Bardo, falsa crónica de unas cuantas verdades

– in concorso

Silverio (Daniel Giménez-Cacho García), giornalista e documentarista di LA, dopo aver ricevuto un prestigioso premio deve far ritorno al suo paese natale. Il viaggio lo porterà ad avere una profonda crisi esistenziale.

Un viaggio tra realtà e immaginazione. Un sogno.” Il sogno di Iñárritu pur attingendo da 8 e mezzo (1963) e The Tree of Life (2011) mantiene una forte identità e incatena lo spettatore allo schermo. Per descrivere l’ultima opera del regista messicano ho un’espressione alquanto volgare (che non riporterò anche se vorrei molto) che rende molto bene ciò che è Bardo: la liberta di Iñárritu di potersi raccontare liberamente, mettendo a nudo le sue insicurezze, ma anche accentuando le qualità che lo rendono il grande cineasta che tutti conosciamo. È come se si concedesse il piacere di raccontarsi, dando vita ad una danza travolgente fra realtà e finzione. Iñárritu ha il potere di sviscerare concetti semplici attraverso immagini impattanti e memorabili. È stato un viaggio emozionante. E che deve essere vissuto al cinema.

Marika


White Noise

in concorso | film di apertura

Ad aprire la 79esima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia è stata l’opera di Noah Baumbach White Noise con protagonisti Adam Driver, Greta Gerwig e Raffey Cassidy. È doveroso fare una premessa: trasporre su pellicola un soggetto di Don De Lillo è una missione avventata, quasi impossibile, ed effettivamente l’audacia (o forse l’imprudenza?) di Baumbach non è stata del tutto ripagata. Il sincopato romanzo di DeLillo evidenzia un lato distopico contrassegnato dalla presenza di una catastrofe ecologica, del complottismo e di una tagliente critica al capitalismo moderno, temi che nella pellicola di Baumbach vengono esposti ma senza indagare in profondità. La lente d’ingrandimento del regista si sofferma solo sulla superficie e la moltitudine di eventi narrati nel film finiscono per creare confusione. Se lo spettatore non conosce l’opera di DeLillo, il disorientamento è più che garantito. Impeccabili l’interpretazione di Adam Driver e la colonna sonora di Danny Elfman. Baumbach, forse hai fatto un passo più lungo della gamba…

Angelica


Siccità

fuori concorso

A Roma non piove da tre anni e la carenza d’acqua stravolge le vite dei suoi cittadini. Un film tanto attuale e probabilmente il più inconcludente presentato alla mostra. Opera fin troppo corale, l’ultima fatica di Virzì è un mappazzone in cui i personaggi faticano a ritagliarsi un posto nella narrazione a lungo andare sempre più dispersiva. Le tematiche affrontate sgomitano fra trame e sottotrame senza mai essere sviluppate. Siccità è un’occasione sprecata che poteva dare più visibilità alla gravità della situazione che stiamo vivendo. Che peccato.

Marika


The Banshees of Inisherin

in concorso

Martin McDonagh anche questa volta porta a casa un gran risultato: miglior sceneggiatura e Coppa Volpi maschile per Colin Farrell. Quest’ultimo e Brendan Gleeson ritornano insieme davanti all’obiettivo di McDonagh dopo In Bruges con l’irriverente e tragicomico The Banshees of Inisherin. In quest’opera si respira un po’ di Shakespeare, un po’ di rimpianto, un po’ di autodistruzione. I protagonisti inscenano una danza di botta e risposta, contornati da dita mozzate e abitazioni andate a fuoco. E mentre si azzuffano e se le dicono di tutti i colori, la fauna attorno a loro li osserva con aria sbigottita, interrogatoria, divertita, un po’ come noi spettatori. Si ride e si piange col film di McDonagh e ci si domanda se la noia è forse il peggiore dei mali.

Angelica


The Son

in concorso

Una famiglia in frantumi cerca di ricomporsi con i cocci rimasti: Peter (Hugh Jackman), alle prese con la nuova compagna (Vanessa Kirby) e un bambino appena nato, deve fare i conti con le relazioni passate, fra cui quella col tormentato figlio adolescente (Zen McGrath). Dopo il claustrofobico, struggente e riuscitissimo The Father (2020), le aspettative per il nuovo film di Florian Zeller erano alle stelle. Purtroppo quello che credevo sarebbe stato uno dei miei colpi al cuore del festival si è rivelato una delle più grandi delusioni. La prevedibilità della storia, in particolar modo del finale, è chiara fin dalle primissime scene in cui vi è un susseguirsi di superficialità sommata all’attesa che accada quello che è palese debba succedere. Un tema tanto delicato affrontato con forzature nella sceneggiatura e senza mai andare in profondità. È così e basta. Per quanto Jackman, Dern e Kirby siano intensi e convincenti, non sono proprio riusciti a colmare quel senso di insoddisfazione che mi ha colta a fine film. Era come se mancassero quella ricercatezza e cura del dettaglio, ma soprattutto l’accortezza, che hanno reso The Father unico.

