2ff57e4c998b8bca31c8c60dbbfa09ef_XL“Non so cosa teneva “dint’a capa”,
intelligente, generoso, scaltro,
per lui non vale il detto che è del Papa,
morto un Troisi non se ne fa un altro.
Morto Troisi muore la segreta
arte di quella dolce tarantella,
ciò che Moravia disse del Poeta
io lo ridico per un Pulcinella.
La gioia di bagnarsi in quel diluvio
di “jamm, o’ saccio, ‘naggia, oilloc, azz!”
era come parlare col Vesuvio,
era come ascoltare del buon Jazz.
“Non si capisce”, urlavano sicuri,
“questo Troisi se ne resti al Sud!”
Adesso lo capiscono i canguri,
gli Indiani e i miliardari di Holly-wood!
Con lui ho capito tutta la bellezza
di Napoli, la gente, il suo destino,
e non m’ha mai parlato della pizza,
e non m’ha mai suonato il mandolino.
O Massimino io ti tengo in serbo
fra ciò che il mondo dona di più caro,
ha fatto più miracoli il tuo verbo
di quello dell’amato San Gennaro.

(Roberto Benigni)

C’è una scena de Il Postino in cui si vede lui inquadrato di spalle, che sorregge la bicicletta mentre guarda il mare distendersi all’infinito: è così che immagino Massimo, quando lo penso; ancora lì che segue le onde dalla scogliera.

E anche ora che ne scrivo, a più di vent’anni dalla sua morte e dall’uscita dell’ultimo film, la magia non si perde: sono convinta lui se ne stia lì sotto il sole, passandosi le mani sulla faccia e giocherellando con i piedi, ad aspettare qualcosa, qualcuno o nessuno.
Sempre lì, con quella paura di disturbare che lo precede, i grandi occhi castani sgranati dei bambini, le labbra sottili arricciate in un sorriso insicuro, le dita tra i riccioli neri fitti fitti come intente a tessere pensieri accavallati sulla testa, incerti sull’uscir fuori o meno.
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Massimo Troisi nel suo primo film, “Ricomincio da tre” (1981)

Massimo come Gaetano, Vincenzo, Mario, Camillo, Tommaso e ancora Mario, protagonisti delle sue storie, diversi ma uguali, accomunati dalla mimica inconfondibile, dal coraggio di essere insicuri e di non avere risposte, dall’incertezza sul proprio valore umano, sul giudizio altrui, sul come e quando iniziare a vivere, sui sentimenti, sul mondo. Accomunati dall’umanità.

L’amore di Troisi per l’umanità è innato, quello per il cinema nasce quando esce nelle sale Edipo Re di Pasolini, destinato a diventare poi il suo regista e poeta preferito: “Lo vidi a San Giorgio a Cremano, da ragazzino. Non capii niente, eppure ne fui affascinato.”

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Massimo Troisi e Roberto Benigni sono rispettivamente Mario e Saverio nel celeberrimo “Non ci resta che piangere” (1984), una delle commedie più intelligenti e divertenti del cinema, che suggellò una grande amicizia tra i due artisti.
Ci furono poi Martin Scorsese, Nanni Moretti, Woody Allen e François Truffaut, tutti ritrovabili in molte situazioni e tanti personaggi raccontati dal Troisi autore degli anni ’80 e ’90.
E così Gaetano, Vincenzo, Mario, Camillo, e Tommaso sono tutti un po’ Massimo, tutti un po’ lo stesso personaggio in un posto, in un contesto ed in un’epoca diversa, che cresce nel mondo esteriore ed interiore, tutti un po’ Antoine Doinel (il celeberrimo protagonista prediletto di Truffaut) che si guarda allo specchio e ripete incredulo il suo nome, come se dirlo tante volte lo rendesse più vivo.
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Con Francesca neri in “Pensavo fosse amore, invece era un calesse” (1992), riflessione romantica e comica sulle relazioni amorose e sull’incertezza dei sentimenti nel mondo contemporaneo.

Un percorso formativo, quindi, quello di Troisi nel cinema, che va arricchendosi ed espandendosi di film in film, di frase in frase, di ricciolo nero in ricciolo nero: se nell’81 racconta di un giovane disilluso ma volenteroso che lascia Napoli per cercare fortuna a Firenze, trovandovi l’amore ed una sorta di futuro, dieci anni dopo quel ragazzo si fa uomo, scambia un calesse per un amore e non sa più fare piani per il domani.

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Come padre e figlio: Massimo con Marcello Mastroianni, suo amico e collega nei due film di Ettore Scola di cui furono protagonisti “Splendor” (1988) e “Che ora è?” (1989)

Insomma, sono anni infami per la commedia all’italiana, ed è quasi per gioco che questo ragazzino di San Giorgio a Cremano, finita la scuola per geometri e dopo un lungo periodo di geniale cabaret con “La Smorfia”, si lancia nel cinema e diventa, per citare il suo grande amico Benigni “un bel ragazzo, un bell’autore, un bel regista, un bell’attore”.

