Le tartarughe del Papa tendono a scappare. Scorrazzano, dallo stagnetto su cui vengono riposte, fuggono spesso sulle zampette tozze, il loro guscio lucido ad accompagnarle, quasi rappresentassero le speranze costruite lungo un Pontificato di buona giustizia e tolleranza. Un periodo giunto al termine con la morte del Santo Padre, esattamente ciò che accade proprio all’inizio del film. Ed è questo, che il decano Thomas Lawrence (Ralph Fiennes) dice al cardinale – istituito in pectore – Vincent Benitez (Carlos Diehz) in una scena emblematica della nuova prodezza di Edward Berger. Conclave (2024).
Reduce dal grande successo ottenuto nel 2022 con “Niente di Nuovo sul Fronte Occidentale” prodotto insieme a Netflix, il regista si ripropone, due anni dopo, con un nuovo adattamento per il grande schermo. Il film, tratto dall’omonimo libro di Robert Harris – e con il quale, lo sceneggiatore Peter Straughan ha collaborato per una migliore e più longeva stesura di copione – vede le vicende di un gruppo di cardinali (un centinaio, per l’esattezza, e tra loro, alcuni più rivelanti di altri) alle prese con le elezioni. Sede Vacante; occhi puntati su San Pietro. Vatican decides, avrebbero detto in Succession – e no, stavolta non comparirà Tom Hanks a rovesciare le votazioni con i suoi enigmi.

A occuparsi dell’organizzazione del conclave, è Lawrence, il cui unico desiderio sarebbe, in realtà, quello di lasciare il lavoro e ritirarsi a vita privata. Sta passando una crisi, non tanto nel credere, dice, quanto più nel pregare. Eppure, il Papa, prima di morire, non accetta le sue dimissioni. Viene dunque da chiedersi se non sia proprio lui il perfetto manager – decano e guida – che non vorrebbe ma deve, dimostrandosi come il giusto esempio di una condotta ligia e ordinata. Se il primo pensiero è di offrire un’ottima permanenza ai cardinali provenienti da ogni angolo del mondo, Lawrence dovrà rendersi presto conto, che non potrà tacere la propria posizione e per necessità, in vista di un’elezione rischiosa, sarà costretto ad investigare sul passato e le azioni dei confratelli, eliminando, uno per uno, i favoriti dalla lista.
Posto in questi termini, Conclave può dirsi un thriller mystery dove Lawrence fa le veci di un Poirot investito dalla Curia? Sì, in parte, ma non del tutto. È un drama politico? Ne indossa la tonaca sicuramente, ma il film di Berger è molto di più.

Ovviamente, andando ad analizzarne i sotterfugi e le alleanze, le fazioni sono talmente ben definite da non lasciare spazio a fraintendimenti. Abbiamo il cardinale Aldo Bellini (Stanley Tucci) che con la sua vena liberarle, parla tanto, ma poco mette in pratica, se non rammentare – come le finte sinistre moderate di nostra conoscenza – quanto una disunione possa risultare pericolosa offrendo il fianco scoperto al tradizionalismo. Sta parlando del cardinale Goffredo Tedesco (Sergio Castellitto), un nostalgico, nonché conservatore ed estremista della vecchia dottrina; egli si dice pronto a distruggere ogni operato conquistato dal vecchio papa, qualora dovesse venire eletto. C’è poi il favorito (ma presumibilmente corrotto) cardinale Joseph Tremblay (John Lithgow) e il cardinale nigeriano Joshua Adeyemi (Lucian Msamati). Lo spettro politico – camuffato con l’accattivante resa del gossip ingrossato tra le tavolate circoscritte, così come avverrebbe in una qualunque mensa scolastica – è un’ottima facciata e permette al pubblico di godersi un botta e risposta intrigante predisponendo il clero alla mercé del quotidiano.

Quindi anche i cardinali giocano a scacchi, bevono più del dovuto o mangiano troppi tortellini; anche loro, seguendo potere e ambizione, stipulano accordi per raggiungere i voti necessari alla maggioranza e chi altri ancora, resta diviso tra la scelta pragmatica del meno peggio contrapposta alla moralità della fede.


Di tutto questo, il film ne ha sicuramente la facciata. Dopotutto, è dal 1952 che Don Camillo sfida a suon di pedalate il compagno Peppone lungo le stradine della bassa emiliana e, qualora non fosse stato abbastanza, a svestire la tonaca dalla sacra soggezione, ci aveva già pensato Sorrentino con “The Young Pope” nel 2016 – introducendo l’immagine nella cultura pop/camp più recente – e con “The New Pope” nel 2020 – conferendogli maggior spessore filosofico. Ma questi sono aspetti che possono dirsi, in parte, già integrati nel film di Berger, sia pure con più pulizia, linearità e meno goliardia. Il profano (inteso come la normalità di tutti i giorni, ovviamente) a braccetto con il sacro nelle sue abitudini e gestualità, non sono dunque una novità nel papacy cinematic universe, basti pensare a “Habemus Papam” (2011), dove Nanni Moretti aveva messo su un campo da pallavolo due squadre di cardinali intenti a servire e schiacciare, o ancora “The Two Popes” (2019) di Fernando Meirelles, in cui Ratzinger e Bergoglio passavano il tempo a tifare l’Argentina davanti al televisore.

