“La vendetta è un piatto che va servito freddo”, dicono. Ed è proprio la glacialità l’arma letale di The Menu, film di Mark Mylod, un catartico viaggio nello squallore dell’animo umano dove paure e peccati si annidano in profondità.

In un lussuoso ristorante insediato in una remota isola si riuniscono vari esponenti dell’alta borghesia, fra critici culinari, attori hollywoodiani e rampolli della finanza. Fra loro anche una giovane coppia formata da Tyler (Nicholas Hoult), ossessionato dalla nouvelle cuisine e Margot (Anya Taylor-Joy), presenza non prevista quel giorno, un autentico pesce fuor d’acqua. Tutti sono lì, disposti a spendere una vera fortuna pur di assaporare la straordinaria cucina dello chef Julian Slowik (Ralph Fiennes) che col suo team condurrà i commensali in un tour di sapori e dissapori che sfocerà in un bagno di sangue.

Il nostro occhio non è di certo estraneo alla visione di tanta tossicità in ambienti come le grandi cucine, basti pensare alla serie The Bear – che potete recuperare su Disney+ – uscita proprio quest’anno che si è prodigata di essere testimonianza di traumi e travagli umani, ben lontani dalle patinate docuserie culinarie e show del calibro di Masterchef che nel corso degli anni hanno invaso la nostra televisione.

Cosa succede quando si ha la fortuna di sfondare con la propria passione, renderla un lavoro, ma di quella vetta, ogni passione ne venga poi privata? “We live in a society”, direbbe il Joker di Todd Phillips, per cui la produzione e la scaduta patina del successo uccidono tutto ciò che di umanistico l’uomo possa riserbare per sé stesso e per gli altri. Perché anche cucinare è arte, cibo che nutre (letteralmente, certo), ma che, per processo, viene pensato, elaborato, assemblato e servito a terzi.

Spesso ci si dimentica che l’arte non dev’essere elitaria, ma alla portata di tutti – è così che gli Artisti hanno fatto la storia, parlando a chi la società si vedeva costretto osservarla dal basso del piedistallo. Eppure, nella cucina e nello specifico nell’incredibile The Menu avviene l’esatto contrario. Quando il grande chef Julian Slowik perde ogni attrattiva per la cuisine, è come vedere un Pablo Picasso senza più Cubismo: il risultato sarà metodico, vendicativo e gustosamente estetico. Così, per metafora, lo chef/artista studierà il suo Cenacolo e ne proporrà un menù da gourmet, pensato con scrupolo e maestria, che conduca i commensali dalla sostanza al nulla performativo e cos’altro può essere questo, se non il riflesso della pochezza in cui il capitalismo ci conduce? Al vuoto snervante con cui il vile denaro pompa uomini piccoli e insignificanti e ai quali l’arte, chiedendo convalida, deve sempre inchinarsi?

A questo ci aveva già preparati Bong Joon-ho con il suo Parasite e la famosa scena del jjapaguri, un film che sicuramente ha fatto scuola agli americani delineando con finissima precisione il classismo e la denuncia sociale, giocando però coi generi, passando dal thriller alla commedia, mescolando realtà e finzione fino ad arrivare ad un punto in cui si è davvero toccato il fondo di quel barile marcio, tastando con mano la polvere lasciata dalla propria inopia. Ed il sogno diviene incubo, e l’incubo solitudine e desolazione.

Il cibo come status quo, la pietanza degli dei, menù prelibati che solo celebrità e ricchezza possono comprare e quando d’entrambe si macchierà anche colui che è stato chiamato a creare, non otterrà più dall’arte piena abbondanza, ma bile e miseria fino alla folle, spettacolare autodistruzione. Per tanto, la cucina di Slowik da arte classica diventerà performing art in un processo destrutturante, nel quale lo stesso film non si prenderà mai troppo sul serio e nel black humor e nella satira sguazzerà talmente bene da render veritiera ogni stranezza dell’artista, lasciando che sia il ricco il solo ad esserne abbindolato e salvando invece l’unica per cui il cibo vale la quotidianità di un semplice cheeseburger da portar via.

Mylod strizza l’occhio al contrappasso dantesco, unisce la punizione del Creatore al mistero che ogni cliente porta con sé, irretendo lo spettatore ad un livello più thriller del sottogenere. Perché l’executive chef, circondato dai suoi fedeli discepoli, ha il coltello dalla parte del manico (e non solo metaforicamente), non teme il giudizio dei malpensanti seduti ai tavoli perché lui è al di sopra di tutto, è legge divina, è la forbice capace di tagliare in un solo colpo il sottile filo della vita. E nel divampante fuoco avviene l’espiazione dei propri peccati, l’attimo culminante in cui il Dio diviene uomo, scende fra i comuni mortali e con loro si libera di ogni idiosincrasia tornando alla terra, tornando cenere.

C’è un po’ d’Agatha Christie in quest’Ultima Cena, un po’ del suo giudice Wargrave nella giustizia ricercata da Slowik e buona parte della Soldier Island nel prestigioso ristorante Hawthorne. È proprio l’isola in sé a suscitare subito un senso di claustrofobia. Seguiamo lo sguardo di Margot che fissa la barca andarsene, la foresta stringersi attorno a lei, la porta del ristorante chiudersi alle sue spalle, ed avvertiamo quell’impossibilità alla fuga, il disarmante timore di essere come topolini in una trappola senza uscita. Tra natura ed artificio, Hawthorne rimanda proprio alla casa di Parasite, contraddistinta da vetrate e corridoi, porte blindate e serrature, ma in The Menu l’orrore è visibile a tutti. Nessun scheletro nascosto in cantina, la condanna è parte dello spettacolo stesso, messo in scena con agghiacciante teatralità da cui è impossibile staccare il proprio sguardo. E più il commensale tenta di avvicinarsi al sole, esponendo alla luce i propri ego e vanità, più le conseguenze saranno atroci e come Icaro precipiteranno lentamente nel fondo del mare.