Marika


Beyond the Wall

in concorso

Vahid Jalilvand ritorna a Venezia col suo terzo lungometraggio Shab, Dakheli, Divar (Beyond the Wall). Ci troviamo in Iran, nell’abitazione di un uomo cieco che sta per suicidarsi, ma il trambusto esterno lo ferma e scopre che una donna fuggitiva si è nascosta da lui. Assistiamo al duplice dramma, quello di un uomo affranto e abbandonato dalla società e quello di una donna vittima delle circostanze che lotta affinché possa tornare a riabbracciare il figlio. La colpa è il carcere dal quale i protagonisti vogliono sfuggire e noi spettatori assistiamo al componimento di un puzzle che solo alla fine verrà rivelato in tutta la sua tragicità. Jalilvand sa bene come muoversi nello spettro delle emozioni umane e con la macchina da presa ci regala un thriller dinamico e serrato nonostante sia sviluppato pressoché in due soli ambienti.

Angelica


Les Enfants des Autres

in concorso

Rachel (Virginie Efira) è un’insegnante senza figli che si gode la vita. Quando si innamora di Ali (Roschdy Zem), padre single, si affeziona alla figlia Leila, come se fosse sua. Una straordinaria Virginie Efira restituisce sullo schermo con estrema delicatezza la maternità, da un punto di vista che spesso resta in secondo piano. Tuttavia, per quanto possa risultare una visione inedita, la storia in sé ha già trovato tante volte una rappresentazione sullo schermo. Quella della Efira è un’interpretazione essenziale ed autentica, lei è il cuore che tiene in piedi il film che sembra non riuscire mai a decollare definitivamente fino a portare all’esasperazione con quei momenti conclusivi che hanno tutti il sapore di finale, ma finale non sono. L’opera scritta e diretta da Rebecca Zlotowski zoppica nel concorso della mostra.

Marika


L’immensità

in concorso

Ambientato a Roma negli anni ’70, L’immensità di Emanuele Crialese si pone come un autentico coming out del regista, uomo trans che nel suo film affronta l’identità di genere e la transizione di Adriana/Andrea, giovane protagonista col volto di Luana Giuliani. Fra i brani della compianta Raffaela Carrà e di Adriano Celentano, ci addentriamo nell’intimità di una famiglia segnata da violenze ed abusi, ma che trova sempre il modo di rialzarsi. Ciò però non basta a reggere il pesante apporto emotivo del film che è collocato in ambienti fin troppo nitidi e puliti che stridono e non si ricollegano con gli anni ’70. L’immensità è un’opera non del tutto riuscita, eccessivamente ambiziosa, forse tanto Rumore per nulla…

Angelica


Saint Omer

in concorso

La documentarista senegalese Alice Diop ci regala il suo primo lungometraggio fiction Saint Omer ovvero il dramma di Fabienne Kabou, immigrata che ha ucciso la figlia di soli quindici mesi nel 2016. Il passato documentaristico della regista si può cogliere con spiccata evidenza sin da subito, grazie all’inquadratura fissa sull’imputata per la maggior parte del tempo. È una scelta sicuramente interessante, ma un occhio non avezzo al cinema della Diop potrebbe trovare Saint Omer eccessivamente lento e dilatato. In tavola vengono messi la maternità, la mitologia greca e la stregoneria. Si esce dalla sala sicuramente provati e disarmati da quest’opera tanto audace quanto riuscita, vincitrice del Leone d’argento – Gran premio della giuria e del Leone del futuro – Premio Venezia Opera Prima.

Angelica


Eismayer

settimana della critica

Il vincitore del Gran Premio IWONDERFULL è il primo lungometraggio di David Wagner, incentrato sulla vera storia del vice tenente austriaco omosessuale Charles Eismayer (Gerhard Liebmann). Una regia consapevole e mirata per un’opera prima senza sbavature che restituisce con grande sincerità le vite dei due protagonisti. Una regia che evolve insieme ai due innamorati, sempre più intima e mai intrusiva. Probabilmente troppo edulcorata, soprattutto in relazione ai rapporti col mondo esterno, ma poco importa. Inevitabilmente, a me, un pensiero è andato a God’s Own Country (2017), entrambi i film sono grandi fonti di speranza.

