My game. My rules. In my own Challengers era.
Luca Guadagnino. Quest’uomo, questo genio, per me maestro assoluto sempre, col suo cinema racconta inconsapevolmente tante mie verità. Talvolta delle verità di cui nemmeno io sono a conoscenza, ma il cinema è anche questo. È il luogo dove posso estraniarmi dalla realtà e al tempo stesso è il posto che mi tiene ancorata con i piedi per terra, perché è in sala che scendo a patti con me stessa.
Challengers, inaspettatamente, contiene tanto di me e mi ha, appunto, portata a mettermi in discussione. Challengers è tante cose. È voglia di vivere, di scopare, di ballare e semplicemente di lasciarsi andare ai propri desideri, pulsioni ed impulsi, nell’oceano della complessità delle relazioni umane.
E l’unica persona in grado di arrivarmi così sottopelle, diretto, senza pregiudizi e timori, viscerale e contagioso, sarà sempre lui. Luca Guadagnino.

2019. Il film si apre su una partita di tennis, in campo si sfidano Art e Patrick, rispettivamente interpretati da Mike Faist e Josh O’Connor (magnifici entrambi). Stanno giocando un anonimo challenger a New Rochelle, New York, e davanti ai nostri occhi prende già vita il triangolo nel quale ci troveremo al centro: seduta in tribuna, perfettamente a metà del campo c’è Tashi (Zendaya, our leader), che con espressione seria e attenta muove la testa seguendo i movimenti della pallina. Non sappiamo ancora che rapporto leghi i tre, da qui si snodano dei flashback dove a farci da calendario sono i tagli di capelli di Tashi. Il montaggio netto di Marco Costa – perché non si tratta solo di un gioco di tagli di capelli per aiutare noi, ma anche di tenere le fila di dinamiche relazionali complicate – ci conduce alla scoperta di una relazione passionale, intima e profondamente erotica.

Quando ho scritto la recensione di Bones and All dicevo che non potevo essere messa nella condizione di poter scegliere il mio film preferito di Guadagnino. È praticamente impossibile, ogni opera è parte di me, in maniera completamente differente. Come è diverso Challengers da tutto ciò che è stata fino ad ora la filmografia di Guadagnino. Questa volta si cimenta nel film mainstream ad alto budget, eppure questo non indebolisce il risultato finale, anzi. Luca Guadagnino si rinnova senza rinnegarsi. C’è sempre tanto di lui, nei movimenti di macchina, nei close-up, nell’attenzione minuziosa sui corpi dei suoi personaggi, sulle loro ferite e cicatrici, sul sudore che cola sulla loro pelle fino a cadere sulla macchina da presa.

Io, forse, sarò di parte, ma Luca Guadagnino non ha eguali. E quando giochi ad un altro campionato rispetto ai tuoi colleghi, l’unica persona che hai da battere è te stesso. E lui ogni volta alza l’asticella, dimostrando quanto non solo sappia comunicare attraverso le immagini (quella soggettiva con la pallina? E quell’inquadratura dal basso del campo da tennis?), ma anche il suo immenso talento nel raccontare le persone senza pregiudizi.

Ed è questo che alla fine mi ha avvicinato così tanto a lui. Il suo modo di mettere in scena desideri, impulsi e pulsioni senza la minima esitazione, senza mai giudicare. C’è un profondo senso di libertà che trasuda dal suo Cinema, in cui è così appagante lasciarsi andare, riconoscendosi e sentendosi perfettamente compresi. La sceneggiatura di Challengers, scritta da Justin Kuritzkes, gli è stata sottoposta dalla produttrice Amy Pascal e Guadagnino ha fatto completamente suoi i personaggi, pur non essendo nati dalla sua penna, e – come sempre – li accompagna nel loro percorso, come un padre.


Il triangolo amoroso è raccontato attraverso la dinamica competitiva del tennis: lo sport diventa un prolungamento della relazione dei tre protagonisti, mescolati così bene al punto che le scene tennistiche sono quasi più erotiche delle scene passionali stesse. David Ehrlich di Indiewire ha definito le prime come dei film porno e le seconde come dei preliminari. Lo sport, in generale, è un ambiente prettamente eterocentrico, eppure Guadagnino – con sapiente naturalezza – riesce a costruire all’interno di un contesto così chiuso una tensione sessuale omoerotica fra i due “amici”; infatti, la vera scintilla non è tanto fra i due giovani e la magnetica dominatrice Tashi, ma letteralmente fra Art e Patrick.

Ed è fortissima quando si stanno battendo sul campo da tennis, fra le pause, quando Patrick sbuccia e addenta la banana osservando, quasi inchiodandolo con lo sguardo, il suo avversario. Per non parlare della scena nella sauna o quando sono nella mensa e addentano i churros con le facce talmente incollate che sembra quasi stiano per baciarsi. Guadagnino ad una domanda in cui gli veniva chiesto se il film sarebbe stato queer aveva risposto “It’s me, so…”. E il finale del film non potrebbe essere più lampante, almeno per me. Perché forse alla fine, il gioco di Tashi non è tanto capire chi dei due può essere l’uomo degno di starle accanto, ma averli entrambi per sé, consapevoli dell’amore che li lega. E perché forse alla fine è sempre stato tutto intorno ad Art e Patrick, e Tashi è la chiave che fa sì che i due realizzino quanto tengono l’uno all’altra. “What makes you think I want someone to be in love with me?”, dice Tashi ad Art.

Challengers, infatti, non è il classico dramma sportivo, anche perché alla fine poco importa chi trionfa nel tennis. L’attenzione è sempre sulla tensione scoppiettante che si dirama sul campo, che va bel oltre la competizione sportiva. Il vero gioco è quello che prende vita fuori da quel terreno rossastro, dove i tre protagonisti si muovono e cercano di prevaricare secondo le regole di Tashi. Perché alla fine è sempre il suo gioco. Tashi come la Catherine di Jeanne Moreau in Jules et Jim (1962), e chi meglio di Guadagnino per citare Truffaut?! Tashi che scombussola l’equilibrio fra il dolce ed insicuro Art e lo strafottente Patrick, ricalibrandolo e portandolo ad un altro livello, facendo scoprire ad entrambi qualcosa che non avevano mai esplorato prima.

E poi c’è la colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross, tracce tecno che martellano le tempie nel modo più piacevole che ci sia, donando ritmo e un’atmosfera da rave party al film. Inserita sempre in momenti precisissimi, conferisce ulteriore tensione – nella maggior parte dei casi sessuale – alla narrazione. Ho un ricordo molto vivido di come fossi già dentro quello che stava prendendo forma davanti ai miei occhi e ogni volta che la musica partiva avevo un sussulto che mi risucchiava ancora più a fondo nell’opera.

Challengers è uno dei film più vivi, pulsanti, arrapanti, adrenalinici e grondanti di energia che io abbia mai visto. E mi piangerà sempre il cuore per la mancata apertura di Venezia80. (Il film era stato scelto come apripista della mostra, per poi essere ritirato a causa dello sciopero degli attori).
Dal 24 aprile al cinema. Andate e godetene tutti.
Marika