“You’ll eat less than you desire.” – Hong Chau

“Voglio fare un gioco con te”, queste le parole del celebre burattino manovrato da Jigsaw nella truculenta saga cinematografica Saw. Lo chef Slowik imbastisce un vero e proprio carosello mortale, distinto da portate di gastronomia molecolare e racconti, perché sta proprio nella parola la pungente critica, nell’allegoria della prosa in reale biasimo e disapprovazione. Ma qui non v’è alcun arto sacrificato che possa salvare il proprio destino, la sentenza è già stata emessa dal momento in cui ogni cliente dell’Hawthorne ha accettato l’invito alla suntuosa cena ed è morte. La performance mozzafiato di Ralph Fiennes racchiude un’anima oscura, torturata  nel corso degli anni da figure che sminuiscono i suoi sforzi, come chi nonostante abbia visitato più volte il suo ristorante non ricordi un solo piatto che ha mangiato. Lo chef ha dimenticato il piacere di cucinare per qualcuno, oramai il suo è diventato un mero esercizio stilistico volto più a sbalordire come un fuoco d’artificio che a distanza di pochi secondi svanisce nell’aria, non rimanendo impresso nella mente e nel palato di chi assaggia le sue pietanze. E come ci ricorda lo chef interpretato da Nicolas Cage in Pig (2021) di Michael Sarnoski, ciò che conta è trasmettere la passione e la sincerità con le quali si cucina, anche se questo significa non preparare machiavellici piatti per l’élite ma lavorare in un modesto pub.

“Per molti versi la professione del critico è facile: rischiamo molto poco pur approfittando del grande potere che abbiamo su coloro che sottopongono il loro lavoro al nostro giudizio; prosperiamo grazie alle recensioni negative che sono uno spasso da scrivere, e da leggere. Ma la triste realtà a cui ci dobbiamo rassegnare è che nel grande disegno delle cose anche l’opera più mediocre ha molta più anima del nostro giudizio che la definisce tale. Ma ci sono occasioni in cui un critico qualcosa rischia davvero: ad esempio nello scoprire e difendere il nuovo.” – Anton Ego

Ricordiamo tutti il funereo critico culinario protagonista del film d’animazione Ratatouille e la sua penna feroce. Una figura arcigna che mette terrore a tutti coloro che osano servirgli una pietanza. Eppure nel finale del film si rivela essere il vero eroe, colui che pone tutti noi nella condizione di riflettere sul potere della parola e dunque di rimando sul ruolo del critico. Perché Ratatouille altro non è che una lente d’ingrandimento sulla critica cinematografica, su coloro che vedono film per professione recensendo qualità e difetti, impavidi e senza alcuna remora di compromettere il lavoro altrui. In The Menu i critici appaiono pomposi, ingozzati dalla loro stessa dialettica forbita ma scondita di ogni piacere, come se non apprezzassero realmente ciò che stanno mangiando e, come disse proprio il collega Anton Ego, “Amo il cibo. Se non lo amo, non lo mangio“.

È lo chef stesso a suggerire ai clienti di non mangiare, ma assaporare, gustare, aprire i propri orizzonti, elevando dunque la semplice masticazione a qualcosa di più, una ricerca del gusto che però eccede nell’analisi e pecca nella reale intenzione di chi cucina. Perché dinanzi ad impiattamenti scenografici degni di essere esposti nelle migliori gallerie d’arte, è solo la persona più comune fra tutte ad avere il coraggio di dire la verità: anche il cibo più caldo emana freddezza. Margot diviene così un’autentica final girl poiché outsider, elemento di disturbo all’interno del racconto. Lei e lo chef imbastiscono una partita a scacchi, un vero e proprio scontro intellettuale fatto di confessioni e ricatti, pretese e scelte, generando una suspence che si taglia col coltello. Margot è tutti noi che preferiamo la sostanza alla promessa volubile, la praticità all’allegorica fantasia. Ed effettivamente lei non mangia, lei assapora davvero quel cheeseburger, preparato con tanta semplicità quanto amore richiesto da un piatto che non ha pretese di essere qualcosa di più, non si eleva ad alta cucina ed è il messaggio del film stesso. E forse anche noi spettatori divanzi ad una pellicola dobbiamo porci con uno sguardo più generoso, andando oltre la semplice apparenza, preferendo una visione attiva ma ricordandoci sempre che, a discapito di metafore celate e introspettive ricerche, l’intrattenimento ed il piacere di guardare un film devono essere sempre al primo posto. E dunque siamo ciò che mangiamo, siamo ciò che guardiamo, ed anche qualcosa di più.

Questa e tante altre possono essere le molteplici letture che il film intende offrire al pubblico sfoggiando con maestria la sua carta vincente. The Menu è tutto ciò che ci si aspetta di vedere, senza averlo realmente predetto, perché si racconta diversamente, cattura lo sguardo e la curiosità e soprattutto diverte, diverte da morire.

Laura e Angelica