
▪︎ SPOILER ALERT ▪︎
Una citazione ricorrente in Alien: Romulus, l’ultimo capitolo della saga horror del regista/co-sceneggiatore Fede Álvarez, è quella di “fare ciò che è meglio per la compagnia”. La compagnia in questione è la Weyland-Yutani, il conglomerato del futuro la cui avidità e curiosità hanno portato a stragi di innocenti ad opera degli xenomorfi in ogni sorta di missioni spaziali fuorvianti. Tuttavia, in un senso più ampio, Alien: Romulus sta facendo anche ciò che è meglio per la sua società, la 20th Century Studios, essendo il primo film dello studio dopo la sua acquisizione da parte della Walt Disney Company. In quanto settimo film di questo franchise che si è sviluppato nel corso di quasi 50 anni, è comprensibile che la società desideri che questa saga abbia un continuo negli anni a venire, ricordando al tempo stesso al pubblico ciò che ama di questo universo orrorifico. Il problema è che Alien: Romulus ha chiaramente ambizioni più grandi di ciò che gli è stato concesso realizzare, rimanendo bloccato nella nostalgia di un passato (cinematografico) che travolge i concetti più interessanti del film.
Ma andiamo per gradi.

Alien: Romulus ci porta in una colonia mineraria stellare di proprietà della Weyland-Yutani, dove incontriamo Rain (Cailee Spaeny), che sta lottando per scindere il suo contratto lavorativo. Convinta di poter essere finalmente libera di andarsene, riceve la spiacevole notizia che le sue quote sono state aumentate ed ora sarà relegata nelle miniere per altri sei anni, le stesse miniere in cui sono morti i suoi genitori. Sentendosi intrappolata e senza speranza, legata solamente al suo “fratello” androide Andy (David Jonsson), Rain incontra un gruppo di amici e giovani colonizzatori spaziali che hanno un piano per uscire dalla loro terribile situazione. Hanno intercettato una stazione spaziale con camere di ipersonno abbandonata nelle vicinanze, dunque il grande piano è appropriarsi di queste unità e crio-dormire in viaggio verso un luogo migliore: il pianeta Yvaga. Per una persona come Rain, nata e cresciuta in una colonia e che non ha mai visto la luce del sole, Yvaga appare come un sogno, l’obiettivo da raggiungere per poter iniziare una nuova vita.
Rain e Andy, insieme a Tyler (Archie Renaux), Kay (Isabela Merced), Bjorn (Spike Fearn) e Navarro (Aileen Wu) si dirigono verso la stazione spaziale per quella che dovrebbe essere una missione semplice e senza intoppi. Ciò di cui non si rendono conto è che quella nave abbandonata, conosciuta come Romulus, è la nave Weyland-Yutani che catturò lo xenomorfo protagonista in Alien (film capostipite della saga, diretto da Ridley Scott nel 1979). Naturalmente, nulla va come previsto e l’equipaggio è costretto a fronteggiare una minaccia aliena omicida. Rain, Andy e tutti gli altri devono cercare di sopravvivere in questa nave che potrebbe offrire loro la strada verso la libertà, ma che pare essere solamente un’immensa tomba sospesa nel nulla cosmico.


Alien: Romulus, che Álvarez ha scritto insieme al suo collaboratore Rodo Sayagues (già sceneggiatore in Evil Dead e Don’t Breathe), ha un inizio promettente, concentrandosi sulla classe operaia che Weyland-Yutani sfrutta senza alcuna morale per il proprio tornaconto. La colonia mineraria è un luogo desolato, pieno di lavoratori scontenti, intrappolati nello spazio, senza luce, che cercano a stento di sopravvivere. Il franchise di Alien ha spesso messo questi lavoratori in prima linea, ma vedere il degrado della loro situazione e la disperazione nel volerne uscire, non fa altro che aumentare il desiderio di rivalsa che spinge i suoi protagonisti a lottare, pur se questo significa rischiare la propria vita. È un lato intrigante di questo mondo futuristico da analizzare, ma sfortunatamente Alien: Romulus abbandona presto questa esplorazione del capitalismo e di come le aziende prosperano sulle spalle dei propri lavoratori per spostarsi in una direzione più convenzionale per questa saga.

