Mi perdonerà Kristin Scott Thomas se parafraso una delle sue citazioni interpretate in “Fleabag”, ma chissà, forse potrebbe apprezzare sapendo che lo stia facendo per uno dei suoi amici e colleghi più affezionati.
Se guardi oltre la finestra puoi vedere distante un campanile; non un’anima nei dintorni, ma dopotutto, chi ha bisogno delle persone?
Ecco una delle domande fondamentali a cui ogni arte ha cercato di dar risposta, non mancando, negli anni, di passare da un linguaggio all’altro. Il teatro, non essendo da meno, ha offerto il suo contributo in possibilità distanti e sempre attuali.
Per certo – e poiché si cita direttamente la canzone da cui prende il nome – una risposta al nostro interrogativo, la può dare “Small Hotel”. Diretto da Holly Race Roughan, questo testo teatrale porta la penna di Rebecca Lenkiewicz (co-writer per “Ida, 2013″ di Pawel Pawlikowski e “Disobedience, 2017” di Sebastian Leilo, nonché sceneggiatrice di “Colette, 2018”). Si tratta di un lavoro appositamente scritto per Ralph Fiennes, in ciò che, diventa chiaro sin da subito, vuole essere un connubio di idee e stilismi a lui conformi. È l’ultimo di tre progetti – “Grace Pervades” è stato il primo, scritto e diretto da David Hare (titolo in attesa del debutto londinese previsto per maggio dell’anno prossimo), va poi a succedergli “As You Like It”, Shakespeare diretto dallo stesso Fiennes. Tale programma drammaturgico è stato elaborato per la rassegna del piccolo, ma prodigioso, Theatre Royal di Bath, in collaborazione con l’attore inglese proprio per suo volere. In seguito al successo riscontrato con il film di Berger “Conclave”, egli non avrebbe fatto mistero della ragione, che lo ha riportato a casa dopo tanto clamore: condurre nuovamente la gente sotto un palco e, per lui come per il pubblico, viverlo visceralmente.


La celebrità è uno spauracchio dietro al quale si possono nascondere relazioni e vite private complesse, a volte traumatiche e insanabili. Il Piccolo Hotel di cui i protagonisti cantano, è il luogo dove essi vorrebbero incontrarsi; è una fiaba onirica, dolceamara nel suo gusto hollywoodiano e impersonale prima, più intima e fragile dopo. È dove il sogno di David Lynch si unisce all’ipocondriaco cinismo di Woody Allen. Il surreale e l’inverosimile amalgamati insieme dalla sagace ironia che pesa e sostiene l’asettica ricerca dei sentimenti nonostante tutto.
Larry è un acclamato host televisivo costretto ad affrontare il proprio passato in pompa magna dopo che l’intervista con Marianne (Rosalind Eleazar) – sua ex, una delle tante, ma la più importante – non va com’era stata programmata. Dal nodo che viene al pettine, il nostro protagonista dovrà anche decidere che scelte fare per costruire il futuro che lo aspetta, mal sopportando, nel frattempo, la madre pronta a rovinargli le giornate con la sua amabile passivo-aggressività. Tra una videochiamata del gemello Richard (sempre Ralph Fiennes, per nostra gioia) e una sfuriata della genitrice, Larry giungerà al punto in cui tutto questo diventerà solo una parentesi, il sogno comatoso lynchiano che egli racconterà da principio al pubblico, tramite le domande pertinenti postegli da un misterioso angelo della morte, Ava (Rachel Tucker), barista, ma anche ballerina di tip-tap con tanto di benda sull’occhio!

Si mettono a nudo vecchie infezioni, quelle che le persone si infliggono, le stesse che diventano traumi sentimentali capaci di ridefinire il carattere. Avremo Athena (Francesca Annis), figura di madre che sradica ogni amorevole archetipo, così afflitta dalla propria depressione, d’aver perfezionato, al pari di un narcisista patologico, l’abilità del sapere ferire i figli con crudele puntigliosità. Si aggiunge Richard, il gemello estremamente sensibile, troppo in verità, rispetto a quanto è socialmente accettabile per un uomo. Interessato all’ecosistema più che al proprio aspetto o alla vita sociale, è un tenero insieme di paturnie ed ansie. Come un riflesso solo in genetica, gli si contrappone occupando la piazza, il fratello protagonista, il quale, nella piena riuscita della sua carriera, nasconde una trafila di relazioni fallite (non meno ben due divorzi). Per questo Larry torna da Marianne: riscoprendosi in un passato diverso così come, all’uno e all’altra, conviene ricordarlo, uniti forse più dalla rivalsa che dall’amore (almeno all’inizio), quel tanto che basta a smentire e zittire il fiele di Athena.


