e la sofferenza, dopo anche la risata sbracata e una sciarada, lasciate che si rischi un’unica traccia, – Oliver Putnam insegna – l’unica che rendi manchevoli di qualcosa non appena se ne ha terminato la visione, perché una volta non basti ad arricchirci e se ne brami ancora, dai forse un’ultima volta. Premiamo play di nuovo.

È quel quadro al museo per cui si torna indietro quando sentiamo di non averne avuto abbastanza.

Che sia dunque questa Arte?

Laura