Ho sempre avuto un rapporto molto difficile con il Lear – forse non al pari del legame che ha con le sue tre figlie, ma poco ci manca. Tra tutte le tragedie del Bardo, l’ho sempre sentita come la più ostica, complessa, e, a modo suo, più lontana sia nel luogo che nel tempo. Dunque, è da qui che vorrei partire: dalla distanza. Una è quella che ha portato me a vedere Kenneth Branagh nel suo habitat naturale volando direttamente a Londra, al Wyndham’s Theatre, e l’altra è per questa rivisitazione del King Lear, pensata, riscritta, interpretata e diretta dal suddetto, in una confezione arcaica, a tratti quasi biblica. È la tragedia rivestita ad hoc per le generazioni cresciute con Game of Thrones, dicono molteplici recensioni, ed io intendo accodarmi a quest’opinione – ma con parsimonia.

Prima del fantasy storico, il King Lear di Kenneth Branagh calza la tragedia nella sua forma più pura, dove diviene una religione composta di fato e compimenti, i quali, per nascita, conducono ad una rovina impossibile da rifuggire. Il Lear, come l’Antico Testamento, è un’opera crudele stilata per entità divine sotto l’umana forma dell’impreciso e dell’arrogante: non c’è tragedia senza peccato originale, che nel teatro shakespeariano diventa la forza universale contro cui ci si dovrà scontrare, volenti o nolenti, compiendosi in una sicura disfatta. Nella trama che si dipana del re senile e arrogante e degli intrighi di corte, la semplice battaglia per il trono verrà trasformata in una legge del branco, dove azioni ed emozioni primitive fungeranno, non più solo come cruenti attimi di una tragedia spietata, ma come conseguenze quotidiane di una civiltà ostile. Lo vede Dio, quel che fa l’uomo dopo il Diluvio Universale? O può il Bardo porre fine a ogni sofferenza autoinflitta e destinata? Questo non ci è dato sapere, i cinque atti verranno scanditi nel loro corso e come un Primo Motore Immobile, l’ovale vuoto che sormonta il palco è insieme occhio divino e sguardo di nessuno.

Ecco perché l’intuizione di Branagh risulta immediatamente accorta, lungimirante, e la si può osservare in tutti i tasselli che vanno a comporre il puzzle. Si osserverà l’estetica di Jon Bausor – al quale si devono le scenografie e i costumi – per una rappresentazione volutamente neolitica, che trae dall’immaginario per unire Lear, in quanto figura mitologica, e Lir come figura divina, mettendo in scena la storia prima ancora che venisse scritta. La minimale pulizia sul palco permette di ereggere come setting un simil cromlech (strizzando l’occhio al famoso Stonehenge, nel suo simbolismo primordiale e potente), che conterrà le vicende in un involucro stellato – nonché parte più mutabile e cinematografica della scenografia – giostrato tra galassie ed eclissi, o, al bisogno, trasformato in un soffitto di pietra con tracce rupestri. È la Britannia, terra incontaminata, selvaggia e avversa, quando ancora ci si vestiva di pelli d’animale e le uniche armi erano bastoni, corde o grezze lame passate per pugnali. A levigarne l’identità, non mancheranno le battaglie ricalcate in maestose coreografie (al pari del Macbeth andato in scena nel 2013). Aletta Collins non si lascia intimidire dallo spazio risicato offertole dalla produzione, anzi, al piccolo e oberato, fa combaciare l’intimità come opposto al tratto più kolossal della pièce, riuscendo nel connubio tra danze tribali e movenze militari, il tutto orchestrato dalle musiche galoppanti di Ben e Max Ringham.

Una volta assodato il genio dell’elaborazione scelta, possiamo andare oltre e domandarci perché il Lear nelle sembianze di Branagh, non sia l’ennesimo re infeltrito nella boria e sconfitto dalla pazzia. A discapito delle epoche che ci separano da lui, William Shakespeare, come ogni grande penna che si rispetti, non è e non sarà mai inarrivabile – né tanto meno intoccabile (spiace dare questa tremenda notizia agli accademici puristi). Ritorniamo, allora, al tema della distanza e di come basti un battito di ciglia per limitare il distacco dalla sua penna tramite parole sempre attuali e storie visceralmente umane, capaci di dare al nostro mondo uno specchio antico, nel quale potersi riflettere ancora oggi.

Dell’opera sappiamo che il Lear impazzisce nella sua senilità, divorato da un lento progredire della follia e, seppur di malattia si parla, è anche vero che fra le righe, il drammaturgo inglese ama giocare per ambiguità. È sintomo di demenza o è il compimento di una rovina ineffabile, nonché giusto contrappasso per colui che tanto ingiustamente ha maltrattato l’innocente Cordelia e con lei, gran parte della corte?

