“Per molti versi la professione del critico è facile: rischiamo molto poco, pur approfittando del grande potere che abbiamo su coloro che sottopongono il proprio lavoro al nostro giudizio; prosperiamo grazie alle recensioni negative, che sono uno spasso da scrivere e da leggere.”

Devo ammettere che, per quanto non possa considerarmi un critico cinematografico, mi trovo pienamente concorde con le parole di Anton Ego, arcigno protagonista del film d’animazione Ratatouille. Non nascondo che ho provato un certo godimento nel distruggere  American Horror Story: Double Feature nello scorso gennaio, proprio in questa sede. Una decima stagione così priva di innovazione che più precipitava nell’assurdo (e, ahimè, nel patetico) più io mi divertivo nel disprezzare un episodio dopo l’altro senza pietà.

Devo però confessare che scemato il compiacimento iniziale di una tale composizione feroce, ho provato del rammarico, un profondo senso di malinconia rimembrando le prime stagioni di AHS, così audaci e intrepide. Mi è dispiaciuto aver usato parole tanto svilenti nei riguardi dell’opera di Ryan Murphy and Brad Falchuk, perché per quanto le ultime stagioni hanno perso il magico brio delle origini, hanno in qualche modo alimentato la mia passione per il genere horror, cullandomi con le loro macabre storie, tenendomi compagnia nelle notti insonni. A quei due uomini devo molto, è innegabile, come lo è anche ammettere che la loro bussola ad un certo punto ha smesso di puntare verso la direzione della creatività.

Ma quanto è bello ricredersi e rimanere sorpresi? Ritrovare quel briciolo di speranza oramai perduto ed emozionarsi nuovamente come un tempo? Ebbene sì, Murphy e Falchuk sono riusciti nell’impresa titanica di risollevare la reputazione della loro creatura, regalandoci American Horror Story: NYC, undicesima stagione disponibile dal 28 dicembre su Disney+.

È il 1981 e ci troviamo, come suggerisce il titolo, nella città che non dorme mai, devastata da una serie di cruenti omicidi a danno della comunità gay. La polizia pare non esser particolarmente interessata alle gesta del misterioso serial killer, ma il giornalista omosessuale Gino Barelli (Joe Mantello) è determinato più che mai a far luce sulla scia di sangue che bagna i vicoli più oscuri di New York, affiancato dal compagno, nonché detective, Patrick Read (Russell Tovey) che, non avendo fatto coming out, sul luogo di lavoro tiene un profilo basso, incrinando così il rapporto con Gino. Nel frattempo altri personaggi fanno la loro apparizione: il talentuoso fotografo Theo Graves (Isaac Cole Powell) incastrato in una relazione tossica col ricco e glaciale Sam (Zachary Quinto), il giovane Adam (Charlie Carver) che aiuterà il giornalista Gino Barelli nella sua crociata contro la polizia newyorkese, la dottoressa Hannah Wells (Billie Lourd) preoccupata per la scoperta di un nuovo virus mortale ed infine Big Daddy, una figura vestita di maschera e pantaloni in pelle che terrorizza ogni giovane omosessuale che bazzica fra bar e parchi della città.

È doveroso fare una premessa per coloro che vogliono avvicinarsi a questa undicesima stagione: è molto distante da tutto il precedente operato di Murphy e Falchuk. Nessun demone, nessun vampiro, nessuna strega. In AHS: NYC la morte non è una creatura della notte, non ha il volto coperto da una maschera e non brandisce alcun’arma, bensì è una malattia silenziosa che si fa largo all’interno del corpo, infettandolo, demolendolo lentamente, fino a prosciugarlo della propria linfa vitale. La scelta di ambientare questa stagione durante l’epidemia dell’AIDS sfociata negli anni ’80 è stata una scelta saggia perché apre gli occhi al pubblico riguardo un capitolo della nostra storia che troppo facilmente tendiamo a dimenticare.

Reduci dalla pandemia del corona-virus, siamo ben consapevoli della pericolosità di un virus che non si può vedere, non si può percepire, eppure non trova ostacoli alla sua diffusione. E meno si conosce il proprio “nemico” e più aumenta il terrore. È la realtà a procurarci gli incubi, la possibilità concreta di morire per mano di qualcosa che esiste davvero a rendere AHS: NYC la stagione più spaventosa e disarmante fra tutte, perché dinanzi ad una minaccia tangibile ci sentiamo tutti più vulnerabili. Spettri, diavoli ed ogni genere di malignità potranno anche tormentare il nostro subconscio, ma fare i conti con la quotidianità è tutt’altra cosa.

Veniamo catapultati in un mondo in cui odio ed ignoranza si fanno strada, elargendo cattiverie, generando faide, dividendo la società. Il diverso spaventava negli anni ’80 ma la situazione non è poi tanto mutata. I protagonisti di AHS: NYC chiedono aiuto a gran voce dinanzi a tutte quelle misteriose morti. Che l’artefice fossero un serial killer o qualcosa di ancor più spaventoso, ha poca importanza. Le autorità non hanno mosso un dito, gli ospedali totalmente ignari di ciò che avevano davanti hanno preferito allontanarsi da ogni responsabilità, abbandonando pazienti e malati pur di non contagiarsi a sua volta. È stato un periodo oscuro, troppo per essere dimenticato, ed è bene parlarne ancora oggi.