Marika


Copenaghen Cowboy

fuori concorso | serie tv

Approderà su Netflix Copenaghen Cowboy, la nuova serie di Nicolas Winding Refn ambientata nei bassifondi danesi ricolmi di violenza. La protagonista Miu, misteriosa creatura dai poteri soprannaturali, si ritroverà ad affrontare carcerieri e boss della malavita per riscattare sé stessa e le persone a cui tiene. Refn torna alle origini, si allontana dai canoni hollywoodiani per abbracciare la sua poetica più fine ed esistenzialista, contornata di neon e techno music. L’estetica cyber-punk fatta di immagini iper-saturate ed ambientazioni surreali abbraccia tutta l’opera di Refn, evidenziando l’estro creativo del regista che non ha paura di uscire dai canoni standard della serialità televisiva per offrire un prodotto sicuramente audace, visionario, autoriale. La brutalità della narrazione si tramuta in un rocambolesco cammino verso la spiritualità, l’immagine trascende la parola per divenire metafora dell’evoluzione della protagonista, da corpo mercificato ad impavida eroina scrittrice del suo stesso destino.

Angelica


Vera

orizzonti

Vera Gemma è la figlia di Giuliano Gemma. Quasi costretta a vivere all’ombra di un padre celebre cerca di farsi strada nella società romana. Contro ogni aspettativa, Vera è un film sorprendente in grado di spazzare via tutti i pregiudizi con cui io per prima mi sono approcciata all’opera. I registi Tizza Covi e Rainer Frimmel con uno stile documentaristico mescolano sapientemente realtà e finzione, dando la possibilità a Vera di separarsi dall’immagine pubblica legata alle sue apparizioni televisive. Menzione speciale: le scene con Asia Argento sono già cult!

Marika


Call of God (Kõne taevast)

fuori concorso

La bellezza del cinema di Kim Ki-duk è sempre stata quella di essere universale, scavalcando le barriere linguistiche, sfruttando i silenzi come mezzo comunicativo più efficiente della parola stessa. Call of God è un piccolo gioiello, girato durante l’estate del 2019 in Kirghizistan ed ultimato da alcuni colleghi del noto regista sud-coreano dopo la sua scomparsa nel dicembre 2020. In quest’opera in bianco a nero c’è tutto Kim Ki-duk, in particolar modo quello del suo primo decennio di carriera. Ritroviamo l’amore tossico di The Isle, la possessività di Bad Guy, l’incomunicabilità di Time e riferimenti poco velati a Ferro 3 – La Casa Vuota ed al Leone d’Oro Pieta. Per coloro che credono fermamente che quello di Kim Ki-duk sia un cinema violento, mi dispiace affermare che si stanno sbagliando: il suo è sempre stato un elogio all’amore in ogni sua sfumatura. Non è da meno quest’ultimo suo film che mette in scena la delicatezza e l’innocenza di lei e la passione (quasi irrefrenabile) di lui in un dialogo sulle pulsioni e sulla claustrofobia di una relazione di coppia. Call of God non è il miglior risultato di Kim Ki-duk, risente della sua mancata mano in fase di montaggio e di una certa ripetitività dei contenuti, ma per coloro che si avvicinano al suo cinema per la prima volta è sicuramente una buona base per rimanere catturati dalla sua filosofia.

Angelica


Ti mangio il cuore

orizzonti

Tratto dal romanzo di Carlo Bonini e Giuliano Foschini, l’ultima opera di Pippo Mezzapesa è il teatro dello scontro fra due bande criminali pugliesi. Il fuoco della vendetta è alimentato da un amore proibito. Il bianco e nero conferisce solennità a questa sorta di Romeo e Giulietta, la cui trama – sviluppata frettolosamente – è un susseguirsi di cliché, così come la caratterizzazione dei personaggi (Andrea Malatesta fra tutti) non ha solidità, né un forte impatto tanto che le loro azioni si disperdono fino ad essere totalmente dimenticate. Alcuni volti però, si imprimono nella memoria, fra questi il glaciale Tommaso Ragno e la vitale Elodie.

Marika


Mountain Onion (Gornyi Luk)

Biennale College Cinema

Biennale College Cinema ha presentato quella che è stata una vera e propria boccata d’aria fresca a Venezia79: Mountain Onion di Eldar Shibanov, film girato in soli sei mesi con un budget assai limitato ma che ha dato prova di essere un’opera carismatica e senza eguali. Viviamo la tragicomica odissea di due bambini, Jabai e Saniya, che attraversano le lande desolate kazake per recuperare il miracoloso viagra d’oro al fine di riaccendere la passione fra i loro genitori oramai sul precipizio del divorzio. I colori accesi, i paesaggi vasti e liberi, i costumi sgargianti e poco ordinari firmano questa frizzante commedia in cui è impossibile non tifare per i speranzosi giovani protagonisti, così presi dalla loro personale missione di salvataggio familiare.