L’opera di Berger si permette di andare oltre i generi toccati offrendo una soavità di fondo che lo spettatore, date le premesse, semplicemente non si aspetta. “È un film inquieto senza mai diventare inquietante” dice infatti Sergio Castellitto nell’intervista rilasciata a 7 (il settimanale del Corriere della Sera). Per ottenere questo, oltre a quanto citato in precedenza, ogni sfaccettatura dev’essere riportata al personaggio principale del decano Lawrence, nella cui presenza risiede la delicatezza della fede vacillante insieme al diletto dell’azione puramente umana. Conclave si snoda in due ore di calcolato equilibrio tra lui, che si concede un pianto privato al ricordo dell’amato Pontefice e il litigio con il fedele amico Bellini dinanzi ai ceri che, del papa, ne ricordano la dipartita. Lo vediamo poi (non) velatamente disgustato dai discorsi di Tedesco e impossibilitato a controbattere davanti a un principio di sospetto nei confronti di Tremblay. Alza la voce, ma non vorrebbe farlo. Investiga ma contro la sua volontà. Fin quando, non decide d’abbracciare il dovere, seppur con rigetto nel cuore, trovando nel bene superiore la vera spinta per occuparsi di ciò che, il Santo Padre sapeva, solo lui sarebbe stato capace di amministrare.

Lawrence – la cui personalità silenziosa e carezzevole eccelle soprattutto grazie al lavoro perfezionistico di Ralph Fiennes – sa passare, dunque, con estrema tenerezza, dall’essere un malinconico servitore degli eventi, al diventare un permaloso investigatore dei fatti. Il decano però ha bisogno di supporto. Non a caso, arriviamo alla scena che vede protagonista Suor Agnes – sia ringraziato il cielo per Isabella Rossellini! – momento iconico e inaspettato già entrato negli annali del cult, carpendo senza fatica alcuna l’attenzione in pochissimo minutaggio!

Siamo davanti a una voce femminile invisibile in un contesto di soli uomini e che, ciò nonostante, si dimostra capace di rovesciare la situazione dei potenti. Lo avevamo preannunciato: un pizzico di folclore pop e, con (neanche troppa) fantasia, si potranno trovare parallelismi tra questa pellicola e Gossip Girl o Mean Girls, poiché nei comportamenti dei cardinali non vi sarà niente di diverso dai battibecchi che rendono tali i teen drama – dove, tra le altre cose, spicca sempre un’ape regina e nel caso di Suor Agnes, parlando poco, ma osservando e ascoltando tutto, ne otterrà le veci diventando il testimone perfetto capace di zittire gli arroganti mentitori. Da un linguaggio così costruito sugli opposti ne deriverà un mondato umorismo di non detti, sguardi sbiechi, accusatori o complici – e pure il suono delle macchinette del caffè faranno il loro – rendendo il film di una leggerezza che conforta e che, insinuante, promette di lasciarsi consumare nei pensieri per più insistenti e rinnovate riflessioni sulla materia toccata.


La resa completa è il risultato di come dovrebbe esser scritto un buon lungometraggio di solide fondamenta espresse umilmente su pellicola, laddove però le inquadrature di Berger non cedono alla superficialità, creando vere opere d’arte – ridefinite nella fotografia di Stéphane Fontaine e incastonate nella colonna sonora ermetica di Volker Bertelmann. In seguito, giungeremo sino all’omelia del decano Lawrence, che veicola con puntualità tutto il fulcro del film. Il monologo sulla Certainty ruota attorno al misterioso cardinale Benitez riguardo ciò che la sua figura rappresenterà in conclusione: un plot twist decisivo, pronto a far tremare i bigotti tacciati per tali e che risolleverà, invece, gli animi degli ultimi. È facile ricollegarsi allora al sentore di amorevolezza con cui il film vuole accostarsi al pubblico, se da principio, la figura del decano che più dovrebbe rappresentare il conservatorismo, parla, al contrario, per sentimento e timore provando a comprendere, anziché giudicare. Inoltre, in un periodo storico tanto incerto – nel nostro come quello installato nel film – ammettere che la certezza è l’unico pericoloso nemico dell’unità, è rivoluzionario. Si sradica l’obsoleto – inimicandosi gli estremisti e allontanando i moderati – per aprire però le porte (letteralmente) a nuova e maggiore rappresentanza e rappresentazione.

È sollevante per tutti noi che del tentennamento costante ne facciamo una vita e, con Conclave, ci viene ricordato di come il dubbio ponga la possibilità all’ascolto; qualcosa d’impossibile, se ci servissimo soltanto dell’ assoluta arroganza del sapere.
Lawrence, pur incespicando nel percorso, all’inoffensività e all’omertà, sceglie d’agire. E la ricompensa non tarderà ad arrivare sul finire, quando il giusto, designato appositamente per i tempi correnti, sarà colui che non si discosterà e ne confermerà il bene delle sue azioni.


Conclave è davvero uno dei film più belli dell’anno, se non nelle sue premesse, sicuramente nella rivelazione con cui pone di manifestarsi a noi entrando in profondità. Fa dire ancora e con gratitudine: “il cinema è casa. Il cinema è di tutti e parla includendo chiunque”. Conferma che tale accoglienza può ritrovarsi in ogni dove, dalle Sacre Scritture a confermarlo, così come avrebbe dovuto mostrarsi da sempre nei secoli.
Laura
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Conclave vi aspetta al cinema dal 19 dicembre. Segnatelo sul calendario!