AHS: NYC non ha un lieto fine. Vediamo Gino Barelli lottare con tutte le sue forze contro l’ignoranza dilagante, protestare contro la polizia ed i giornali locali, sfoggiare con orgoglio la sua identità, farsi carico del peso di quella tremenda malattia sensibilizzando la comunità gay e non solo. Ma il virus dell’HIV ha bussato alla sua porta e Gino diverrà silenzioso spettatore non solo del suo declino fisico, ma anche della morte di tutte le persone a lui vicine. Amici, colleghi di lavoro, semplici conoscenti incontrati al bancone di un bar.

Dopo corpi squartati e letture dei tarocchi, gli episodi finali “Requiem 1981/1987 parte 1 e 2” mettono in scena un consuntivo tanto amaro quanto straziante, usando il potere della narrazione di genere per raccontare il propagarsi della malattia attraverso metafore e sogni allegorici. La realtà arricchita dal surrealismo. Siamo davanti agli episodi più importanti che AHS abbia mai prodotto, densi di maturità ed elevati da una messa in scena senza eguali: benvenuti nel Multiverso di Murphy. Siamo spettatori di uno dei montaggi più d’impatto che l’universo delle serie tv abbia mai realizzato, dove l’AIDS assume sembianze umane, mietendo vittime a colpi di arma da fuoco, imbastendo una vera e propria carneficina.

Ci sentiamo inermi, miserabili e così piccoli davanti a tutto quel dolore, a quelle persone che una dopo l’altra precipitano nell’oblio e dinanzi a chi, ancora vivo, ha dovuto assistere a cotanta sofferenza, prendendo parte a più funerali di quanti credesse, dall’alto del suo palcoscenico dell’orrore col suo discorso di compianto. E per quanto possa essere preparato a quel momento, per quanto sia – ahimè – diventata una routine, improvvisamente l’aria pare mancargli nei polmoni, la voce si strozza in un gemito, gli occhi si bagnano di lacrime che solcano il suo viso sempre più abbattuto dalla solitudine. E possiamo riflettere quanto vogliamo, ma nulla rimedierà a tanto tormento, a quell’afflizione che rende l’uomo impotente. È solo nell’accettazione del proprio destino che i personaggi finalmente trovano una parvenza di pace interiore, abbracciando l’idea di essere perduti, distrutti, prede di un cacciatore che non lascia superstiti. Una verità fendente quanto la lama di un coltetto, ma pur sempre una verità.

Oltre alla diffusione del virus dell’HIV, Murphy e Falchuk hanno preso ispirazione da un altro fatto reale e cioè le cruente gesta di Richard Rogers meglio noto con l’appellativo di  Last Call Killer, un’omicida che attualmente sta scontando due ergastoli per l’assassinio di due uomini gay, anche se sembrerebbe aver commesso ben più reati. Anch’egli infermiere come il sadico villain di AHS: NYC, ha fatto scalpore per aver ucciso e smembrato in più parti le sue vittime, tutte adescate nei bar di Manhattan negli anni ’80. Questo caso di cronaca nera però non fece molto successo all’epoca poiché la polizia non sembrò interessarsi particolarmente a codesto omicida per la natura delle sue vittime. Non è un caso che ciò abbia catturato l’attenzione degli ideatori di AHS, in particolare Ryan Murphy che già con la serie Dahmer – Monster: The Jeffrey Dahmer Story – uscita a settembre su Netflix – sottolineò la noncuranza delle autorità nei riguardi della comunità queer.

Per quanto questa undicesima stagione si presenta a noi come una necrologia di anime svanite delle quali non è rimasta neanche la polvere – del resto AHS: NYC è più che mai una vera e propria storia horror americana – è impossibile non rimanere catturati dal mondo notturno e misterioso in cui i protagonisti si muovono suadenti, fra corpi che brillano di caldo sudore e indumenti di pelle nera che sembrano tatuati su di muscoli perfettamente scolpiti. Non c’è limite all’ardore, alla provocazione, alla sensualità, e se questa New York City si fa teatro di orrori ineccepibili tanto vale rendere tutto ciò che vi danza attorno più bello, più desiderabile.

Ma è anche la città stessa a tenerci con gli occhi incollati allo schermo, una NY che per atmosfere e pathos ricorda la San Francisco di Zodiac di David Fincher, a cui fa da spalla la soleggiata Fire Island, così satura di colori quanto di perversioni. Ed è qui che la magia di AHS prende vita, quando all’ordinario subentra l’elemento outsider, la stranezza che si fa spazio e da sottotrama si tramuta nel vero e proprio fulcro della storia. D’altronde American Horror Story ci ha sempre appagato proprio per le sue peculiarità fuori dagli schemi, che siano esse suore corrotte dal diavolo o un mastodontico uomo vestito di latex che brandisce una mazza ferrata.

Non sarà una stagione esente da difetti, ma AHS: NYC è lo schiaffo in faccia che ci serve per svegliarci dall’illusione e riportarci alla cruda realtà, è lo specchio che riflette le nostre mancanze come individui e membri di una comunità, troppo ciechi e insensibili di fronte alla sofferenza altrui. C’è un prima e un dopo AHS: NYC, dobbiamo ammetterlo in primis a noi stessi perchè ci troviamo davanti ad una delle stagioni meglio riuscite e più devastanti dell’intera serie antologica, a discapito dell’assenza di alieni e streghe. All monsters are human, ma alcuni vivono sotto la pelle.

Angelica