Angelica


Blonde

in concorso

Andrew Dominik prende il classico biopic e sembra dire “Dimenticatevelo” e io lo ringrazio di tutto cuore. Con Blonde non cerca di ricostruire passo passo la vita di Marilyn Monroe: compie un lavoro di decostruzione in cui contrappone la voglia di libertà di Norma Jeane alle catene del personaggio pubblico Marilyn Monroe. Alla fine Blonde è un film sul cinema. Non cerca le risposte, coltiva il dubbio. La luce e il buio. I colori e il bianco e nero. Sono tutti strumenti con cui viene raccontata la sofferenza di una donna in lotta con sé stessa e la gabbia in cui è imprigionata: il grande schermo. Dominik non si compiace di quello che mette in scena, non si risparmia, ma questo non gli permette di cadere nel tranello della pornografia del dolore. Tratto dal romanzo di Joyce Carol Oates, Blonde è un’opera scomoda che trasuda coraggio. Il coraggio di voler raccontare un punto di vista a modo proprio. Ana de Armas trasmuta in quello che, come già detto, non è un biopic: Blonde è un ibrido dalle tinte horror destinato a restare incastonato nella memoria. Che privilegio viverlo sul grande schermo. Non mi resta che lasciarvi le parole del regista: “Come si pone una bambina indesiderata di fronte all’essere diventata la donna più desiderata del mondo? Deve dividersi a metà? Proporre un’immagine sfolgorante al mondo, mentre l’io indesiderato soffoca all’interno. E non è forse il cinema stesso una macchina del desiderio? L’abbiamo in qualche modo uccisa noi stessi con il nostro sguardo?
Lei ora esiste, come la polvere di una stella esplosa, sotto forma di migliaia di immagini che fluttuano nel nostro inconscio collettivo, nei film, nelle fotografie, sui muri, nelle pubblicità, sulle fiancate dei furgoni dell’aria condizionata e la sua luce – come quella di una stella – viaggia ancora verso di noi, anche se lei si è spenta da tempo
”.

Marika


Chiara

in concorso

Dopo Nico, 1988 e Miss Marx entrambi presentati nelle scorse edizioni del festival veneziano, Susanna Nicchiarelli torna al Lido con Chiara, la storia della giovane che si spogliò del nome di famiglia e dei suoi privilegi per unirsi a Francesco ed il suo ordine di frati, vivendo in povertà ed umiltà. È da sempre ben nota la storia di San Francesco d’Assisi ma la regista sceglie ancora una volta di posare il suo occhio cinematografico sulla figura femminile, una diciottenne del XIII° secolo. A far da protagonista insieme a Chiara è la vastità dei paesaggi umbri, in particolar modo la Chiesa di San Pietro a Tuscania, location del film Uccellacci e Uccellini di PPP. Ed anche il comparto sonoro è un elemento di spicco all’interno di Chiara che non si può certo definire un musical ma che ci regala diversi momenti danzerecci e canori, come le varie melodie tratte da Jesus Christ Superstar. In questo coming of age però manca la profondità della crescita dei suoi personaggi, il film sembra smarrirsi fra le mura della chiesa e non trovare la giusta rotta. Non bastano le ardite scelte musicali (come il finale col brano di Cosmo, un azzardo non da poco) a rendere l’opera della Nicchiarelli un film valente. È un compitino ben eseguito, ma sterile, elementare.

Angelica


Love Life

in concorso

Kōji Fukada presenta Love Life, struggente elaborazione del lutto incastonato nel microcosmo sociale giapponese fatto di silenzi e sguardi che comunicano di più delle parole. Se il cinema occidentale avrebbe affrontato la tragedia con urla di dolore sguainate come armi, Fukada opta per un approccio più glaciale, distaccato, quasi a voler sia rispettare i sentimenti dei protagonisti afflitti sia per non rimanere invischiato in futili scene strazianti e rumorose. È sicuramente una scelta coraggiosa, a tratti azzardata visto il netto distacco culturale che c’è col mondo nipponico, al punto che lo spettatore fatica a connettersi con l’emotività dei personaggi, rimanendo estraniato dalla loro freddezza. Eppure anche i più piccoli gesti sono ricolmi di significato che un occhio più avvezzo al linguaggio cinematografico giapponese può cogliere. Forse ci vorrebbe un vocabolario che possa decifrare la cultura del Sol Levante, o forse semplicemente un po’ di apertura verso il diverso, d’altronde il dolore è universale, per tutti noi.

