11 ottobre 1975. Mancano 90 minuti alle 11.30 PM e ci troviamo al Comcast Building, 30 Rockefeller Plaza, New York. In diretta dallo Studio 8H. Un San Silvestro del tutto americano.

Diretto da Jason Reitman e co-sceneggiato insieme a Gil Kenan, Saturday Night non lascia spazio ad ambiguità, né incertezze – nonostante queste tematiche siano assai presenti nel caotico sviluppo di trama – prefigge, invece, l’idea chiara, così limpida sin da subito, della personalità che intende mostrare al pubblico. Vuole essere una gestazione immediata, non concepita a somiglianza dei biopic, con le loro noiose didascalie, fatti noti e realmente accaduti (premettendo però, che John Belushi odiasse davvero il costume da ape!); non pretende nemmeno di muoversi per preparazioni devolute al gran finale. Siamo davanti a un film esplosivo, di per sé, vuole sbatterci già dentro La Coda dell’intero Movimento e per farlo, suddividerà in minuti (capitoli) il tempo inesorabile, scandendo la ristretta portata con cui Lorne Michaels (Gabriel LaBelle) dovette mobilitarsi per imbastire il varietà comico e mandarlo in onda.
The show doesn’t go on because it’s ready; it goes on because it’s 11:30.
I costumi sono ancora da riordinare, i set non sono pronti e manca la famosissima pavimentazione in mattoni; quando dico “manca”, intendo che dev’esser ancora buttata giù, cemento e calcestruzzo tutto insieme. Non fatemi parlare poi di Belushi, il quale non ha ancora firmato il contratto! E qualcuno ha forse richiesto un lama?


Se queste sono le premesse, i piani alti del settore, impomatati dentro giacche squadrate e strizzati da cravatte tirate a lucido, con sigaro alla mano e nell’altra un Whiskey, saranno pronti a radiare per direttissima questo folle e balzano gruppo di comici raccattati dalla strada. Dunque, il loro destino è appeso a un filo, così come lo sono le loro vite, le carriere, ma soprattutto i loro sogni. Perché di questo si tratta, ventenni pronti a mordere una possibilità d’oro, ragazzi che trasudano energia e voglia di mettersi in gioco per amore della propria arte (e qualche follia ad accompagnare). Il registro con cui si vuole parlare del cast originale è innegabile, conciso alla stregua dei topos fiabeschi dove il reale diventa emblema universale. Attraverso la grazia dello sforzo, l’implacabile speranza di una generazione – che, seppur data l’incertezza della riuscita, sapeva ne avrebbe ricavano soddisfazione – diventa il motore a scoppio, con cui far progredire l’intero film. È in atto una rivoluzione, di cui l’America è ancora l’oscuro, ma che avrebbe ben presto riscritto le regole della televisione rendendo il Saturday Night (Live), non solo un appuntamento fisso imperdibile, ma anche un’istituzione. Per caratterizzare questo tumulto, il direttore della fotografia, Erik Steelberg mantiene la camera a stretto contatto con LaBelle inseguendolo per tutto il dietro le quinte, dagli ascensori alle camere del suono, dai corridoi ai camerini dei comici. Reitman si sorkin-izza – da Aaron Sorkin, passatemi il termine – per intrecciare i dialoghi, calcolati in tempi comici, con le frenetiche azioni condotte dai personaggi. A rendere più magica l’atmosfera del mito, la scelta di filmare in 16 mm offrendo alla palette tipica degli 70 una consistenza granulosa, profonda, decisamente più accogliente del normale.


Un film che cade a pennello, se si considera che il prossimo anno, il Saturday Night Live spegnerà ben 50 candeline. La pellicola di Reitman, difatti, gronda nostalgia a ogni frame e, tra le tante scelte citazionistiche, sicuramente spiccano le ricostruzioni peculiari dei primi sketch comici, ormai degni dell’Archivio. Il cast originale è qui una rosa di volti giovani, alcuni più conosciuti di altri e con più o meno spazio offerto dalla sceneggiatura. Oltre a Lorne Michaels – sempre seguito dal fido Dick Ebersol (Cooper Hoffman) – abbiamo un già arrogante Chevy Chase (Cory Michael Smith spaziale!), il burbero John Belushi (somigliantissimo Matt Whood!), un fascinoso e chiacchierone Dan Aykroyd (Dilan O’Brien dall’ottima recitazione fisica) e Garrett Morris (Lamorne Morris capace nella comedy come anche nel melodramma).


