ISTRUZIONI PER LA LETTURA: ESSERE IN PARI CON LA SECONDA STAGIONE!!
Trouble in Heaven. L’Armageddon non è andato come i litigiosi Inferno e Paradiso desideravano, né nel 1990 (anno di pubblicazione di Buona Apocalisse a tutti!, urban fantasy umoristico di Neil Gaiman e del compianto amico e partner in crime Terry Pratchett) né nel 2019 (anno di distribuzione della miniserie diretta da Douglas Mackinnon e sceneggiata da Gaiman sulla base di quel romanzo). E la colpa, oggi come ieri come all’inizio dei tempi (ci torneremo!), è dell’alleanza tra i frenemies Aziraphale, angelo cuore di panna e sofficioso quanto la sua chioma, e Crowley, demone dagli occhi d’oro e un carattere fumantino come si conviene alla sua cricca (che però non frequenta più volentieri).

Good Omens 2 è una sorpresa: prima di tutto per loro due, che, giudicate persone non grate, invise l’uno agli impettiti colletti bianchi di lassù e l’altro agli imputriditi satanassi di laggiù, credevano di poter trascorrere l’eternità cenando in pace al Ritz e ascoltando Tori Amos, e invece si ritrovano a gestire un Arcangelo Gabriele smemorato e rincitrullito (tutti i trope pensabili e immaginabili sulla perdita di memoria, Gaiman li declina in sketch irresistibili, con lo zampino di un Jon Hamm che, dal canto suo, pareva non aspettare altro che potersi prendere in giro a volontà).
Ed è una sorpresa per i fan, già allietati dalla riuscitissima trasposizione approdata quattro anni fa su Amazon Prime e che si fregiava di una chiusa impeccabile: l’ipotesi di un sequel sembrava allora quantomeno azzardata, specialmente in assenza forzata dell’altra metà della mela (Pratchett appunto). Invece.

Invece Good Omens 2 è una sorpresa esaltante, elettrica, rinfrescante: lo è innanzitutto la sua linearità, il modo in cui fa piazza pulita dei fronzoli e dei potenziali scivoloni in cui qualsiasi prosieguo di un franchise – o semplicemente di una narrazione in partenza autoconclusiva – rischia di incappare, mettendocela tutta per essere più grande e più ambizioso, in sostanza per giustificarsi.
Al contrario, Gaiman (riprendendo alcuni appunti redatti da lui e del collega per un “post scriptum” in grande stile, che svilupperà nella terza stagione, ancora in attesa del green light) riduce il raggio d’azione e restringe il campo a un sestetto di personaggi: i nostri anti-antieroi, le new entry Maggie (Maggie Service) e Nina (Nina Sosanya), l’Arcangelo in ambasce e un sorprendente Belzebù (Shelley Conn). Qui ogni coppia è specchio, metro di misura e chiave di lettura delle altre. In aggiunta segue la luciferina Madame Tracy, o per meglio dire la ritrovata Miranda Richardson (nel suo miglior ruolo da… sempre?) nei panni di Shax, nuovo araldo dell’Inferno sulla Terra. Il cast compone un dipinto innovativo staccandosi dalla maschera e dallo scopo soprattutto parodico (e a tema film/serie apocalittico-catastrofica) che avevano i loro predecessori (dall’Anticristo teenager con la sua allegra brigata alla medium e il duo Anathema/Newton), avvicinandosi a un’umanità esperita, conosciuta ed esplorata, che è, sempre di più, e in questa seconda annata più che mai, il cuore e la ragion d’essere della serie.

I corposi flashback che ripercorrono le esperienze vissute da Aziraphale e Crowley partendo addirittura dal Big Bang (che è proprio il secondo a innestare, non ancora angelo caduto e vero e proprio cinnamon roll celeste) fungono da approfondimento del loro sfiorare – ricordate la puntata 1×03? – gli umani dolori in relazione (ahem: abusiva) ai racconti biblici, scavando a fondo nelle criticità di cui i Buoni (e il Buono per eccellenza) hanno praticato e continuano impunemente a macchiarsi. Da qui la scena più esilarante della stagione, in pieno stile Monty Python: Crowley che restituisce, più o meno in incognito, i suoi figli a Giobbe. Per un episodio tanto ilare, non ci si aspetta quasi il naturale incedere verso una conclusione più seria, consapevole, d’impronta, oseremmo dire, filosofica. Aziraphale che da angelo immacolato inizia a compiere azioni di grigio spessore, comprende sia una faccia della medaglia che l’altra. Il viso contrito di chi attende il giudizio divino, è la fotocopia della dicotomia tra il bene e il male, di un indottrinamento che si era sempre percepito come sicuro, il quale adesso, nel momento del libero arbitrio, inizia invece a spaventarci.
“But what Am I?”
“You’re just an angel who goes along with Heaven as far as he can”.
“That sounds …”.
“Lonely? Yeah”.
“But you said it wasn’t”.
“I’m a demon. I lied”.
Questo dall’ultimo dialogo del secondo episodio, qualcosa di spiazzante che apre la porta alla realtà. Il prezzo da pagare per stare dalla propria parte, danzando tra gli abissi infuocati e l’alto dei cieli. È la solitudine della razza umana che va d’accordo con il mondo finché può, anche se questo significa camminare per la propria strada, mentre tutto intorno vi è mossa una società che evolve ad un ritmo diverso. A volte però, ci è concessa una grazia (poetica, non divina) e lungo la via ci si accosta qualcuno che nella solitudine inizia a muovere i passi con noi.