Angelica


El Akhira – La Dernière Reine

giornate degli autori

Adila Bendimerad e Damien Ounouri fanno il loro debutto alla regia con un period drama ambientato nel 1514 in Algeria incentrato sugli intrighi e sui complotti di cui è protagonista la regina Zaphira. Un ritratto sontuoso e rigoroso, il cui ritmo è scandito dall’alternarsi di ricevimenti a corte e battaglie sanguinolente. Dei fatti realmente accaduti raccontati in una messa in scena che è un misto fra Game of Thrones e una tragedia Shakesperiana, filtrato da un punto di vista femminile: quello di un personaggio storico la cui esistenza oscilla fra mito e realtà. Un’opera credibile e maestosa in cui è stato un piacere perdersi.

Marika


Riget Exodus

fuori concorso | serie tv

Nel 1994 Il Regno debuttava sulla tv danese. Quasi vent’anni dopo fa il suo ritorno con un’incredibile terza stagione, il cui binge-watching è stato semplicemente un’immensa goduria.

Il Male si è introdotto nel Regno, il momento sta per arrivare: l’Esodo. Restando fedele alla struttura e allo stile delle prime due stagioni, Lars von Trier confeziona un capitolo conclusivo provocatorio (in perfetto stile von Trier, if you know what I mean) e attuale, mescolando grottesco e attimi di pura comicità. Fra questi ultimi lo scontro Danimarca-Svezia, elemento centrale e ricorrente della stagione. Diciamocelo, a Lars von Trier non manca affatto il senso dell’umorismo. E soprattutto: l’attesa è stata ripagata.

Marika


The Hanging Sun

fuori concorso | film di chiusura

A chiudere le danze di Venezia79 vi è l’opera prima di Francesco Carrozzini, la cui visione è così nitida e decisa da sembrare il suo terzo o quarto lungometraggio. Tratto dal romanzo “Sole di Mezzanotte” di Jo Nesbø, il film racconta di John (il nostro Tom Hardy della Garbatella, Alessandro Borghi), un silenzioso ex-criminale in fuga dal padre malavitoso. Trova rifugio in un ostile villaggio norvegese dove il sole non tramonta mai. E non scalda mai, come sottolineato dalle tonalità cupe della fotografia. Una freddezza che si sposa anche con la difficoltà di John ad inserirsi nella comunità.
The Hanging Sun non si limita ad essere un thriller: è un viaggio alla scoperta di sé stessi e un percorso di redenzione, un film sulla possibilità di riscrivere il proprio destino e lasciarsi alle spalle relazioni tossiche, in particolar modo figure paterne ingombranti. La speranza si fa strada fra i silenzi che dominano la scena cupa e deprimente, specchio del malessere dei personaggi raccontati. Direi proprio che è stata una degna conclusione per la mostra.

Marika


The Listener

– giornate degli autori | film di chiusura

“Non esistono film piccoli o film grandi. Esistono solo Film e le storie che intendono raccontare”. Con queste parole il regista di The Listener, Steve Buscemi, risponde a una delle tante domande che il pubblico di Venezia 79 (per la chiusura della sezione parallela “Giornate degli Autori”) si è posto guardando il lungometraggio. L’ascolto come base del tutto, in fin dei conti, lo dice il titolo stesso. The Listener è parola scritta – quella dello sceneggiatore Alessandro Camon – è pura recitazione – quella di Tessa Thompson, dalla estenuante e infaticabile performance – ed è, irrimediabilmente, dialogo. Beth è l’ascoltatrice ed occupa, al centralino del Helpline Volunteers, il turno delle ore più silenziose, misteriose, a volte irrequiete e paralizzanti – quelle notturne. Attraverso le telefonate che riceverà, verrà offerto uno spaccato della vita sfumata nelle routine altrui, finché quella breccia, non diventerà la stessa Beth che si racconterà allo spettatore. Il film di Buscemi/Camon è intimo ma non piccolo, è semplice ma non banale. Per entrambi si tratta di un’opera ottimista, che dal cinico vuole sviscerare della premura, dall’abbandono vuole ottenere cura. A mio avviso, The Listener ha il potere di diventare lo specchio di chi guarda, riflesso della sensazione con cui intendiamo approcciarci; pertanto, può anche essere ottimista, ma può anche scavarti dentro irretendo timori, sedimentando convinzioni, cesellando dubbi… Ed è forse questo dualismo che infonde al film una personalità tutta sua.

Laura