A sorpresa, emerge anche il nome di Jon Batiste, vestendo i panni di Billy Preston sul set ed eccezionalmente, occupandosi della soundtrack a cornice del film; un tratto specifico dell’opera, questo, che ne ingrossa la personalità, usufruendo del Jazz nella sua forma primordiale – fatto di rumori imprevedibili e suoni astratti, più che di melodie, perfetto per rincorrere il tempo e abbracciare il caos di cui si fa portavoce. Il film è eccessivamente corale, tanto da voler parlare a chi, la lore del SNL, la conosce come i versi della Bibbia e sa bene quali soap operate si celassero all’ombra dei riflettori. Altri tra i tanti, Andy Kaufman e Jim Henson (i cui volti sono entrambi di Nicholas Braun), Anne Beatts (Leander Suleiman), Billy Crystal (Nicholas Podany), Jacqueline Carlin (Kaia Gerber), George Carlin (Matthew Rhys), Alan Zweibel (Josh Brener), Milton Berle (J.K. Simmons) e Dave Tebet (Willem Dafoe). Solo per citarne alcuni.

Arriviamo però al tasto dolente del film, diretta conseguenza dell’infinita lista di A-guests sopra indicata. Il cast femminile subisce il taglio peggiore, sia in presenza che prominenza. Per offrire maggior screentime a Rosie Shuster (moglie di Lorne ai tempi del lancio e qui interpretata da Rachel Sennott), vanno a perdersi nel babelico sfondo, personalità come una Gilda Radner (Ella Hunt) qui troppo delicata, quasi evanescente, in netto contrasto con la forza della natura qual è stata realmente, e con lei seguono lo stesso destino la bella Jane Curtin (Kim Matula) e Laraine Newman (Emily Fairn). Tuttavia, come si era sottolineato nella premessa, non si tratta di un biopic, ma della fabula di Reitman e nel suo sussistere, funziona ugualmente. È un piccolo gioiello incastonato tra spazio e tempo e offre al suo culto, la (dis)sacralità che lo ha reso la pietra miliare di oggi. Saturday Night è mito che racconta sé stesso e sa di esserlo; perciò, ogni passo condotto verso la prima messa in onda diventa a modo suo epico. Gilda Radner chiederà a gran voce una foto sul palco, poiché “Dopo stasera niente sarà più lo stesso!” e sta esattamente lì, tutta la consapevolezza che il film ha di sé.


In lei, come anche in Belushi, vengono volutamente racchiusi i Fantasmi del Natale Passato che sotto le luminarie della pista di pattinaggio al Rockefeller, immaginano come sarà, tra vent’anni, portare in quel posto magico i propri figli – e ritraendo loro, i due comici del cast originale morti prematuramente, si attua, senza mezzi termini, una stilettata crudele, ma che, di nuovo, avvalora l’aspetto malinconico di cui Saturday Night vuole farsi carico.
In ultimo, seppur non meno importante, questa nostalgia diventa – per osmosi – metacinematografica. Non si tratta soltanto di una realtà epica riscritta, o dell’anniversario di un programma televisivo; il contraccolpo inaspettato, è quello di sbattere in faccia a chi guarda, l’immagine di un’industria (d’intrattenimento o meno, cinema e televisione) che non esiste più. Un macchinario che ha smesso di parlare per azzardo o di creare per tentativi; una macchina la quale, nonostante le minacce dei produttori finto-perbenisti, permetteva alle giovani generazioni di urlare le loro idee o di fallire nel tentativo di esprimersi.

Ogni scusa è buona per creare nello spettatore un senso di mancanza e affetto insieme mischiati. Si percepisce quanto sarebbe stato grandioso nascere a ridosso degli anni 70; lo senti, il peccato di non esser stati presenti durante la rivoluzione, quando un gruppo di scapestrati ha deciso di metterci la faccia e impegnarsi affinché il linguaggio, non solo comico ma anche televisivo, venisse riscritto per sempre.
Per apprezzare totalmente Saturday Night bisogna forse esser capaci d’abbracciare la punta dell’iceberg senza chiedersi cosa si celi al di sotto, accoglierne i piccoli difetti o mancanze, che dir si voglia, elaborando così la stessa filosofia che ha dato origine al progetto (sia del film che del varietà televisivo). Gettarsi nel caos e vedere ciò che può accadere: strizzare gli occhi, stringere i denti, o al massimo “Vi cancelleranno dopo una puntata”.
È forse tra le malinconie più feroci, sentire la mancanza di qualcosa che non si è vissuto mai; eppure, per 109 minuti, vi sarà concesso di farne parte, vivere il momento e, come dice la Gilda Radner di Hunt, nell’attimo esatto in cui accade, cristallizzarlo nella memoria per sempre.
Laura