Come Aziraphale e Crowley: da soli, insieme.
Tramite creature sovrannaturali e celestiali si affronta un concetto enorme come l’umana condizione ed il modo in cui viene imbastito, è talmente delicato da risultare commovente. Sono i tempi della risata e del dolore che hanno fatto grandi le metriche di Shakespeare e del cui utilizzo, Neil Gaiman non teme l’effetto.
Per questo motivo, nel proseguire delle ilarità, episodio dopo episodio, l’autore/sceneggiatore non si risparmierà e farà breccia nella storia come solo un Maestro della penna (qual è, non da meno) saprebbe fare. Dagli aneddoti dell’Antico Testamento, balzerà nella Londra Vittoriana tra cadaveri e laudano, fino a giungere ad un altro dei momenti salienti dei flashback: quello che coinvolge Mark Gatiss, non mancando di zombie, una mosca nazista e il teatro del West End anno 1941.
Che sia proprio l’angelo pieno di buone intenzioni Azi a convincersi che le cose, per lui e per l’umanità che ama così candidamente, possano cambiare prendendosi carico del potere gestionale in un sistema corrotto, è l’ultima amara beffa di Neil, vecchia volpe e, al contempo, così appassionato – proprio come Aziraphale – del genere umano, dei suoi fan, dei suoi personaggi, da scegliere di compiere un salto in più, di gettare il cuore al di là dell’ostacolo perché tutti, proprio tutti, possano vederlo.


Se vuoi mettere in ballo la finzione, ti conviene farlo bene, cita Michael Sheen dal copione di Gaiman, strizzando l’occhio entrambi alla cara Jane Austen. Non a caso, l’antipasto che ci era stato offerto con la prima stagione diventa, in questo secondo atto, un vero e proprio banchetto del sentimento. L’autore mette in scena la romcom classica, ma a modo suo e con gli ultimi venti minuti meglio scritti, girati e interpretati di sempre, decide di lasciarci sulle spine, proprio nell’attimo in cui Elizabeth Bennet e Mr Darcy litigano sotto al chiosco regale. Anche nella famosa versione di Joe Wright piove sopra i due (non ancora) amanti, proprio come ha sempre fantasticato Crowley. Ma questo non è un film di Richard Curtis e noi saremo costretti ad attendere il gran finale per avere, insieme ai nostri Ineffable Husbands, quel che loro desiderano ma ancora a stento riescono a dirsi.

C’è forse qualcosa di più autentico di due anime già perdutamente innamorate, ma che maldestramente inciampano nel non-detto? Forse un po’ sciocche, magari ingenue, a tratti disilluse, ma tanto dedite l’una all’altra da non saper cogliere quanto basta per evitare l’inevitabile? Capita agli umani ed è capitato anche a loro, ma non perché siano entità superiori ormai contaminate dalla debolezza terrena, no, al contrario – ed il loro piccolo infinitesimale miracolo condiviso ne è la prova! L’amore è per tutt*.
È per Aziraphale che ricostruirebbe il Paradiso da zero per il suo Crowley, ed è per Crowley che si accontenterebbe del nulla esistenziale pur di viverlo eternamente insieme al suo angelo.


Ecco perché l’altra grandiosa buona nuova di questa stagione, è l’esplicitazione della dinamica (già) amorosa fra Aziraphale e Crowley. Il queerbaiting è una questione spinosa: ci si è infilato (e l’ha cavalcato alla grande) Sherlock BBC, lo hanno corteggiato grosse produzioni targhettizzate come Teen Wolf e Supernatural, ed è, oggi – annus domini 2023 – una pratica produttiva e un’esca narrativa ancora dura a morire. Good Omens non ne è mai stato complice e non ha mai giocato sporco, ma va da sé che l’effettiva canonizzazione faccia saltare in aria un retaggio frustrante e manipolatorio e porti con sé una ventata rivoluzionaria in un panorama dove la rottura delle regole eteronormative (al di là dei pacchetti “a tema”) rimane una rarità, soprattutto internamente a un genere come il fantasy – con la sua epica, i suoi eroi, il suo pathos, la sua portata universale, il suo indirizzo “per tutti”.


Gli ultimi magistrali venti minuti del sesto episodio permettono ai suoi protagonisti di respirarla, l’epos emotiva, la tragedia sentimentale, aprendo tutto un ventaglio di possibilità narrative (pure il concetto del lavaggio del cervello di un’educazione religiosa che acceca e irrigidisce), da cui non vediamo l’ora di essere investite.
Anche perché David Tennant e Michael Sheen non sono davvero mai stati così coinvolti e coinvolgenti.
Se non per noi, fatelo per loro, e correte a recuperare Good Omens 2!
Fiaba & Laura
