Anno nuovo, omicidio nuovo! Così avevamo lasciato il nostro trio, alle prese con le recensioni scaturite dal musical di Oliver Putnam (Martin Short), quest’ultimo felicemente accompagnato da Loretta Durkin (Meryl Streep) nuovamente seduti al piano; Charles-Haden Savage (Steve Martin) single, ma più fiducioso in sé stesso e Mabel Mora (Selena Gomez) con ancora qualche nodo da districare nella sua vita di giovane millennial. Ciò che i tre non sapevano ancora, era, invece, quel che la serie aveva mostrato a noi, prima di concludersi sul gran finale: una Sazz Pataki (Jane Lynch) cecchinata nell’appartamento 14C dove stesa a terra, in un ultimo rantolo, guardava la telecamera ormai inerme.


Come il numero che la contraddistingue, la stagione parte in quarta e ancora prima di scoprire l’ennesimo omicidio nel palazzo, i nostri sono chiamati a Hollywood. È in preparazione un film sul loro podcast e questo combacia con le pretese dei tre di farsi un nome o ricavarne profitto. C’è chi vola verso la costa ovest per soddisfare il proprio ego ferito dalla prematura cancellazione di Death Rattle Dazzle, chi da, infallibile attore, può dar loro consigli e chi, ancora senza casa e lavoro, spera nella svolta di poter ottenere entrambe. A seguirlo da anni, si sa, Only Murders in the Building è tante cose, una tra queste esser l’emblema dell’assurdo e del linguaggio metacinematografico. Con una stagione che parla del cinema per il cinema, tale aspetto supera sé stesso in un gioco del doppio, introducendo interpreti per il trio (Eugene Levy come Charles, Zach Galifianakis come Oliver, Eva Longoria come Mabel) e aggiungendo gli stunt-double nel dietro le quinte, sia di scena che di trama. Dopotutto, essendo Sazz Pataki la vittima della stagione, aggiungerei che l’importanza data alle controfigure sia stata onorevole, nonché d’obbligo.



L’immersione nella settima arte è totale; lo si può notare, ad esempio, dai titoli scelti per ogni episodio: Once Upon a Time in the West, Two for the Road, Adaptation, Blow-Up, Valley of the Dolls, Lifeboat, giusto per citarne alcuni… Tanto per chiarire, non saranno le uniche citazioni inserite dagli autori, decisi, semmai, ad ingrossare la già tanto variopinta personalità dell’universo arconiano. La stagione, che si prefigge essere la più cupa finora, conduce a scelte inusuali e a virtuosismi di stile decisamente inediti per la serie così come siamo abituati a conoscerla. Il tutto orchestrato per rammentare allo spettatore, che una regola fondamentale è stata appena infranta: chiunque può esser ucciso, anche la più vecchia e cara amica di uno dei protagonisti.

Il primo episodio si apre sulle scene iniziali di Once Upon a Time in the West e tutta la sua costruzione sarà devoluta al citazionismo per scrittura, luci e ombre, fotografia e soprattutto una peculiare colonna sonora (sempre sia lodato Siddhartha Khosla!) che riconduce alle note famigliari prima e angoscianti poi, rifacendosi alla sapienza del nostro Ennio Morricone. Il trio sarà occupato con inceneritori e resti (quasi)umani. Al suono di un’unica singolare nota – assordante al suo cadenzare senza tregua, infestante nella ripetizione – la realizzazione di quanto accaduto, comporterà la stessa esecuzione di un Sergio Leone, lasciandoci a bocca aperta.




È dunque essenziale procedere focalizzandosi sul trio, partendo però dal personaggio di Steve Martin – che dei tre, è il meglio gestito attraverso uno studio più delicato e indicativo. Anziché elencarne le sfortune, vi invito a osservare la resa di ciò che lo circonda. Nell’episodio successivo, è costretto a lavar via le ceneri della propria amica, rediviva, non solo nei flashback, ma anche ricorrente nel subconscio e nei sogni che animano le sue notti. Sono le fasi del lutto che deve affrontare e nelle quali, Charles dirompe nella malinconia più tenera. È dalla prima stagione che abbiamo imparato ad apprezzarlo per questo, ma stavolta è diverso. C’è qualcosa di più, come il lasciar scivolare via i resti della miglior amica, mangiandosi le imprecazioni, mentre, con gesti sbadati, perde compostezza di sé, ogni ordine, ogni certezza. Non a un caso, tutto ciò che lo riguarda, in questa stagione, ricalca le epifanie di Fellini, dove, attraverso l’onirico si apre il cuore a un dolore immenso, facendo entrare nell’animo anche i sensi di colpa per quanto successo. Così, accompagnato dalle composizioni musicali dedicate al personaggio di Sazz Pataki, Steve Martin sfila tra la realtà e un sogno in bianco e nero rincorrendo chi non potrà più avere al proprio fianco.