Giovanissimo, scrive le sceneggiature dei suoi film insieme alla compagna Anna Pavignano -al tempo studentessa di psicologia-, raccontando qua e là, tra una scena e l’altra, pillole del loro rapporto e della loro vita quotidiana: è proprio così, grazie al realismo delle situazioni ed alla bellezza della quotidianità, che emerge il lato tenero di Troisi, quello che ne contraddistingue la vicinanza al pubblico intero, perché tutti siamo un po’ Massimo… O meglio, c’è un po’ di Massimo in ognuno di noi.
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1989: Massimo vince la Coppa Volpi al Festival del Cinema di Venezia insieme a Marcello Mastroianni per le loro splendide interpretazioni in “Che ora è?” di Ettore Scola

C’è sempre Napoli, anche e soprattutto nella lingua -che lui non adatterà mai a cambiare in italiano standard, ma chiamarlo l’artista di Napoli è riduttivo: le sue storie sono universali, oltre gli spazi, i tempi e le etichette che la critica ha sempre cercato di affibbiargli con quelle frasi tipo “l’antieroe della commedia italiana”, “la voce della gioventù precaria italiana”, “il volto della Napoli moderna”, “il nuovo Eduardo”, “il Woody Allen italiano”, “il Buster Keaton partenopeo” ecc. ecc. Certo, dei punti in comune con Eduardo -ad esempio- ci sono: si pensi all’assenza totale di volgarità e cadute di stile, alla classe principesca ed alla grazia semplice nel far sorridere. Somiglianze con Allen -pure- ci sono, ma forse vanno ricercate più nella scelta di fare commedia a partire dall’intimismo, da sé stessi, piuttosto che dalla politica, dalla storia, dagli altri, come fan tutti.

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Con Amanda Sandrelli, sua amica e partner in “Non ci resta che piangere” (1984)

Perché Troisi, nella sua opera, parla solo di sé e di ciò che fa parte del suo piccolo grande mondo (esteriore ed interiore), ed è proprio questo il segreto del suo successo ancora così vivo ed attuale oggi, come vent’anni fa: perché ciascuno di noi -almeno una volta- si è riconosciuto in un frammento di un suo film, in una paura, in un sogno, in un gesto, in un pensiero di un suo personaggio, che fosse la gelosia di Gaetano davanti allo specchio, la paura di Vincenzo del giudizio altrui, la paralisi mentale e fisica di Camillo per un amore perduto, l’insicurezza narcisistica di Tommaso…

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Con  Jo Champa, sul set de “Le vie del Signore sono finite” (1987), in cui si racconta una storia d’amore e di paralisi psicosomatica al tempo del fascismo | MOVIEPLAYER

Tra tutte le perifrasi coniate per parlare di Massimo, ammetto ce ne siano un paio che mi piacciono proprio tanto, o che quantomeno condivido: una è Pulcinella senza maschera, che valorizza la carica espressiva -a metà tra la commedia dell’arte e la naturalezza più pura- e mimica di un artista che (alla stregua davvero di Keaton e Chaplin) può tranquillamente essere guardato ed apprezzato anche a volume spento, tanto ci si perde in quelle facce, quei gesti e quelle mosse impacciate, articolate e incredibili. Perché alla presenza scenica al contrario di Troisi non si può restare indifferenti: è come poesia visiva, una musica fisica, una tarantella spezzata, un fiorellino che resiste alle intemperie.

Qualcuno poi, più banalmente ma non casualmente, l’ha chiamato il comico dei sentimenti, per quel suo porre sempre al centro della commedia l’umanità, le passioni, i moti e le paure della gente, e non i complessi sistemi politici ed economici su cui -come insegnava il teatro aristofaneo– è più semplice far ridere un popolo, agglomerato tutto ed inglobato in una sfera culturale comune che li rappresenti in quanto collettività.

Ed è proprio così, dalla scelta di appoggiare le sue direzioni artistiche all’animo umano, e non al senso civico/politico/culturale del suo paese, che Troisi ha saputo trascendere Napoli prima di tutto e l’Italia poi: non fa sorridere e commuovere solo i suoi connazionali, ma chiunque sia fortunato abbastanza e dotato di una giusta sensibilità per cogliere la sua arte, che non so mai decidere se considerare bella perché semplice ed immediata o perché fuori dalla portata comune. Forse entrambe le cose.