Sia chiaro, Shakespeare ha sempre utilizzato il germe della follia come moneta di scambio per la narrazione; lo vediamo anche con Amleto e Lady Macbeth, il primo danzando costantemente nel dubbio che lo sia o non lo sia e la seconda, da essa straziata, arriverà addirittura a morirne. Il Lear, per la figura corposa ed emblematica qual è, li racchiude entrambi. Fatalità e realtà però, non si escludono mai a vicenda e Branagh sceglie di prediligere la verità e il decadimento. Ai malanimi famigliari – che portano i clan (Albany, Cornwall e Gloucester) a separarsi – viene ricalcato il realismo della malattia. Non è più solo il personaggio, il cui destino fagocita la fatale tragedia impossibile da evitare, ma è l’umano che non può sopravvivere alla vecchiaia e alla vita, costretto a passarci attraverso.

Allora nello spettatore si insinuerà una pietà, oso dire, innovativa, difficilmente provata in precedenza per quello che è sempre stato rappresentato come il sovrano malato, ma crudele, dalla cui bruttura dell’odio, scivola lento nella perdizione di sé stesso. L’orgoglio di re che lo rende cieco su carta, portando appresso una dose di considerevole astio da parte del lettore (o almeno, per quanto mi riguarda) muta qui, in una consapevolezza grave e patetica della condizione umana. La recitazione corporale di Kenneth Branagh è impattante e abbraccia l’intera forma del gran uomo, capo e leader, fautore di civiltà, dalla forza e aitanza che lo caratterizzava all’inizio, fino all’inesorabile abbandono delle membra nella malattia asserragliante; verso dopo verso, scena dopo scena, ogni brandello della sua identità viene a perdersi, come le parole che arranca a trovare, farfugliando a volte come il vecchio pazzo, altre come l’innocente bambino. È infante davanti alla morte, è giullare sotto la tempesta, è nessuno lungo la brughiera.

Serviva Branagh – con il peculiare studio del deperimento di una simil demenza senile – ad instillare un nuovo tipo di dolore, concreto e patetico, mentre inscena il fantasma di sé stesso e tutto inizia a sgretolarsi intorno a lui. Serviva perché, si sa, la malattia è del malcapitato, ma diventa un peso di tutti; così, come il Re è il focus della tragedia, chiunque gli stia vicino dovrà affrontare le stesse avversità. Lo possiamo osservare in Gloucester (Joseph Kloska), la cui scelta di fidarsi del figlio sbagliato, gli costerà il titolo, gli onori ed entrambi gli occhi. L’unica speranza – sottolineata da un passaggio meta-teatrale molto sottile – risiede nella nuova generazione, nello specifico in Edgar (Doug Colling), il quale partito inerme, diseredato e senza più un nome, maturerà per tutta la tragedia riunendosi al padre e ristabilendo, infine, un precario equilibrio di ritrovata civiltà.

Ma a quale prezzo.

“Speak what we feel, not what we ought to say” afferma alla platea Edgar, prima che il sipario si chiuda per l’ultima volta. Un auspicio e un monito, ed è forse il nuovo credo dell’ultimo giovane sopravvissuto alla mattanza, che può farsi araldo davanti ai corpi ormai senza vita di Lear e Cordelia.

Dunque, parliamo anche di lei, Cordelia, la terzogenita dall’animo semplice ma tenace, interpretata dalla dinamica Jessica Revell (per la pièce anche interprete del Buffone, a dimostrazione delle meravigliose doti attoriali che la contraddistinguono) e che parlando per sé stessa (non per indottrinamento), sancisce la sua fine già nel primo atto. Colei che aveva ancora un destino, un retaggio e un clan con il quale salvare il proprio padre, ma che per volere del fatal tragico, manca d’un soffio la possibilità di sopravvivere – a differenza di Edgar – oltre l’eclisse. Allora, forse diventa una promessa per il futuro – di quelle che servirebbero esser sentite anche dalle nostre dimenticate orecchie – saper di poter parlare per ciò che sentiamo e non per quel che dovremmo dire secondo la compiacenza altrui.

Serviva davvero Kenneth Branagh per ricordarci che non ci saranno mai rappresentazioni di troppo quando si parla di William Shakespeare e che ogni immaginario conta per la passione e l’energia che nasconde nel dietro le quinte.

Ed infine, posso dirlo, è servito a me, per affrontare il Brado in lingua originale per la prima volta e farmi innamorare, di nuovo e al solito, del modo che ha Kenneth d’osservare, capire e raccontare il mondo.

Laura