C’è così tanta tristezza e umanità in così poche scene da restarne spiazzati. Il neorealismo italiano si spreca in una sintesi tanto puntuale; eppure, vi è anche spazio per l’enorme rispetto della materia da cui si attinge, al punto da innalzare il ricordo della vittima come mai si era fatto finora.


C’è forse da ringraziare lo stesso Martin, che certamente non ha mai smesso di studiare il personaggio rendendolo suo su molteplici aspetti. Altrettanto importante è il ricongiungimento con la sorella (Melissa McCarthy, altro nome altra guest) – aggiunta personale che si rifà alla biografia dell’attore comico – e attraverso cui la serie mette in scena una presa di coscienza: ciò che essa rappresenta nella sua interezza e quanto questo significhi per il pubblico da casa. Un podcast che parla di come i vicini vengano uccisi, esterna lui, ma lo fai sembrare così accogliente, rincara la dose lei. Il resto, mi viene d’aggiungere citando un’altra grande serie, sono solo confetti.

A onore del vero, va detto però che, per quanto sia rimasta soddisfatta di Charles, un po’ meno vale per le scelte apportate allo sviluppo degli altri due. Nulla di grave, ma ritengo onesto doverlo esternare per offrire un punto di vista diverso dal coro. E sia messo agli atti che non detraggo i complimenti a Martin Short in quanto attore formidabile, semmai intendo avvalorarli, ma sarebbe un ripetersi inutile, dopotutto, sono tre anni almeno, che il pubblico lo urla a gran voce (e con ragione!).
Oliver Putnam. Pazzo, meraviglioso, frenetico e fastidiosissimo Oliver Putnam. Il nostro regista si trova sballottato da scelte narrative che, per necessità (non per senso di esistere) lo trasformano nella versione peggiore di sé (umoristicamente parlando), dando sfoggio delle sue esuberanti insicurezze. Negli anni, già ne avevamo avuto qualche piccato assaggio, ma nessuno si sarebbe aspettato molto rumore per nulla nei confronti di una relazione lasciata, nella terza stagione, a un livello di (sana) stucchevolezza, tanto da non farcene, lì per lì, preoccupare. Certo, la distanza può affaticare due innamorati e non è sicuramente facile stare l’uno al fuso orario dell’altra, ma da questo, al diventare una simpatica red flag ambulante, ce ne vuole! Comunque sia, per ogni incidente è richiesto il suo sviluppo e non ci vorrà molto per comprendere la ragione di tanto trambusto. Ci vuole un certo smuovere di acque per riportare Meryl Streep sul set; nel primo episodio (con la scusa di volare a Hollywood per il film, così che Oliver possa rivederla), nell’episodio 7 (costretta a tornare perché il fidanzato l’avrebbe piantata via sms a ciel sereno) e infine, nella season finale per l’attesissimo evento, il loro matrimonio (nonché il più grande spoiler, che potessero farsi volutamente sfuggire dal dietro le quinte).


Date tali premesse, sostenere che il personaggio di Martin Short stia perdendo sé stesso – così come ho letto in giro – è esagerato, ma nemmeno troppo lontano dalla realtà. Meglio ancora sarebbe chiedersi perché a molti ha dato questa impressione nel susseguirsi delle puntate, piuttosto che credere siano solo pochi eletti, quelli capaci di comprendere le tenere stramberie del personaggio (come se non fossimo tutti qua da quando scambiava Charles per Scott Bakula…). La ridondanza – che parte dalla creazione di un account fake su Instagram e giunge alla catfight tra Streep e McCarthy – è di per sé, pesante. Anche la storyline dell’auto-sabotaggio di Charles nella scorsa stagione (con le sue stanze bianche e il matrimonio annullato) lo era stata, perciò non mi duole doverlo puntualizzare una seconda volta.
Cosa non fa l’amore a questi vecchi, dico io! Possiamo solo sperare che, una volta messo l’anello al dito, il nostro regista di Broadway amante degli intingoli, ritrovi pace senza più esplodere in atteggiamenti filler.

