Vent’anni che Itaca aspetta Odisseo. Vent’anni nei quali Penelope attende suo marito. The Return (2024), il nuovo film di Uberto Pasolini inizia il proprio viaggio alla stessa maniera del protagonista. Infatti, il regista ha necessitato di altrettanto tempo per sviluppare l’idea navigandoci attorno e sondando i temi epici per cercare la chiave narrativa adatta a esporli sul grande schermo. Narrami, O Musa, di quell’uomo di multiforme ingegno. The Return (“Itaca. Il Ritorno” il titolo italiano nei cinema dal 30 gennaio) è dunque una creatura che ha visto la luce solo durante l’anno appena trascorso, ma, per chiunque ne ami il soggetto e apprezzi la recitazione spartana – sorretta dai pochi ma buoni (e, sottolineiamolo, interpreti magistrali) – si potrà ben presto accertare, una volta entrati in sala, che l’attesa non sia stata vana.

Come fece Tolkien con il suo Frodo, Pasolini decide di porre su Odisseo l’archetipo del soldato afflitto dal trauma di guerra; un modo scarno e viscerale per raccontare la mestizia delle sorti, senza però diventare pedine in mano agli Dèi capricciosi. Una scelta che rende il protagonista più uomo che eroe, più mortale che simil divino. È l’Epica privata del sovrannaturale, il cui unico limite sono il libero arbitrio e il proprio abbattimento.

Il “compitino” – così chiamato da molti – condensato in due ore di film, è, invero, il risultato di un piccolo miracolo di saggia maestria e rifinitura. Incorniciato in una (prei)storica scenografia, selvaggia e arida, fornisce da subito una composizione dell’immagine curata ed evocativa – ottenuta grazie alla spola condotta tra il Peloponneso e Corfù, luoghi incontaminati per le riprese esterne, e dalla scelta d’interni più freddi e minimali ricalcando la stessa idea del teatro e del palcoscenico. Il palazzo reale, con le sue scale in pietra e l’ampio salone, diventa così la cornice in cui può essere istituito il fiorire dei personaggi in tutta la loro intimità. Gli attori non faticano a primeggiare, dunque, come staglianti figure nel complesso, prima, della natura ostile e poi, dell’asettica corte. È l’essenziale tramutato nell’esistenziale dove la mitologia trasmuta in metafisica. Lasciamo i mostri e le sirene a Mario Camerini; a noi vanno i brutali uomini e le loro guerre senza scrupoli e chi altri, ha seguito il dovere di re pagandone il prezzo, sia nello spirito che nella morale. Esistono solo la guerra e coloro che la portano ancora con sé.

The war. Everything. Waiting for me to make it happen again.

Un concetto tanto semplice quanto caro e necessario al regista da esser così introdotto nella sua personale rivisitazione degli ultimi canti dell’Odissea; una scelta che avrebbe, di per sé, perso mordente sul pubblico, se non fosse stato per il casting d’eccezione che vede come protagonisti indiscussi Ralph Fiennes e Juliette Binoche – qui alla loro terza collaborazione insieme dopo il Cime Tempestose del 1992 e Il Paziente Inglese del 1996. La sceneggiatura scritta da Pasolini insieme a John Collee e Edward Bond offre loro dialoghi volutamente risicati, studiati per incentivare una più precisa riflessione da parte del pubblico oltre che, ovviamente, sforzarne l’attenzione. Questo delicato processo è veicolato dalle sostanziali micro-espressioni mutualmente scambiate dall’uno all’altra – in aggiunta e nello specifico, al lavoro fisico/corporale condotto da Fiennes. Con devota e rispettosa chimica, entrambi sono infatti capaci di far urlare i silenzi e sussurrare parole da tempo dimenticate. Come ne osserviamo lo spavento trasmesso dagli occhi di Odisseo, attraversiamo anche lo smarrimento provando l’avversione per sé stessi al pari di una colpa; segue la tenacia e di nuovo il dolore, l’amorevole astio nelle attitudini di Penelope, il cui lento fuoco fomenterà gli ardenti tizzoni pronti a scalfire sul finire.

Si è volutamente scavato nell’eroe al fine di renderlo una conchiglia vuota, involucro dove solo la moglie vi troverà una breccia, spronandolo a tornare, non come l’uomo che è stato, ma come colui che è diventato accettandone le responsabilità e le conseguenze. Il risultato è un’integrità che spiazza ed il messaggio, contro la guerra e i suoi conflitti, sarà il lasciato del regista per noi. Certo, scomodare l’Odissea per simili filosofie può, a primo acchito, risultare ingenuo e pomposo – inoltre, va da sé, che per ampliare un ventaglio, se ne debba per forza chiudere un altro come il Telemaco di Charlie Plummer, particolarmente fastidioso e dimenticabile – ma ugualmente funziona, poiché, quando si applica l’Epica ai mali moderni, sviscerando sé stessa in contenuti pur sempre attuali, la soluzione e la risposta non tarderanno ad arrivare. Un’ostile complicità, questa, che rimbalza su più piani: dalla regia al pubblico e dal pubblico a Odisseo, il quale, non senza poche difficoltà (psicologiche ed emotive), riposerà infine nel suo ritorno a Penelope, accolto dalla docile quotidianità una volta perduta e adesso ritrovata.

The Return sposa anche il linguaggio shakespeariano con le primordiali tragedie occidentali facendo del porcaro Eumeo (Claudio Santamaria) il fido Orazio e di Antinoo (un ipnotico Marwan Kenzari) l’ambiguo Iago travestito da Romeo. Destrutturando loro, si sottolineerà l’interezza del legame che unisce i coniugi di Itaca e l’autenticità dei loro topos (il marito disperso e la moglie in attesa), poiché destinati a ritornare per l’eternità. È un film lento che conduce adagio alla realizzazione. Non vuole privarci di nessun attimo prezioso che possa servire a raccontarsi. Nel compimento vi è un nuovo inizio e prima che al protagonista indiscusso, spetta alla forte Penelope districarne i fili. Con fermezza, prima di dimenticare, intende conoscere, comprendere e soltanto quando lo si sarà fatto insieme, allora sì, si potrà dimenticare.

“I need to understand”. “You cannot understand. I cannot understand”. “We will. Your past will be my past. And mine, yours”. “Better to forget”. “We will remember. And we will forget together. And then we’ll live. And we’ll grow old. Friends again. Together”.

Laura