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Con il grande amico di una vita, Pino Daniele, negli anni Novanta.
Troisi e i sentimenti, quelli veri, cioè quelli che non si dicono, non si realizzano, non si capiscono nemmeno, ma esistono e muovono gli errori e le incertezze di personaggi più che umani, a passeggio sul lungomare, bloccati in una sedia a rotelle per una paralisi più mentale che fisica, indecisi se sposarsi o scappare, o a letto con febbri psicosomatiche, per la paura di scendere in città a concretizzare i moti del cuore. Quei sentimenti che proviamo tutti, e che a lui piaceva raccontare con spirito d’ironia dolce-amara, quasi a volerci dire che siamo tutti nella stessa barca, nello stesso mare, nella stessa tempesta.
Perché Massimo è anche e soprattutto questo.

E poi ovviamente uomini e donne, quel loro essere le persone meno adatte a sposarsi tra di loro, e l’attenzione spiccata per la sensibilità femminile ed il mondo delle ragazze.

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“Scusate il ritardo” (1983): Massimo (Vicenzo) bacia Giuliana De Sio (Anna), uno dei personaggi femminili più belli in assoluto della sua filmografia.
Che storia: siamo negli anni in cui imperversa la commediaccia sexy all’italiana, il suo squallore maschilista e la pochezza dei caratteri, e lui -pah!- vi contrappone, una smisurata attenzione per l’intelligenza, l’arguzia e la forza delle donne, le vere protagoniste delle sue storie, le uniche a sapere cosa vogliono, le più moderne, emancipate, libere, scaltre.

È così che fa sentire, chiara più che mai, la paralisi e la crisi del maschio moderno, iniziata con Joyce e Svevo e portata avanti in letteratura come nel cinema da personaggi come -ad esempio- Charlie Chaplin e Nino Manfredi (guarda caso, tremendamente vicini al suo modo di sentire e di recitare): fa sorridere ripensare ai crolli dei suoi uomini di fronte a fidanzate sempre più indipendenti, e fa un incredibile piacere leggere una completa assenza di giudizi morali nei confronti della nuova e tanto agognata libertà sessuale femminile, che -anzi- Troisi vede come l’ennesima riconferma dell’incredibile superiorità delle ragazze.

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Massimo e Anna Pavignano, sua storica compagna d’amore e scrittura, coautrice di tutte le sue splendide sceneggiature, nonché mente ideatrice di moltissime sfaccettature psicologiche interessanti dei personaggi (specie quelli femminili) dei film.
Quindi ecco il perché di quegli intrecci amorosi che vedono un maschio sempre ed inevitabilmente piccolo e incerto, come un bambino, di fronte a donne che -a volte sì, ma- non per forza e sempre vogliono fargli o fare da madri in generale; perché la femmina nel cinema di Troisi non è nata per essere sicuramente madre, figlia, sorella o amante, quanto piuttosto compagna di avventure, sempre tre o quattro passi più avanti, spazientita ma dolce, divertente e umana, più che umana, unica tra tutti a contribuire davvero alla crescita interiore del protagonista.
C’è umanità, c’è femminismo, c’è poesia, c’è musica di onde che s’infrangono su scogli, e scogli su cui siedono personaggi comuni, che hanno un mondo nel cuore e non riescono ad esprimerlo con le parole.
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Insuperabile ne “Il Postino” (1994), che gli valse una più che meritatissima nomination all’Oscar nel ’96.
E il cuore. Quel cuore rumoroso, come un orologio tra le costole, che per Massimo fu amico e traditore, miracolo e sventura, un dono ed un peso troppo grosso.
Quel cuore che gli aveva insegnato ad ascoltare la vita con l’anima e a raccontare le storie essenziali, a far poesia dal niente e ad avere occhi per tutto.
Quel cuore fragile, che gli impedì -da bambino- di giocare a pallone, di correre e salterellare troppo, che si spezzò sul più bello, quando -nel 1994-, buttandosi a capofitto, anima e corpo, nel progetto de Il Postino, disse che non si sarebbe sottoposto a nessun secondo trapianto prima della fine delle riprese, perché “questo film lo voglio fà co’ ‘o core mio”. 
E lo fece. Fino all’ultimo respiro.

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La favola bella e crudele di Massimo Troisi è quasi leggenda: venuto fatalmente a mancare proprio alla fine dell’ultimo giorno di riprese di quel meraviglioso film che gli costò la vita ma che gliene diede un’altra, si trasformò in una figura quasi mitica, nel mio immaginario tutto blu e rivolto verso la luce e le nuvole, sopra il celeste del mare. E vi giuro che sta ancora lì, sulla scogliera, a ricordarci che la poesia non è mai di chi la scrive, ma di chi gli serve.
Carmen
(Parte del titolo è stata ripresa dal libro “Massimo Troisi – Comico per amore” di Matilda Hochkofler)