Con Mabel Mora, tocchiamo un altro tasto dolente, la cui esigenza d’esser sistemato, è ben più pressante. Se con Oliver siamo davanti all’esagerato che un po’ stagna, con il personaggio di Selena Gomez troviamo ancora parecchia inconsistenza. Sono due stagioni che questa ragazza è stazionata su sé stessa e ancora fatica ad esplorare ciò che va oltre il suo legame con il trio. Se non sono love interests, allora diventano i problemi di una generazione intera – condivisibili, ma nemmeno troppo sviluppati per comprenderne a pieno le complessità. Vuoi per i minutaggi contati, vuoi per le innumerevoli guests acchiappa-screentime, vuoi per una mancanza visionaria di come dovrebbe esser la semplice vita di una millennial, Mabel Mora dopo il tema dei late-bloomer, introduce quello della sindrome dell’impostore e poi nulla più. Presumibilmente, otterrà un appartamento e con i soldi incassati dalla produzione del film, avrà alloggio sicuro per l’avvenire, ma ho come l’impressione che nuove incertezze siano ancora dietro l’angolo per lei. Forse dovrei essere più accomodante con un personaggio che s’impegna a rappresentarmi, ma non nego che sia proprio questa vicinanza ad instillare severità nei suoi confronti – e ne va anche della differenza culturale con cui è scritta, che non combacia di certo a come reagiremmo noi europei, se fossimo nei suoi panni (c’è una lunga discussione costruttiva su Tumblr a dimostrarlo).
Tuttavia, ha ricominciato a disegnare e questa, signorə, è una vittoria per lei come per noi! Ritengo ci sia margine di miglioramento; per farlo però servirebbe tornare alle tempistiche dedicate in primis ai protagonisti e a tutto ciò che li caratterizza.

A tal proposito (ruberia di minutaggio e simili), va fatta una premessa doverosa: esiste una regola non scritta secondo cui i mystery crime possano avvalersi di nomi prominenti, così da ottenere un corredo sul numero dei sospettati – ricordiamo Bette Davis in Assassinio sul Nilo (1978) o Lauren Bacall in Assassinio sull’Orient Express (1974) – ma per Only Murders in the Building giocarsela alle guests sta diventando sua croce e delizia. Per quanto sia una commedia, con qualche accettazione alla parodia, bisogna sempre avere un occhio di riguardo verso il caso e non è mai facile sparpagliare tanti indizi in poco tempo, – ora più che mai, considerando che hanno introdotto pure la macro-indagine del Mastermind nascosto all’Arconia – figurarsi, poi, se si vuole inserire un fior fiore di attori nella giostra oliata e tirata a lucido. “Ora voi state cercando il segreto” diceva Nolan nel suo The Prestige, “ma non lo troverete, perché in realtà non state davvero guardando. Voi volete essere ingannati”, ma la verità è che noi vorremmo vedere attraverso il fumo e va da sé che il genere lo richieda o non avremmo l’intrigo della collana alla Christie*1 come topos del diversivo, ma bisogna chiedersi, ancora una volta, quando sia bene fare un passo indietro prima che si rasenti il limite. Non fraintendetemi, per la A-list che hanno sfoggiato, gli equilibri sono stati mantenuti, tutto sommato, abbastanza bene e le controparti attoriali interferiscono sì, ma anche al fine dell’indagine – formando un gruppo d’investigatori al pari dei Vedovi Neri di Asimov – ma, a quattro anni dalla messa in onda, non è un reato chiedersi che fine abbiano fatto vecchi personaggi del circuito e se non sia meglio riportare loro su questi schermi, piuttosto che aggiungerne (così tanti) di nuovi ad ogni stagione.

Come se la quantità non fosse già massiccia, Only Murders mette il carico da novanta e non si risparmia sulla qualità – non che avessimo dubbi a riguardo. L’anno scorso, hanno primeggiato con il musical, dunque perché non scalare una nuova vetta in ambito tecnico? Bisogna per forza citare l’episodio-emblema di simile prodezza, iconografia di queste sperimentazioni, il cui titolo rende omaggio al nostro Antonioni. Sto parlando di “Blow-Up”, i trenta minuti che vi cambieranno la vita, dedicati alle registe Tawny (Siena Werber) e Trina Brothers (Catherine Cohen) aka le Brothers Sisters – a sfottò di qualche altra casa di produzione di nostra conoscenza, che non sia la Paramount (le cui veci sono calzate da una scoppiettante e imprevedibile Molly Shannon con la sua Bev Melon).