Una volta che l’equipaggio sale a bordo della Romulus, il film adotta il classico stampo alienesco. Álvarez e Sayagues fanno un buon lavoro nel mescolare l’orrore del franchise con l’azione, regalandoci alcune sequenze memorabili, come quella che prevede di evitare l’acido dello xenomorfo in una condizione di antigravità. Ma per quanto alcune scene sanno regalare momenti di disarmante ansia ed adrenalina, rimandando anche alla tensione dei videogiochi, Alien: Romulus spesso si concentra più sulla ricostruzione della storia di questa saga. Sebbene sia ammirevole notare come Álvarez e Sayagues nutrano un profondo amore per questo universo cinematografico e come inseriscano frequentemente riferimenti di ciascuno dei film predecessori, il risultato è una caccia spasmodica ai vari easter egg. Uno degli usi più eclatanti della nostalgia qui arriva in un comeback molto diretto al film originale. Utilizzare il volto ricostruito tramite la CGI di Ian Holm – che ci ha lasciato quattro anni fa – per riesumare l’androide Ash (qui una sua copia), è l’evidente prova che alla novità, alla creazione, si è preferito il riciclo, perdendo l’occasione di farci dono di un nuovo villain, oltre ovviamente al famigerato xenomorfo. Álvarez e Sayagues hanno usato questo film per collegare gli eventi di Alien e Aliens, prendendo in prestito dal passato invece di permettere a questa storia di creare una propria narrativa autonoma. Al di là della sorpresa iniziale di questa rivelazione, è una scelta più che discutibile che la fa sembrare una nota a piè di pagina di Alien invece che il suo stesso racconto.

Ma Álvarez, insieme al direttore della fotografia Galo Olivares, trova una chiave intelligente per la realizzazione del suo film, creando un’atmosfera vissuta che sembra allo stesso tempo futuristica e antiquata. C’è uno strano conforto per lo spettatore mentre sale su queste navi che sembrano stranamente familiari ai fan della saga. Fatta eccezione per il sovracitato riferimento al passato, Alien: Romulus trova un bel mix di CGI ed effetti pratici (ogni creatura aliena è stata animata manualmente, senza alcun utilizzo di computer grafica). Ci immergiamo negli claustrofobici ambienti della Romulus, oscuri e maledetti, costantemente in allerta perché la morte è lì ad attenderli, nascosta nei corridoi angusti, pronta a trionfare nella sua inesauribile caccia all’uomo.


È soprattutto nel terzo atto che il talento di Álvarez come regista brilla più che mai. Utilizza il suo background horror per costruire una forma di disagio insostenibile, prediligendo la vicinanza dei personaggi alla telecamera e, in generale, come quest’ultima attraversa la pelle. Nel corso degli anni, ogni film della saga ha fatto sempre più affidamento su effetti speciali migliorati per evidenziare gli istinti omicidi e i dettagli fisici dell’organismo perfetto (cit.) che è lo xenomorfo. Ma qui, l’alieno è spesso inquadrato in primi piani, nascosto nell’ombra, ogni tanto è solo la sua sagoma ad intravedersi. La creatura è stata realizzata con effetti pratici piuttosto che frutto di una generazione computerizzata, un approccio sorprendente per rispecchiare un aspetto che nel film originale era stato reso necessario da limitazioni, mentre qui induce il terrore della vecchia scuola.


Uno dei grandi ringraziamenti che è doveroso rivolgere ad Álvarez è l’avevi svelato la transizione da chestburster a xenomorfo, mostrandoci il bozzolo – definito ufficialmente cocoon – dove la creatura può raggiungere l’età adulta e il suo stadio ultimale. Questa crisalide ha una forma che ricorda i genitali femminili, d’altronde non è un mistero che l’intero universo di Alien giri attorno alla natura dell donna, dal suo aspetto esteriore al concetto più intimo di maternità.

