Può il musical, come genere, trattare qualsiasi tema?
Si può musicare anche ciò che non è pulito e sognante? Qualcosa che tratti di realtà senza la patina del fiabesco e ne possa colorare le note graffiando con rabbia lo schermo, anziché ammorbidirlo di perfetta bellezza? Emilia Pérez (2024), che di bellezza ne ridefinisce i canoni, vince a Cannes il Grand Prix per l’interpretazione femminile, equamente condivisa tra le attrici protagoniste Karla Sofía Gascón, Zoe Saldaña, Selena Gomez e Adriana Paz, e giunge così a noi, apposta per rispondere a questa domanda.

Liberamente ispirato al romanzo “Écoute” di Boris Razon, il film di Jacques Audiard vuole essere un esperimento sin dai primordi del progetto. Emilia è una donna transgender che, prima della transizione, gestiva il vertice d’affari del cartello messicano; successivamente, chiederà aiuto all’avvocato Rita Moro Castro (Zoe Saldaña) per compiere l’ultimo importante atto che la porterà ad essere finalmente sé stessa. Prima però dovrà costringere la sua famiglia – la moglie Jessi (Selena Gomez) e i due figli – a fuggire lontano dall’ombra malavitosa del narcotraffico. Le azioni saranno orchestrate da lei sola con la complicità di Rita, consapevole, nel frattempo, che, qualora fosse tornata, tutto quel che era stato prima di diventare Emilia Pérez, si sarebbe dovuto considerare morto per sempre. Pensate, dunque, un boss del cartello, un malvivente, uno dei più temuti, che rapisce un talentuoso avvocato – sprecata nello studio in cui faceva gavetta – non per ripulirsi i soldi, né per difendersi da un delitto conclamato, ma per chiederle, semmai, un aiuto umanitario quale raggiungere il pieno sé, dopo anni d’attesa. I soldi, dice, non sono un problema e infatti è il desiderio che la divora dall’interno, ciò che più la spinge a quest’ultimo atto da boss mafioso e al suo primo significativo come Emilia Pérez.

Karla Sofía Gascón è, ovviamente, la rivelazione di questo film, il cuore pulsante di una voce che brama ancora tanta rappresentazione, anche la più disparata. Avviene così che il musical prenda corpo e in momenti chiave memorabili, sappia discostarsi e riunirsi di genere in genere per abbracciare una personalità caleidoscopica, difficile da incasellare in una singola etichetta. Eppure, Emilia Pèrez è lineare nel suo prendendosi troppo sul serio incentivando la parsimonia prima e l’eccesso il momento successivo. È il gioco che compie per ridefinire il genio mai stagnante, ma, al contrario, febbricitante e pieno di vita.

C’è il brano “Deseo” nel quale Gascón, ancora Manitas Del Monte, strazia l’anima mettendo a nudo il bisogno, il desiderio, di essere così come si è sempre sentita, un qualcuno che il mondo non ha ancora visto né conosciuto e per la cui vita, così com’è ora, non ha senso d’esser vissuta più. Nella sua espressività interpretativa, tenera e totalizzante, Gascón fa dei testi di Camille e delle note di Clément Ducol, la propria iconografia sulla stessa melodia che parla di lei e per lei. C’è il momento della rivelazione a Rita con “Por Casualidad”, che sancisce l’amicizia e la sorellanza tra le due in un gioco di camera virtuoso, ritmato e, nel progredire del film, esso evolve in prodigiosi cambiamenti disfacendo e ricomponendo. Jacques Audiard, non da meno, è un maestro in questo e lo è, sia nell’azzardo che nell’ingenuità – la tipica dell’uomo cisgender, se vogliamo dare adito alle discussioni online – e lo stesso, ne esce volenteroso di creare e narrare ai termini delle attrici che, sapientemente, vengono indirizzate e a loro volta indirizzano.

È difficile trovare una quadra per parlare di questo film nella sua unicità. Se guardiamo a Selena Gomez, sentiamo che è un po’ come tornare al periodo di Spring Breakers (2012), al rischio, al pericolo, al nuovo e allo sfrontato. Un ritorno alle origini per lei, che la consacra, ora più che mai, alla professione di attrice come ha da sempre sognato, non mancando poi dell’impronta filantropica, veicolata nel testo de “Mi Camino”; parole che ha ispirato e scritto per sé stessa come strumento per le donne in ascolto. Se guardiamo a Zoe Saldaña, veniamo sospinti dalla furia, dalla rabbia e dall’energia che il suo cantar spagnolo esorta, tra espressioni furenti e attimi di umana debolezza abbracciati dall’accoglienza.


Le coreografie di Damien Jalet sono l’altro tassello fondamentale a seguire le orme delle protagoniste nel marasma che le contiene. Perché Emilia Pérez non è pienamente un crime, non è totalmente un gangsta movie, non è nemmeno soap, né vuole essere soltanto un thriller dalle pennellate camp e dalle venature pulp. Eppure, con naturalezza, riesce ad essere tutto questo. Siamo davanti a una fusione ben riuscita di Narcos e Pedro Almodóvar, un Lalaland più sporco e violento dove il sogno è quello di trasmutare per farsi e fare del bene. Che questo possa accadere anche ai boss del narcotraffico, – caratterizzati da forti (e a volte tossiche) emozioni con un passato losco alle spalle e derivati da passionali ed eccessive rivolte interiori ed esteriori – è di fatto, il pieno rigetto di ogni discriminazione. La vittoria di tutte le libertà.
Doctor, but let me say I disagree.
Changing the body changes society, Changing society changes the soul, Changing the soul changes society, Changing society changes it all!


Emilia Pérez si svela senza troppa fatica, in totale coscienza di sé peccando d’estraneità, dell’essere e non essere. Ella però ci sfida ad esistere trovando espressione nella forma più pura del musical. A volte il film contorce sé stesso diventando inverosimile e, ciò nonostante, resta vero; altre ancora si fa grossolano, un po’ impacciato, ma rimane vitale. Infine, corre veloce verso l’atto conclusivo per un’apoteosi inaspettata di un disegno più grande.
Tutto questo, è Selena Gomez ubriaca che sfoga nel canto il proprio malessere, è Zoe Saldaña che balla “El Mal” tra i tavoli di uomini corrotti e con furia li giudica uno per uno. È Karla Sofía Gascón che detiene nel palmo delle mani l’amore e l’odio, la benevolenza e la spietatezza, la vita e la morte.


Sono i fucili assemblati al ritmo melodico, strumenti d’orchestra prima ancora che di morte e rivoluzione. Lo sono le litanie funebri della cultura messicana e i cori dei Desaparecidos, scomparsi per la malavita, per la povertà e la disperazione. Infine, lo è Epifanía (Adriana Paz) nelle vesti dell’amore saffico che porta Emilia alla beatificazione finale.
Personalità così estrose da risultare fumose, oscurate dalle luci al neon e installate in una fotografia calda, quasi acida, incastonate in un’arte dinamica e turbolenta – che fatica a riconoscersi nello sguardo altrui, ma concepisce sé stessa con fierezza – non sono sempre facili da comprendere e vengono accolte spesso con biasimo o con critica.

Ben venga questo! Il dibattito è fondamentale laddove il cinema può e deve osare. Mettersi in gioco, inventare, togliere il fiato e allibire anche quando la creatività si maschera d’esuberanza per lanciare il messaggio più semplice. Che sia scomodo e impreciso, il cinema, ma per sempre senza vergogna.
Che sia Emilia Pérez.
Laura
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Distribuito da Lucky Red, dal 9 gennaio vi aspetta nelle nostre sale. Non perdetelo!