A incasellare il tutto, è la regia di Roughan, minimale e funzionale all’azione. Dalle sue direttive, il palco è stato modificato per contenere una pedana circolare, le cui rotazioni agevolano il cambio di scena come un efficiente surrogato del sipario. L’effetto è il susseguirsi affrettato di una trama assai più dinamica del normale sposando ad essa il vario utilizzo di proiezioni vacue, che lasciano intendere strade trafficate e semafori immobili. Sono immagini lanciate a fondo sul telone di limite e all’occorrenza persistenti sulle silhouette come a voler “bagnare” gli attori in scena. È un già accaduto, un passato rivisto, un loop che Larry fatica a ricordare e che noi dobbiamo ancora conoscere; stiamo per affrontare ciò che è successo nello Small Hotel anni fa, alla stregua di un destino dolceamaro ormai scritto senza possibilità di cambiamento.
Dopo le proiezioni, quando il fratello Richard contatta Larry, sono le videochiamate ad arricchire la scena. Una magia teatrale. L’ennesima prova di quanto la materia del palco sia deliziosamente malleabile in mani sapienti, gettata così alle menti curiose di una platea. Richard viene presentato attraverso un video preregistrato, qualcosa di confezionato a doc nel passato, il cui uso serale per tutte le repliche, torna ad essere il presente, il qui e ora con cui Fiennes si interfaccia per un monologo camuffato da dialogo. Il minutaggio diventa essenziale, rasentando una sottile ilarità grazie al gioco meta-teatrale che si viene a creare.

There’s a small hotel
With a wishing well
I wish that we were there together
There’s a bridal suite
One room bright and neat
Complete for us to
Share together.
Un altro particolare in aggiunta è il ritornello della canzone. Incalzante, senza mai diventare troppo ossessivo, si intreccia al ronzio che Larry sente nella sua testa fino a infastidirgli l’udito; un allarme che avanza avvertendo noi che il prossimo cambio di scena è vicino, e lui che il timer del tornare cosciente è ormai agli sgoccioli. Il ritmo diventa tedioso in un secondo momento: quando viene rappresentato dai passi del tip-tap, che Fiennes, nei panni del personaggio è costretto a ripetere come fosse posseduto da Ava. Al pari di un’ombra, la barista/receptionist darà alla danza un significato diverso, abbandonando il sollazzo del ballo per renderlo pensiero e riflessione su movimento. Un passo dietro l’altro con cui sfiancare Larry, così che la sua pesantezza dell’essere rimbomberà nel teatro e dentro di noi. Insomma, niente che un attore del calibro di Ralph non riesca a fare!

Siamo ormai alla fine della pièce, l’ironia della sorte è sempre più vicina. Lo vediamo nella madre che gli si palesa nelle vesti di una principessa, leggiadra e giocosa come una bambina. Adesso è pronta ad accogliere il figlio per un viaggio che non includerà più i vivi. Lei che aveva azzardato la minaccia del suicidio – e non senza parole scottanti devolute allo svilimento del figlio – compie l’estremo gesto per poi essere seguita da Larry stesso, dipartito per uno scherzo del tragico destino. Giace lì tra le luci al led di strade trafficate e semafori immobili. Ava, l’ultimo volto che il protagonista ricordi prima dell’oblio, è colei che gli presta soccorso invano. Sono lontani i dialoghi dalla parvenza comica, nei quali si ironizzava sull’assurda idea che il gemello più forte avesse privato al fratellino la quantità di ossigeno necessaria a sviluppare una cognizione mentale più elevata; lontani quelli dove si supponeva che entrambi avessero ucciso nel grembo materno una terza sorella gemella mai nata (un qualcosa che non si può scordare, ve lo garantisco, forse la mia scena preferita in assoluto).

Le relazioni umane, gli affetti compiono infine il loro prodigio unendo nel lutto due persone tanto diverse quanto sole, afflitte da un dolore comune e vicino. Il teatro è proprio questo. Parla laddove storie e personaggi sanno di vissuti lontani e spesso improbabili rispetto alle proprie esperienze, riuscendo ugualmente ad arricchirci. È tendersi la mano senza guardarsi negli occhi, stesi nella fredda terra col cuore ancora pulsante di vita. Come Richard e Marianne.
È una prova di fiducia; l’immagine tenta di combaciare ai nostri margini, mentre dal pubblico guardiamo chi si mette a nudo nei panni degli altri.
E non vi è alcun dubbio che Roughan, Lenkiewicz, Fiennes e tutta la crew siano riusciti nell’intento di offrire alla sesta arte una nuova storia nella quale perdersi e riflettere.
Laura

