Immaginatemi ad Arkham (e voi direte, oh bene, questa è finalmente uscita pazza, ce la leviamo di torno!). Entra in scena qualcuno con un camice – certamente non un medico qualificato o al massimo, qualora lo fosse, abbastanza corrotto da fregarsene del Giuramento di Ippocrate. “Vostra figlia sta bene” direbbe allora, giusto per soddisfare l’immagine, dando al meme in circolazione, una sua narrazione, “Ritiene soltanto che Gotham City sia casa sua”. Si ride e si scherza, ma è proprio così che mi sento, quando l’universo di Batman viene affrontato al meglio nel suo totale (non) splendore. A onor del vero, nel 2024 è ormai difficile sbagliare la trasmutazione, su pellicola, della materia ideata da Bob Kane e Bill Finger, ma andarci ugualmente cauti con le aspettative, è mera prevenzione. Comunque sia, il problema non si pone, poiché avendo Matt Reeves al timone, noi fan del crociato incappucciato possiamo continuare a dormire sereni la notte.

Sono reduce dalla visione di The Penguin – serie spin-off di The Batman (2022) dedicata all’Oswald Cobblepot di Colin Farrell e ideata da Lauren LeFranc (di cui è anche sceneggiatrice) – e un primo onesto pensiero, devo ammetterlo, mi era balzato alla mente: quando si tratta di appendici nate per arricchire una matrice, nessuno si aspetta mai un prodotto impattante; eppure, anziché smorzare i motori in attesa del progetto successivo, nonostante si sia appena conclusa, The Penguin ha fatto sì che essi si incendiassero in un conclamato boato d’impazienza da parte del pubblico.

Con i comics di Jeph Loeb in una mano e I Soprano dall’altra, LeFranc conferma in più interviste d’essersi avvicinata alla serie con un’idea ben precisa: la prima impressione tutto voleva essere, fuorché cine-comica. Tolti i diritti DC Studios e Warner Bros. che ne sottoscrivono la paternità, The Penguin viene concepito per il grande pubblico – non solo per gli amanti dei fumetti – e per ottenere questo risultato, bisogna fargli calzare scarpe a misura di noir e crime, mischiati con un (dinamitardo) briciolo di genere gangsta. Niente di più ispirante può aiutare però una penna affilata come quella che impugna LeFranc, se non proprio la saga stessa del Lungo Halloween (vi indirizzo qui, giusto per darvi un’idea), un ciclo che sta progredendo tutt’ora con, in aggiunta, altri fumetti da cui poter attingere le origin stories dei cattivi di Gotham più iconici; tra loro, ovviamente il nostro Oz (di cui riporto due esempi recenti: The Penguin: The Prodigal Bird di Tom King e Batman: One Bad Day — The Penguin di John Ridley). L’idea di sfornare un’origine del male in otto episodi è ottimale e diventa allettante quando, nel processo, intende prendersi il giusto tempo per lievitare in un’integrazione che comporterà certi sviluppi nel futuro del Reevesverse. Piantare le fondamenta sulle spalle di Colin Farrell poi è voler vincere facile, ma a noi non tange, perché la qualità non viene meno. Che ve lo dico a fare, lui completamente irriconoscibile nel trucco e nel parrucco, lo puoi distinguere dalle mani e nei suoi gesti, negli occhi tremendamente espressivi e nella voce camuffata, ma la sua interpretazione non pone margine d’appiglio. Un Oz Copp per una nuova Gotham; sempre la stessa di cui non saremo mai sazi. Basta questo per inchinarsi davanti tanta bravura. Una carta simile non la sprechi, semmai, le offri terreno fertile per giocarti l’intera mano. Dopotutto, Farrell ha già ammesso che il suo Pinguino avrà qualche scena corposa in The Batman Part II, perciò tutto procede secondo i piani – meno gli spoiler forse, ma quelli non sono colpa mia! O scaricherò il barile esattamente come farebbe Oz, un ratto – più che un pinguino – per la capacità innata (imbellettata di sfacciata fortuna) di sapersela cavare anche nelle situazioni peggiori!

Quando si tratta di Gotham, non vi è una regola lineare o scritta per ottenere la vittoria; porsi sul podio darebbe gli stessi risultati di quando si tenta di catturare il fumo. Fin dal primo episodio con Oz Cobb ci viene mostrato che molto spesso, i guai derivano dalle sue azioni, per essere più precisi, dalla sua impulsività – facile da stuzzicare, soprattutto quando lo si ferisce sull’ego minando l’autostima. Per ogni passo falso, il Pinguino ne fa altri due azzardati ed è così che comincia un doppio gioco triplicato, dove, a momenti, viene da chiedersi come lui, in primis, sia capace di ricordare tutte le balle che va dicendo al prossimo. Se trova un buco ci si piazza, se deve suscitar pena e compassione, li alimenta e quando viene smascherato, non ci mette mezzo secondo a svignarsela pur di salvare la pellaccia. A questo vilipendio condotto sotto la luce del sole (quando il meteo è clemente), viene contrapposto un Oz più intimo e morbosamente tenero nei confronti della madre, Francis Cobb (interpretata da Deirdre O’Connell); la genesi che riguarda entrambi è ben più oscura di quanto si possa immaginare – a meno che non si conoscano già i propri polli, allora sarà solo un confermare l’ovvio…