Altra creazione di Álvarez è l’Offspring, la creatura nata dalla giovane Kay, incinta durante la missione. Per quanto il rimando ad Alien: Resurrection (1997) sia lampante, è bene sottolineare la profonda differenza fra il Newborn apparso nel quarto capitolo della saga e la nuova forma di vita che ha generato il caos nel finale di Alien: Romulus.
Il Newborn è il risultato evolutivo di una contaminazione del DNA umano di Ellen Ripley (eroina della saga originale interpretata da Sigourney Weaver) con quello di uno xenomorfo Regina, e presenta tratti similari a quelli di un mammifero, nonché una propensione a riconoscere Ripley come sua madre e non la Regina che l’ha effettivamente partorito.
L’Offspring, invece, ha origine dall’utero di Kay, incinta di diversi mesi che, poiché ferita, decide di iniettarsi una dose dello Z-01, il Fuoco di Prometeo sintetizzato nei laboratori dalla Weyland-Yutani. Il mutageno agisce così sul codice genetico della prole di Kay, che partorisce un guscio ricolmo di acido xenomorfico che culla il neonato. Quest’ultimo, dotato di tratti somatici umani, presto si evolverà fino a superare i due metri d’altezza, sviluppando delle appendici dorsali simili all’esoscheletro dello xenomorfo e una doppia bocca retrattile. Come l’alieno originale, ha sangue acido, una forza inespugnabile e un istinto predatorio calibrato. L’Offspring è stato impersonato da Robert Bobroczkyi, giocatore di basket alto due metri e mezzo.
Come già precedentemente accennato, l’universo di Alien – originato visivamente dalla mente estrosa di H.R. Giger – vanta palesi rimandi alla sfera intima e fisiologica femminile e quest’ultimo capitolo della saga sottolinea ancor di più l’orrore della maternità. Già solo l’inserimento di una ragazza incinta all’interno del film, è prova che neanche le creature più innocenti sono immuni e al sicuro dalla crudeltà. Per quanto l’intera saga abbia spesso giocato coi simbolismi fallici per rappresentare l’oppressione maschile, è la femminilità a generare il male primordiale. Il facehugger che intrappola la vittima sventurata iniettandogli un’appendisce viscosa nella profondità dell’esofago, il chestburster che dilania la carne e frantuma le ossa per fuoriuscire dal corpo dell’ospite: questi sono solo alcuni dei riferimenti ovvi all’atto dello stupro, orrore che ogni donna oggigiorno spera di non dover vivere mai. È la minaccia della brutalità patriarcale a renderci fragili, ed ancor di più quella della gravidanza che nella saga di Alien non è sinonimo di creazione, quanto più di distruzione.
Decorso naturale nella biologia umana, invece in Alien: Romulus la maternità è correlata alla morte. Disgraziatamente Kay decede, privata della sua linfa vitale per mano (anzi, bocca) dell’Offspring nato dal suo corpo. La prole che divora la madre, il teatro dell’orrore che non ha cuore, bensì artigli e zanne fameliche.

Come fece a suo tempo Ridley Scott, Álvarez riscrive un nuovo concetto di creazione, quella aliena che non conosce sentimentalismi e che non prova compassione per nessuno. Il regista ha mostrato non poco coraggio, considerando che al giorno d’oggi bambini e donne incinte nel cinema sono intoccabili e protagonisti di lieti fine che scaldano il cuore. Ma ci troviamo nella Romulus, che prende il nome da Romolo, fondatore di Roma che secondo alcune leggende avrebbe ucciso il fratello Remo. Ma la Romulus qui non ha creato alcun impero glorioso, bensì il Fuoco di Prometeo, fluido tossico che avevamo già incontrato nel prequel Prometheus (2012), generatore di malignità e morte. Nulla è al sicuro nello spazio, neanche la vita più innocente, neanche un neonato che non ha alcuna colpa e peccato.
L’horror, come genere, ha offerto la libertà alla donna di esprimere non solo la propria paura, ma anche il lato più rabbioso e feroce, identità che sono sempre state considerate maschili, a vantaggio di una remissività femminile. Il mondo ci vuole obbedienti, arrendevoli, accondiscendenti e passive, ma in Alien: Romulus le donne lottano per la loro indipendenza e Rain è la perfetta final girl, nonché erede di tutto rispetto della stimata Ellen Ripley. Anche se non dotata di una forza fisica brutale, Ray sfrutta la sua scaltrezza come fosse un’arma da fuoco. Non è spinta da un trascinante desiderio di vendetta, quanto più da un istinto protettivo, specie nei confronti dell’androide Andy che vede come un fratello. Il personaggio interpretato da Cailee Spaeny è intelligente, sempre consapevole dell’incubo in cui si trova, ma anche dell’incubo in cui rimarrà intrappolata quando/se tornerà alla colonia. Rain è essenzialmente il surrogato di Ripley; tuttavia, mentre Sigourney Weaver ha interpretato il proprio ruolo da protagonista con intensa sicurezza e forza, il timore e l’incertezza di Spaeny su come agire, aggiungono uno lato interessante al suo personaggio stratificato.