Attraverso un connubio di telecamere e cambi di montaggio amatoriali, la puntata sfila decisa a sorprendere anche lo spettatore più annoiato. Stilisticamente ineccepibile, l’elaborato è stato pensato ad un solo scopo: quello di vincere l’Emmy (Outstanding Picture Editing For a Single-Camera Comedy Series), che quest’anno è andato a “Sitzprobe” della terza stagione. Tra mockumentary e real life si giostra con riprese che vanno dalla livecam di un computer, alle telecamere di sicurezza piazzate agli angoli dell’Arconia, dal punto di vista di una Super 8s a quello di un drone, tutto montato con sapienza per ottenere un senso coeso di puro intrattenimento e caos. Tale è l’azzardo, a tanto si saggia la materia da trovarci davanti a uno degli episodi più creativi e innovativi che si siano mai visti in televisione.
Ed è così che la materia diventa, ancora una volta, cinema.



Tra alti e bassi e per quante se ne siano dette sopra – mi sono davvero lasciata andare, scusatemi e grazie se siete arrivati fin qui a leggere – Only Murders in the Building resta, senz’ombra di dubbio, il titolo del momento. Una serie che non teme di osare in un periodo in cui la fantasia scarseggia con l’urgenza di marcare il cartellino a suon di visualizzazioni. Fa tutto questo plasmando la propria personalità in contrappesi diversi, scelte a volte difficili da seguire – o accettare – ma non perde mai di vista la bussola con cui ha iniziato il viaggio.
Once you get over the hump of how many murders can happen in one building, you’re really stepping back and looking ultimately at the true original concept, which is three lonely people in New York City brought together by a common interest in true crime.

Questa serie, dopo i suoi scompigliati raggiri, tornerà sempre a farci da found family e non sarà importante il come, che sia per caso, legati da una passione, o perché un vecchio professore ha visto in voi il potenziale di un’unione. Ci insegna, con il bene del quotidiano e il dolce-amaro del vissuto, che esistono tanti modi per dire “ti amo” (“You’re my emergency contact”, “Charles, you’re my ride or die”); che sì, scalda davvero il cuore, la tenerezza con cui Oliver e Loretta si siano trovati in età avanzata per rendersi felici l’un l’altra, ma è altrettanto importante e commovente, che resti l’amicizia, la forza centrifuga sempiterna di questa epopea.


It’s about found families fighting together for their survival in waters that can be really tough to get through, if you’re all alone.
Nonostante stia diventando difficile accettare le dipartite delle vittime che lasciano questo treno, esse resteranno presenze costanti nella vita che hanno saputo migliorare – soprattutto quella di noi spettatori. La magnificenza di Jane Lynch verrebbe svilita nel tentativo di parlarne ad oltranza, poiché ha toccato corde profonde i cui sentimenti, onestamente, vanno preservati al silenzio del rispetto e alla contemplazione del ricordo. Sazz Pataki era gentile con tutti, da donna forte e irriverente, non ha mai smesso di credere nel suo numero uno – più di un’amica, come una sorella e un angelo custode – e l’eroe, che l’ha ispirata alla scrittura e al tentativo di grandezza, abbraccia ogni suo pregio (e difetto) per farne leva di forza e tornare ad essere l’uomo d’azione (e comicità), così come lei aveva imparato a conoscerlo da sempre.
Sa di conforto vedere come, su quella spalla, allungata e leggermente spigolosa, al tap in della stuntman, abbia preso posto il cenno del vicino estroso e petulante. Perché si hanno tutti e tre a vicenda, senza porsi limiti, camminando pure sul cornicione del quattordicesimo piano, quando richiesto.
Oggi come allora, Charles, Oliver e Mabel si sono trovati così; Charles e Sazz si sono trovati così.
Per quanto imperfetti potremmo sentirci, saremo sempre le versioni migliori di noi stessi agli occhi di chi ci percepisce davvero, perché l’amicizia è questo e la nostra persona non mancherà di scriverci un lieto fine anche dall’aldilà.
Laura


- Con l’intrigo della collana si intende una sottotrama che aumenti la complessità del caso ma che del caso stesso abbia poco a che fare – mantenendone comunque la matrice criminosa. Una volta risolto quello, l’indagine cardine assume una linearità, se non facile alla soluzione, certamente più onesta e fattibile agli occhi del lettore/spettatore. Così come accadde per il gioiello rubato e falsificato nel romanzo “Death on the Nile” della Christie. Per Only Murders in the Building gli esempi potrebbero essere i Dimas nella prima stagione e il quadro di Rose Cooper nella seconda. ↩︎