Al protagonista si affiancano altre pedine, tutte con i loro schemi e storie, poiché, a Gotham, ricordiamolo, le ascese al potere non sono tutte uguali. Non saranno limpide né facili da ottenere, perché, quanto è vero che il bene perisce sotto la cupola della corruzione, va da sé che il male non perdoni; perciò o lo addomestichi rendendolo tuo, o ne verrai divorato (che sia letteralmente o metaforicamente diventa un testa a testa). Per quel che vale, di rivalse ce ne saranno poche e mai che tornino indietro senza prima aver richiesto lo scotto. Complesso rivendicarle come proprie, tanto che, se un patriarca mafioso come Salvatore Maroni (Clancy Brown, un’aggiunta di tutto rispetto) ti muore d’infarto davanti agli occhi, ci sarà qualcuno che pur di recriminare, scaricherà la pistola su un corpo ormai morto. Gotham funziona così: ti prendi la coscia spolpata e ti senti il re del mondo. Poi inizi a comportarti come tale e vedi che succede.

 Per leggere questa serie in maniera viscerale, forse è necessario sezionarla in tre parti e capire il funzionamento sociale della città. Quando hai tutto e sei all’apice, è molto probabile che dall’eccesso provenga il tradimento fatale; quando non hai più niente, Gotham ti reclama e come la malavita diventa l’unica via per sopravvivere, non appena dimostrerai d’avere ancora un barlume d’umanità, sarà essa stessa a toglierti di mezzo; se parti dal poco, invece, con mezzi subdoli e ambigui, facendo dell’esser macchietta il tuo punto forte, è probabile che ci arrivi, alla vetta, ma dovrai sacrificare quel poco, ormai diventato un tutto ossessivo, senza il quale la vittoria assumerà un sapore amaro.

Sono rispettivamente Sofia Falcone (poi detta Gigante in onore della madre), Victor Aguilar (la vera vittima sacrificale, il topos, per chi ha orecchie intenda, della gioventù perduta, di cui Gotham non smette mai di cibarsi) e ovviamente lui, il protagonista, Oz Copp.

Con la prima, Cristin Milioti fa un lavoro spettacolare di trasformazione e alterazione dove, fragilità e potenza trovano un connubio in ogni suo aspetto – anche se, amo conferire tutto il magnetismo nel suo sguardo ampio e disarmante, dagli occhi febbrili che hanno visto troppo e subito di peggio. La sua Sofia Gigante parte tenera come un fuscello, non innocente, questo mai, ma certamente troppo ingenua per capire quando proteggersi da una famiglia, che non batte ciglio nel sacrificarla a capro espiatorio. A questo punto, due sono le cose: o Gotham (Arkham, nel suo caso) ti spezza, o trovi il modo di piegarti per rialzarti. L’ultima opzione, per quanto sia sopravvivenza e dunque un’insolita vittoria, ti cambierà nel profondo. Ritorna alla vita con la forza vendicativa di una foresta intera e avrà la rabbia lenta delle frane portate dal fango. Il problema insito, però, è quello di nascere marchiati e vivere in una società che non permette nessun transito, nessuna rivalsa e lei ne diventa il lampante esempio quando, dopo tanto penare, viene nuovamente rispedita ad Arkham.

È ovvio che non sia stata pronunciata l’ultima parola – i frame che chiudono la serie, sono assai esplicativi – però intanto, lasciamo Sofia Gigante ancora in una cella e se è pesante accettare una simile chiusura, ci strazierà il destino di Victor Aguilar. La dolcezza di Rhenzy Feliz non muore mai, né dopo che è rimasto orfano a causa degli eventi accaduti in The Batman, né quando inizia ad ingranare la marcia per muoversi nel mondo di Oz. La sola differenza sta in lui, che cerca una nuova famiglia pensando d’averla trovata e nel Pinguino, il quale per difendere i propri tornaconti, non ha più remore nel recidere l’unico sano legame che gli era rimasto.

A Gotham tutto è causa effetto e nell’ingiustizia con cui essa si muove, non sarai mai la spinta che crea il primo fattore, ma ti ritroverai sommerso dalle conseguenze altrui. Era l’ultima imperdonabile azione richiesta per innalzare Oswald Cobblepot sul trono. Un palco freddo però, privo di ogni soddisfazione, tanto che il nostro protagonista dovrà accontentarsi di una pantomima di un’escort per sentirsi dire dalla madre quanto sia orgogliosa di lui.

È tutto un prendere e togliere. Nell’ascesa di cui siamo stati testimoni, l’unica regola in attesa sono i conti in sospeso e sul finire avremo ancora una volta Gotham City come unico Dio a irretirli tutti. Con la sua scostumatezza, il vizio, le sue piogge acide, la sporcizia e le luci sfavillanti dei quartieri alti che ammaliano i poveretti senza speranza, una ancora s’innalza e non sarà una chimera, ma un monito di minacciosa giustizia.

Laura