Il film funziona anche grazie al suo cast, in particolare Cailee Spaeny e David Jonsson. La loro dinamica muta man mano che il film avanza, da amici per tutta la vita a mettere in discussione le motivazioni reciproche nel mezzo. Ma è Jonsson la star di questo film, nei panni di un androide che deve bilanciare ciò che è meglio per la sua migliore amica e ciò che è giusto per l’azienda per cui è stato creato. Mentre gli umani a cui è legato fanno scelte discutibili, Andy elimina le emozioni dall’equazione, controbilanciando le decisioni stupide a cui gli umani non possono fare a meno di appoggiarsi con i loro cuori e coscienze. Poiché Andy è in bilico tra l’umanità e i suoi impulsi da sintetico, ci troviamo dinanzi ad un personaggio che passa dall’essere sinceramente incerto sul suo posto in questo mondo, a concentrarsi in modo terrificante sulla sua missione. Jonsson interpreta magnificamente questa dinamica, caratterizzando un personaggio dal quale siamo immediatamente attratti, per poi ritrovarci nei panni di Rain, che deve fare i conti con ciò che suo “fratello” sta diventando. Gli androidi sintetici nel mondo di Alien ci hanno sempre fatto dono di figure avvincenti e carismatiche, come Ash di Ian Holm e David di Michael Fassbender, e Jonsson è più che mai un’eredità eccellente di questa stirpe di attori.

Alien: Romulus ha molte idee solide su come costruire questo universo terrificante in modi che non abbiamo mai visto prima, ma è un peccato che un’apertura e un finale così forti siano accompagnati da un film che è rimasto bloccato in così tanti rimandi e ricordi del (franchise) passato. I capitoli di Alien sono risultati sempre interessanti proprio per la loro natura insulare, in cui i registi hanno sperimentato le proprie teorie – nel bene e nel male – in un ambiente intrigante e libero, lasciando ad esempio a James Cameron (Aliens – Scontro Finale, 1986 ) spazio per inscenare il machismo militare ed a David Fincher (Alien³, 1992 ) il pessimismo ed i turbamenti inestricabili caratteristici del suo cinema. Anche se introdurre riferimenti ai film predecessori non è di per sé una cattiva idea, spesso mina i concetti unici che la pellicola di Álvarez sembra voler esplorare. Alien: Romulus dimostra che, affinché il franchise di Alien possa andare avanti, è necessario smettere di guardare così tanto indietro e tentare un approccio più temerario verso la ricerca di novità. Chissà se la preannunciata serie Alien: Earth sarà in grado di esaudire le nostre aspettative…




Ebbene sì, siamo giunti alla conclusione di questa recensione di Alien: Romulus, dopo quasi quattro mesi dall’uscita in sala. Lo confesso: ho avuto pensieri contrastanti sullo scriverne o meno, frenata probabilmente dal non aver a pieno realizzato se questo film mi sia piaciuto moltissimo o se invece mi ha fatto ribollire lo stomaco per il nervosismo. Ho atteso questo titolo con la stessa trepidazione con cui un bimbo brama di scartare i regali di Natale sotto l’albero, eccitata ed in egual modo intimorita di ciò che mi sarei ritrovata ad affrontare su quel grande schermo, in quel luogo sacro chiamato cinema.

Il primissimo Alien per me è l’Olimpo supremo dell’horror sci-fi, un film che ha consolidato il mio amore per un genere spesso bistrattato, un’opera che indubbiamente ha fatto la storia. C’è un prima e un dopo Alien. E per quanto la saga abbia spesso inciampato sui propri passi, peccando di presunzione (Prometheus) e scivolando nell’abisso del trash (Alien: Resurrection), a quella creatura ostile e letale io sono troppo legata. I corridoi bui della Nostromo per me sono casa, le note di Jerry Goldsmith mi cullano e terrorizzano in egual modo, potrei citarvi le iconiche battute di Ellen Ripley a memoria come se stessi recitando l’inno nazionale con vivido fervore. E dunque, per ritornare ad Alien: Romulus, anche se non è il film che mi aspettavo, gli perdono i passi falsi, perché per me è sempre una montagna russa introdurmi nell’universo orrorifico di questa saga. Ed ammettiamolo: possiamo abbandonare il costume di critico ogni tanto e concederci del puro intrattenimento, sudicio e ansiogeno come solo l’horror sa regalare, e divertirci nuovamente, perché il cinema è anche questo.
Dunque se anche voi ad ogni easter egg avete indicato lo schermo esattamente come Rick Dalton (Once Upon a Time… in Hollywood), emozionati di aver azzeccato gli innumerevoli omaggi/citazioni inseriti da Álvarez, non sentitevi sciocchi: sono una di voi, una bimba di Alien. Perciò grazie Fede, grazie perché mi hai regalato brividi e sussulti, mi hai fatto commuovere dinanzi l’apparizione dello xenomorfo originario, la visione di Mother, i momenti di assoluto terrore che resteranno indelebili nella mia memoria. Al prossimo sequel, sperando che possano permetterti assoluta libertà di esprimere la tua creatività, perché di te mi fido.
Grazie Fede Álvarez, ti voglio bene.
Angelica
