“Beautiful People Beautiful Problem” by Lana Del Rey playing the background.

Non posso parlare per chi ha esordito dicendo che, di film simili, ne ha già visti a bizzeffe e sono tutti noiosi. Non posso e non intendo farlo. Forse è pure troppo facile da parte mia, iniziare mettendo le mani avanti, ma è quello che intendo fare. Parlo per me, dunque, e so bene che non si tratti dell’unico film, là fuori, capace nell’intento, ma Good Grief è, invero, quel gioiello che ha saputo rendermi partecipe e soprattutto vista nella mia vita da trentenne-e-qualcosa, assecondando un completo giro emotivo a trecentosessanta gradi, senza risparmiarsi mai, ma svelandosi poco per volta con estrema dolcezza. E sia chiaro sin da subito: io e Marcus abbiamo due vite completamente differenti!

Lui festeggia il Natale con il marito Oliver (Luke Evans) – scrittore affermato, uomo dal grande talento e fascino – ed insieme ad amici, parenti e conoscenti, entrambi condivideranno i loro ultimi attimi di vita insieme. Oliver, infatti, morirà poco dopo in un incidente stradale e da qui si svilupperà il resto del film in un viaggio che vuole attraversare il lutto e intende trasformarsi, sul finire, in qualcosa di più. Scoprire in seguito, che Marcus avesse accettato la relazione da coppia aperta per amore del marito, (e più per paura di perderlo che non per onesta scelta personale), sarà soltanto la punta dell’iceberg, che il personaggio di Dan Levy dovrà cercare d’affrontare, non ripudiando però la tristezza che ne deriverà.

Il titolo parla chiaro, eppure in questa storia non c’è solo il lutto da raccontare; quel bene che lo precede coincide con l’elegante e struggente personalità della penna di Levy e la sottigliezza, attraverso la quale il film dimostra d’essere una creatura nuova nel suo genere, riuscendo a svelare un animo intimo e sincero.

  Cos’altro puoi aggiungere, allora, che sia tanto disarmante da colpire vicino casa?

To avoid sadness, is also to avoid love.

Affrontare una perdita alimenta in noi un meccanismo di difesa innato. Come dice Marc, il cervello, in quanto muscolo, ha la capacità di ricordare la vita prima del danno ed è difficile riabilitarlo per una quotidianità diversa, a lui (e a noi) sconosciuta. È la stessa routine che rischia di ucciderci lentamente dall’interno e si finisce per piangere, non solo, la persona amata, ma anche chi pensavamo di essere attraverso i suoi occhi – per quanti segreti essa potesse nasconderci.

Allora il dolore – nonostante ci metta davanti allo specchio e ci mostri il bellissimo caos che noi stessi vi riflettiamo – più che evitato, va vissuto.

Eppure, come sopracitato, in questa storia non c’è solo il lutto, e quel bene che lo precede, è anche il dolore di Sophie (Ruth Nigga), trentacinquenne dall’indole autodistruttiva, che soffrirà la perdita di una relazione sana e stabile; è anche Thomas (Himesh Patel), l’amico responsabile dalle uno-e-mille preoccupazioni per il prossimo, che compiangerà la sfortunata sorte dell’essere sempre la seconda scelta, in amore come in amicizia.

Good Grief non vuole essere soltanto un film che parla della perdita dell’amato, o della solitudine che essa comporta, intende semmai affrontare un dolore generazionale, una solitudine convissuta, il tutto – per gusto estetico impeccabile – racchiuso in splendide cartoline natalizie della città di Parigi, tra una cena e un karaoke, dove tre trentenni devono ritrovare la propria strada (sempre ammesso che quella strada fosse già stata scovata in precedenza).

Daniel Levy – che forse conoscerete per il suo ruolo di David Rose in “Schitt’s Creek”, tra le altre cose – dimostra con la sua opera prima, sia in regia che in sceneggiatura, di saper raccontare con delicatezza e grazia slice of life il cui scopo è quello d’accogliere lo spettatore in una perfetta rappresentazione dell’amicizia adulta – e, ciò nonostante, mai abbastanza matura da sapere come risolvere ognuno i propri disastri.

Siamo stati seconde scelte e fautori della nostra infelicità, abbiamo rifuggito il dolore per poterci salvare senza poi venirne davvero a capo.

  Non fa niente, succede.

Siamo delle broken people, ma è di conforto quando un film dimostra che gli amici (disastrati quanto puoi esserlo tu), saranno comunque lì per raccogliere i cocci e saperseli spartire a turno, cercando di riassemblarsi; è così che ci si salva, sempre insieme, difetti o meno.

  E ci vuole il tempo che ci vuole. Un dipinto dopo l’altro.

Laura

A painting of Marc (Dan Levy) and Thomas (Himesh Patel) by Kris Knight.